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Cassazione civile sez. II, 07/11/2024, n.28703

Massima

Ai fini dell’usucapione, il requisito della non clandestinità va riferito non agli espedienti che il possessore potrebbe attuare per apparire proprietario, ma al fatto che il possesso sia stato acquistato ed esercitato pubblicamente, cioè in modo visibile a tutti o almeno ad un’apprezzabile e indistinta generalità di soggetti e non solo dal precedente possessore o da una limitata cerchia di persone che abbiano la possibilità di conoscere la situazione di fatto soltanto grazie al proprio particolare rapporto con quest’ultimo o alle peculiari modalità di fruizione del luogo.

Supporto alla lettura

USUCAPIONE

L’usucapione è un modo di acquisto a titolo originario della proprietà mediante il possesso continuativo del bene immobile o mobile per un periodo di tempo determinato dalla legge. L’istituto dell’usucapione, disciplinato dagli articoli 1158 e seguenti del codice civile, configura una delle ipotesi di acquisto di un diritto su beni mobili o immobili a titolo originario. Per il suo compimento infatti, a differenza degli acquisti a titolo derivativo, non necessita della collaborazione o del consenso di chi era in precedenza titolare del diritto usucapito. Per l’usucapione sono necessari i seguenti requisiti:

• La prima è l’“animus possidendi” cioè la a volontà di possedere un bene come si fosse titolari del diritto di proprietà o dell’altro diritto corrispondente.

• La seconda è l’“animus rem sibi habendi” cioè la volontà di tenere un bene esercitando i poteri corrispondenti a quelli del titolare del diritto reale.

• La terza è il “corpus possessionis”. Questo è lo stato di fatto che si configura in modo tale da far apparire il possessore quale titolare del diritto reale corrispondente.

Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 5087, depositata il giorno 5 marzo 2014 riconoscono la possibilità di usucapire l’azienda con il possesso continuato ventennale. Secondo la Suprema Corte l’azienda, ai fini della disciplina del possesso e dell’usucapione, quale complesso di beni organizzati per l’esercizio dell’impresa, deve essere considerata come un bene distinto dai singoli beni che la compongono, e quindi suscettibile di essere unitariamente posseduta e, nel concorso degli altri elementi indicati dalla legge, usucapita. Secondo la Corte, se il possesso si esercita sulla cosa, e se si intende il termine “cosa” in senso economico-sociale, si possono considerare “cose” anche beni non corporei, come i beni immateriali (proprietà intellettuale, ad esempio) o complessi di beni organizzati, come ad esempio l’azienda, definita dal codice civile stesso come complesso organizzato di beni per l’esercizio di una impresa.

La Corte esprime una concezione “oggettivata” dell’azienda che, senza cancellare il suo collegamento organizzativo e finalistico con l’attività d’impresa, assume una propria autonomia di “cosa”, possibile oggetto di rapporti giuridici e di diritti. Occorre a tal fine separare l’azienda intesa come cosa, dall’insieme dei singoli beni e dall’esercizio dell’impresa.

I giudici in tal senso adducono quali esempi tipici di dissociazione tra proprietà dell’azienda intesa come “res” e esercizio dell’impresa il caso della successione mortis causa a favore di soggetti non imprenditori, l’affitto e l’usufrutto di azienda.

In tutti questi casi la proprietà della stessa è sganciata dal suo esercizio, in quanto l’azienda è nella disponibilità del proprietario della “cosa” senza che da parte dello stesso vi sia esercizio dell’attività di impresa.

Ambito oggettivo di applicazione

Fatto

FATTI DI CAUSA
1. Ni.La. ed Ni.El. convenivano in giudizio – dinanzi al Tribunale di Savona – Ga.Gi. per ottenere il rilascio di una porzione di immobile da considerarsi dallo stesso abusivamente occupata, oltre che per l’ottenimento del correlato risarcimento dei danni.

In particolare, le suddette attrici esponevano di essere proprietarie di un negozio sito in A, Piazza Pa, dotato di una scala, che conduceva al piano superiore e che non era più utilizzata da tempo. Avevano scoperto con sorpresa che il citato convenuto si era appropriato del vano sottoscala, che era stato murato, nel quale aveva ricavato un locale bagno WC al servizio del negozio di sua proprietà, confinante con quello di esse attrici.

2. Si costituiva in giudizio il Ga.Gi., il quale sosteneva di avere posseduto pacificamente e pubblicamente, senza opposizione delle attrici, la porzione di immobile in contestazione, incorporata nel negozio di sua proprietà a far data dagli anni settanta e proponeva domanda riconvenzionale di usucapione.

3. Il Tribunale savonese – con sentenza n. 13/2017 -accoglieva la domanda riconvenzionale di usucapione e respingeva quella principale delle attrici.

4. Ni.La. ed Ni.El. proponevano appello contro l’indicata sentenza di primo grado, negando la sussistenza dei presupposti dell’usucapione e, in particolare, la pubblicità del possesso.

5. L’appellato resisteva al gravame, opponendosi al suo accoglimento.

6. La Corte d’Appello di Genova – con sentenza n. 307/2020 -accoglieva l’appello e, in riforma della sentenza del Tribunale di Savona, rigettava la domanda riconvenzionale di usucapione del convenuto-appellato e riteneva fondata la domanda delle attrici-appellanti, con condanna del Ga.Gi. al rilascio della porzione di immobile oggetto di controversia, con eliminazione delle opere e dei manufatti abusivamente realizzati.

La Corte ligure accertava la clandestinità dell’acquisto del possesso e rilevava che, da quando era cessata la clandestinità, non era decorso, prima dell’introduzione dell’avversa azione, il termine di venti anni utile “ad usucapionem” ai sensi dell’art. 1158 c.c. .

Secondo le appellanti il possesso era stato acquistato dal Ga.Gi. in modo violento e clandestino, all’insaputa delle proprietarie, che avevano scoperto il fatto – casualmente – a distanza di anni.

Il Tribunale aveva superato tale profilo con un’argomentazione non condivisibile circa il fatto che le attrici potevano liberamente accedere al loro immobile, anche se era condotto in locazione da terzi. Tale affermazione non teneva conto del fatto che dal negozio delle Ni. non era possibile vedere il sottoscala, che era stato murato come riferito anche dal CTU (il negozio delle Ni. era diviso in due parti non comunicanti tra loro ed era occupato – da una parte – dal WC annesso al negozio confinante).

Le attrici non potevano accorgersi del fatto che – dall’altra parte – il proprietario del negozio confinante aveva abbattuto il muro divisorio ed era entrato nel loro sottoscala accorpandolo al suo immobile. Per accorgersene – ed avere cognizione del fatto -dovevano entrare nel negozio confinante.

La cessazione della clandestinità del possesso poteva essere ricondotta al 1995 quando le attrici erano venute a conoscenza dell’appropriazione del bagno da parte del Ga.Gi., sicché al momento della domanda di rilascio risalente al 2014 non erano ancora passati i 20 anni necessari ai fini dell’usucapione.

La conoscenza delle Ni. non poteva farsi risalire agli altri fatti indicati dalla difesa del Ga.Gi. Non alla redazione di una bozza di transazione negli anni settanta, da parte del legale del Cornelli, dante causa del Ga.Gi., mai sottoscritta dal padre delle Ni.. Nemmeno al deposito di una planimetria in Comune, fatto inidoneo – questo – a rendere pubblica la conoscenza del possesso, nel senso – almeno – in cui la conoscibilità deve intendersi per rendere pubblica l’esistenza del possesso.

La Corte rigettava la domanda di risarcimento del danno, ma la questione non rileva nel presente giudizio.

7. Ga.Gi. ha proposto ricorso per cassazione avverso la suddetta sentenza.

8. Ni.La. ed Ni.El. hanno resistito congiuntamente con controricorso.

9. Il consigliere delegato ha formulato proposta di definizione del giudizio ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c., ritualmente comunicata alle parti.

10. A seguito di tale comunicazione, la parte ricorrente, a mezzo del difensore munito di nuova procura speciale, ha chiesto la decisione del ricorso.

11. È stata fissata l’adunanza in camera di consiglio ai sensi dell’art. 380-bis.1 c.p.c..

12. Entrambe le parti con memoria depositata in prossimità dell’udienza hanno insistito nelle rispettive richieste.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Il primo motivo di ricorso è così rubricato: Art. 360, n. 3, c.p.c. in relazione agli artt. 1158 e ss., 1163 c.c., nonché gli artt. 115 e 116 c.p.c.: Violazione delle norme relative all’acquisto della proprietà per usucapione ed errata applicazione della norma che esclude, ai fini dell’usucapione, il possesso clandestino; nonché violazione delle norme poste a fondamento della disponibilità e della valutazione delle prove; art. 360, n. 5, c.p.c. omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti.Con detto motivo si prospetta che la Corte di Appello non ha esaminato due circostanze di fatto, da reputarsi assolutamente pacifiche e, peraltro, menzionate nella stessa sentenza impugnata, idonee a retrodatare l’inizio del possesso di oltre due decenni e a provare la conoscenza da parte delle attrici del possesso esercitato da esso convenuto (e dai suoi danti causa), escludendo così radicalmente ogni ipotesi di clandestinità.

Infatti, il Ga.Gi. allega di aver prodotto un documento, consistente in una lettera dell’avv. (omissis), legale del suo dante causa, del 29.1.1975, con allegata una bozza di transazione, in cui si dava atto del possesso esercitato dal dante causa dello stesso sul bene oggetto di causa; inoltre, parte attrice ha prodotto in giudizio, quale atto di provenienza, un atto di vendita del 1967, col quale l’immobile era stato acquistato dal dante causa delle medesime attrici e al quale era allegata una mappa catastale che dava già atto dell’annessione del locale conteso al negozio di proprietà oggi di esso ricorrente.

Da tali documenti – ad avviso del Ga.Gi. – risulterebbe in modo incontestabile la conoscenza in capo alle controparti del possesso esercitato da esso ricorrente e, prima di lui, dal suo dante causa. Come detto sopra, si precisa che la prima circostanza -quella relativa alla bozza di transazione trasmessa dall’avv. Preve nel 1975 alla controparte – è addirittura menzionata nella sentenza della Corte di Appello nella narrativa del fatto ma non viene esaminata nella parte di motivazione relativa alla presunta clandestinità del possesso; la seconda circostanza, invece, viene ignorata del tutto.

Quindi, si sostiene che, in effetti, la Corte ha omesso di esaminare una circostanza decisiva per il giudizio.

Ciò porterebbe inevitabilmente alla sussistenza della violazione degli articoli 1158 e 1163 c.c. e alla errata applicazione dell’istituto della clandestinità del possesso.

2. Il secondo motivo di ricorso è così rubricato: Art. 360, n. 3, c.p.c. in relazione agli artt. 1158 e ss., 1163 c.c., nonché agli artt. 115,116,132, n. 4, e 161 c.p.c.: Violazione delle norme relative all’acquisto della proprietà per usucapione ed errata applicazione della norma che esclude, ai fini dell’usucapione, il possesso clandestino; nonché violazione delle norme poste a fondamento della disponibilità e della valutazione delle prove nonché relative all’obbligo di motivazione della sentenza; Art. 360, n. 5, c.p.c. omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti.

Con detto motivo di ricorso si denuncia che la Corte di Appello ha violato gli artt. 1158 e 1163 c.c. e non ha esaminato le circostanze di fatto, pacifiche ed incontestate, essenziali ai fini del decidere, in quanto, pur richiamando il principio in diritto secondo cui il possesso utile ai fini dell’usucapione deve essere pubblico ossia “visibile a tutti o almeno ad una apprezzabile ed indistinta generalità di soggetti”, la stessa ha di fatto violato questo principio non applicandolo alla fattispecie, nella quale il locale oggetto del contendere era annesso ad un negozio di parrucchiere e, quindi, il possesso era stato pacificamente esercitato nell’ambito di un esercizio commerciale aperto al pubblico, dunque “visibile a tutti o almeno ad una apprezzabile indistinta generalità di soggetti”. Si aggiunge che la Corte territoriale ha totalmente ignorato questa circostanza di fatto pacifica.

Quindi la Corte di Appello avrebbe violato gli artt. 1158 e 1163 c.c., avrebbe applicato erroneamente l’istituto della clandestinità ad un possesso pacificamente pubblico, avrebbe omesso di considerare, appunto, che il possesso era esercitato in un locale aperto al pubblico.

3. Il terzo motivo di ricorso è così rubricato: Art. 360, n. 3, c.p.c. in relazione agli artt. 1158 e ss., 1163 c.c., nonché agli artt. 115 e 116 c.p.c.: Violazione delle norme relative all’acquisto della proprietà per usucapione ed errata applicazione della norma che esclude, ai fini dell’usucapione, il possesso clandestino; nonché violazione delle norme poste a fondamento della disponibilità e valutazione delle prove; art. 360, n. 5, c.p.c. omesso esame circa un fatto decisivo della controversia oggetto di discussione tra le parti.

Con detto motivo il ricorrente deduce che la Corte di Appello ha errato nell’applicazione degli artt. 1158 e 1163 c.c., facendo coincidere, in sostanza, la clandestinità del possesso con la mera ignoranza del soggetto interessato o, comunque, ritenendo integrati gli estremi della clandestinità a fronte della sussistenza di meri impedimenti, assolutamente superabili, alla conoscenza del titolare del possesso, senza valutare se tale (presunta) ignoranza fosse dipesa dalla volontà o dalla inerzia delle parti attrici che avevano omesso di esercitare i propri obblighi dominicali.

Sotto questo profilo, si adduce che la Corte di Appello ha, altresì, omesso di esaminare le circostanze di fatto pacifiche, risultanti dallo stesso atto di citazione e dalla CTU – attinenti allo stato dei luoghi e all’atto di acquisto del bene da parte dell’attore -che dimostrerebbero in modo inequivocabile la conoscenza e/o la conoscibilità da parte delle Ni. del possesso in capo ad esso Ga.Gi.

4. Il quarto motivo di ricorso è così rubricato: Art. 360, n. 3, c.p.c. in relazione agli artt. 948,2697 c.c., nonché agli artt. 115,116,132 n. 4, 161 c.p.c.: violazione e falsa applicazione delle norme di diritto; nonché violazione delle norme poste a fondamento della disponibilità e valutazione delle prove e dell’obbligo di motivazione della sentenza, art. 360, n. 5, c.p.c. omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti.

Con questo motivo, si deduce che la Corte di Appello – dopo aver rigettato la domanda riconvenzionale di usucapione – ha adottato una sorta di “automatismo”, tale per cui, dal rigetto della domanda riconvenzionale, ha fatto discendere automaticamente l’accoglimento della domanda attrice, senza alcuna motivazione.

Al contrario, la Corte territoriale avrebbe dovuto comunque esaminare la fondatezza della domanda attorea, valutando le prove fomite dalle parti attrici a supporto delle proprie domande.

In questo modo la Corte avrebbe dovuto considerare che, trattandosi di domanda di rivendica della proprietà, le attrici erano gravate dell’onere della probatio diabolica e avrebbe dovuto prendere atto che tale onere probatorio non era stato sicuramente assolto dalle Ni., essendosi limitate ad allegare due atti di acquisto, uno del 17.12.1993 e l’altro del 20.7.1967, evidentemente inadeguati a sorreggere lo standard probatorio richiesto dagli artt. 948 e 2697 c.c.

5. Il quinto motivo di ricorso è così rubricato: Art. 360, nn. 2 e 4, c.p.c. in relazione agli artt. 132, n. 4), 161 c.p.c. nonché degli artt. 948 e 2697 c.c., violazione delle norme relative all’onere della prova e all’obbligo di motivazione della sentenza; art. 360, n. 5, c.p.c. omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti.

Il motivo – proposto per scrupolo difensivo – si fonda sulla ipotesi in cui si ritenga che la Corte di Appello abbia implicitamente qualificato la domanda introduttiva non come domanda di rivendica di proprietà e, conseguentemente, non abbia ritenuto applicabile alla fattispecie la probatio diabolica. In tal caso, comunque, la decisione sarebbe priva di motivazione sulle ragioni di tale diversa qualificazione e, comunque, erronea.

6. La proposta di definizione del giudizio formulata ai sensi dell’art. 380-bis è di inammissibilità e/o manifesta infondatezza del ricorso per le seguenti ragioni: “Primo, secondo e terzo motivo: inammissibili, o comunque manifestamente infondati, in quanto essi attingono la valutazione di fatto del giudice di merito, in relazione alla sussistenza dei presupposti per il riconoscimento dell’usucapione ed alla valutazione della relativa prova. La Corte di Appello, riformando la decisione di prime cure, ha ritenuto non conseguita la prova del possesso pubblico del Ga.Gi., il quale lo aveva acquistato in modo violento e clandestino (cfr. pag. 3 della sentenza impugnata), e comunque insussistente il ventennio di signoria di fatto richiesto ai fini dell’usucapione (cfr. pag. 4 della sentenza). A tale ricostruzione del fatto e delle prove, il ricorrente contrappone una lettura alternativa del compendio istruttorio, senza tener conto che il motivo di ricorso non può mai risolversi in un’istanza di revisione delle valutazioni e del convincimento del giudice di merito tesa all’ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, estranea alla natura ed ai fini del giudizio di cassazione (Cass. Sez. U, Sentenza n. 24148 del 25/10/2013, Rv. 627790). Né è consentito proporre un apprezzamento diverso ed alternativo delle prove, dovendosi ribadire il principio per cui “L’esame dei documenti esibiti e delle deposizioni dei testimoni, nonché la valutazione dei documenti e delle risultanze della prova testimoniale, il giudizio sull’attendibilità dei testi e sulla credibilità di alcuni invece che di altri, come la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice del merito, il quale, nel porre a fondamento della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata” (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 12362 del 24/05/2006, Rv. 589595; conf. Cass. Sez. 1, Sentenza n. 11511 del 23/05/2014, Rv. 631448; Cass. Sez. L, Sentenza n. 13485 del 13/06/2014, Rv. 631330). Nel caso di specie, inoltre, la motivazione della sentenza impugnata non risulta viziata da apparenza, né appare manifestamente illogica, ed è idonea ad integrare il cd. minimo costituzionale e a dar atto dell’iter logico- argomentativo seguito dal giudice di merito per pervenire alla sua decisione (cfr. Cass. Sez. U, Sentenza n. 8053 del 07/04/2014, Rv. 629830).

Quarto e quinto motivo: inammissibili, o comunque manifestamente infondati, poiché con essi si contesta il mancato assolvimento, da parte delle odierne controricorrenti, dell’onere della cd. probatio diabolica richiesta in relazione alla domanda di rivendicazione, anche in relazione alla perplessità della relativa motivazione. La sentenza impugnata indica che l’odierno ricorrente aveva concluso per il rigetto del gravame e la conferma della decisione di prime cure (cfr. pag. 2), senza riproporre alcuna eccezione in relazione alla mancanza della prova della proprietà. Le due censure in esame non indicano in quale momento del giudizio di seconde cure, e con quale strumento processuale, la questione sarebbe stata riproposta, e dunque difettano del richiesto grado di specificità”.

7. Il ricorrente, con la memoria depositata in prossimità dell’udienza, insiste nella richiesta di accoglimento del ricorso e in aggiunta alle deduzioni ivi formulate, tenuto conto anche delle conclusioni della proposta, ribadisce che: la Corte di Appello ha omesso completamente di esaminare due documenti prodotti in giudizio che attengono a circostanze decisive per il giudizio ossia: – la lettera dell’avv. Preve, difensore del dante causa di Ga.Gi., con allegata bozza di transazione, inviata al Geom. Se. perché la consegnasse a Ni. per la stipula; – la mappa catastale allegata all’atto di vendita del 20.07.1967 con il quale il dante causa delle Ni. ha acquistato il negozio.

Si ribadisce, altresì, in memoria che: – con il secondo motivo è stata sostenuta la non clandestinità del possesso del bagno trattandosi di un locale pubblico; – il terzo motivo attiene sempre alla clandestinità del possesso accertata sulla base del mero assunto della (presunta) mancata conoscenza di fatto da parte del proprietario mentre, al contrario, è principio pacificamente affermato dalla S.C. che si debba avere riguardo alla “non conoscibilità” del possesso, ossia alla impossibilità di poterne avere cognizione concreta sulla base della ordinaria diligenza; – il quarto e quinto sono rivolti al mancato assolvimento della c.d. probatio diabolica circa la proprietà del bene oggetto della domanda di rivendica da parte delle controricorrenti.

8. Ad avviso del collegio il ricorso è infondato.

8.1 La memoria del ricorrente non offre argomenti tali da consentire di modificare le conclusioni di cui alla proposta di definizione formulata ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c. .

In particolare, si deve ritenere che l’impossessamento del vano bagno da parte del ricorrente è avvenuto in modo violento e clandestino mediante l’abbattimento del muro divisorio.

La Corte d’Appello, con motivazione congrua fondata sulle risultanze istruttorie (v. pagg. 3-4 della sentenza), ha accertato che la clandestinità del possesso impeditiva del decorso del termine per usucapire era, al più, cessata solo nell’anno 1995 e, dunque, che alla data della domanda di rivendica da parte delle controricorrenti – nel 2014 – non erano decorsi i 20 anni necessari per l’acquisto a titolo originario mediante usucapione.

Il ricorrente, con il primo motivo, lamenta l’omesso esame di due documenti che testimonierebbero la pubblicità del possesso del bagno.

Il primo dei suddetti documenti è stato valutato dalla Corte d’Appello che lo ha ritenuto non idoneo a sostenere la tesi del Ga.Gi.. Si legge a pag. 4 della sentenza, infatti, che: Non può farsi risalire – la conoscenza delle Ni. – agli altri fatti indicati dalla difesa del Ga.Gi. Non alla redazione di una bozza di transazione negli anni settanta, da parte del legale del Cornelli, dante causa del Ga.Gi., mai sottoscritta dal Ni.. Nemmeno al deposito di una planimetria in Comune, fatto inidoneo – questo – a rendere pubblica la conoscenza del possesso, nel senso – almeno – in cui la conoscibilità deve intendersi per rendere pubblica l’esistenza del possesso.

Ne consegue che in questa parte la censura è inammissibile essendo evidente che in realtà ciò che chiede il ricorrente è di attribuire una diversa valenza probatoria alla suddetta bozza di transazione che motivatamente la Corte d’Appello ha ritenuto non risolutiva quanto alla prova della cessazione della clandestinità del possesso.

Quanto all’altro documento, lo stesso non può dirsi decisivo, trattandosi di una mappa catastale allegata all’atto di compravendita del dante causa del ricorrente che pacificamente non avevano acquistato anche la porzione dell’immobile oggetto di contesa. Ne consegue che tale documento non può costituire alcuna prova della pubblicità del possesso e, tantomeno, della conoscenza dell’appropriazione da parte del dante causa delle Ni..

D’altra parte, il giudice del merito non è tenuto a dar conto di ogni singolo elemento probatorio quando appunto lo stesso non sia decisivo. Deve richiamarsi in proposito il seguente principio di diritto: “L’esame dei documenti esibiti e delle deposizioni dei testimoni, nonché la valutazione dei documenti e delle risultanze della prova testimoniale, il giudizio sull’attendibilità dei testi e sulla credibilità di alcuni invece che di altri, come la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice del merito, il quale, nel porre a fondamento della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata”. (Cass., Sez. 2, Ord. n. 29404 del 2017; Cass., Sez. 1, Sent. n. 16056 del 2016).

La Corte di merito ha effettuato una valutazione complessiva delle risultanze istruttorie, sufficientemente e logicamente argomentata, fondando il proprio convincimento sulla cessazione della clandestinità non solo sui documenti sopra indicati, ma in base al complessivo assetto dei luoghi come emergente dalla consulenza tecnica, sicché le censure proposte mirano ad una impropria revisione del giudizio di fatto precluso in sede di legittimità.

Anche i restanti motivi sono inammissibili perché – come si è evidenziato con la proposta di definizione ex art. 380-bis c.p.c. – le complessive censure proposte dal ricorrente, anche nella parte in cui denunciano il vizio di violazione e falsa applicazione di legge, si risolvono nella sollecitazione ad effettuare una nuova valutazione di risultanze di fatto emerse nel giudizio di merito.

Di conseguenza, posto che non può sindacarsi l’accertamento in fatto compiuto dal giudice di merito, le conclusioni in diritto che la Corte ne ha tratto sono corrette in quanto la prova univoca – sul piano materiale e temporale – della cessazione della clandestinità era a carico del ricorrente e non è stata debitamente assolta.

In proposito il Collegio intende dare continuità al principio di diritto già enunciato nella giurisprudenza di questa Corte, secondo cui: “ai fini dell’usucapione, il requisito della non clandestinità va riferito non agli espedienti che il possessore potrebbe attuare per apparire proprietario, ma al fatto che il possesso sia stato acquistato ed esercitato pubblicamente, cioè in modo visibile a tutti o almeno ad un’apprezzabile ed indistinta generalità di soggetti e non solo dal precedente possessore o da una limitata cerchia di persone che abbiano la possibilità di conoscere la situazione di fatto soltanto grazie al proprio particolare rapporto con quest’ultimo o alle peculiari modalità di fruizione del luogo (v., ad es. Cass., Sez. 2, Ord. n. 11465 del 2021).

Quanto alla censura di mancanza di motivazione, trattandosi di un’azione di rivendica, in ordine alla c.d. probatio diabolica circa la proprietà del bagno in capo alle controricorrenti deve osservarsi come la domanda di usucapione da parte del Ga.Gi. ne abbia attenuato il rigore avendo egli riconosciuto o, comunque, non avendo mai specificamente contestato che il bene fosse di proprietà delle rivendicanti o dei loro danti causa all’epoca in cui egli aveva assunto di avere iniziato a possedere (Cass., Sez. 2, Sent. n. 28865 del 2021; Cass., Sez. 2, Sent. n. 17881 del 2013).

Tale considerazione priva di rilievo anche il quinto motivo che si fonda sull’erroneo presupposto che la Corte d’Appello ha ritenuto non trattarsi di una domanda di rivendica.

Infine, quanto all’omesso esame di un fatto decisivo che si ripete anche nei restanti motivi, questa Corte ha più volte evidenziato che, “in tema di giudizio di cassazione, il motivo di ricorso di cui all’art. 360, n. 5, c.p.c., deve riguardare un fatto storico considerato nella sua oggettiva esistenza, senza che possano considerarsi tali né le singole questioni decise dal giudice di merito, né i singoli elementi di un accadimento complesso, comunque apprezzato, né le mere ipotesi alternative, né le singole risultanze istruttorie, ove comunque risulti un complessivo e convincente apprezzamento del fatto svolto dal giudice di merito sulla base delle prove acquisite nel corso del relativo giudizio”.

Nel caso di specie, i ricorrenti non censurano propriamente l’omessa valutazione di un fatto storico, quanto piuttosto l’apprezzamento del compendio probatorio posto a base della decisione, per definizione riservato al giudice di merito.

A tal proposito devono ritenersi inammissibili anche le censure di violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c.

Quanto alla doglianza circa la violazione dell’art. 116 c.p.c. è ammissibile solo ove si alleghi che il giudice, nel valutare una prova o, comunque, una risultanza probatoria, non abbia operato – in assenza di diversa indicazione normativa – secondo il suo “prudente apprezzamento”, pretendendo di attribuirle un altro e diverso valore oppure il valore che il legislatore attribuisce ad una differente risultanza probatoria (come, ad esempio, valore di prova legale), oppure, qualora la prova sia soggetta ad una specifica regola di valutazione, abbia dichiarato di valutare la stessa secondo il suo prudente apprezzamento, mentre, ove si deduca che il giudice ha solamente male esercitato il proprio prudente apprezzamento della prova, la censura è ammissibile, ai sensi del novellato art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., solo nei rigorosi limiti in cui esso ancora consente il sindacato di legittimità sui vizi di motivazione (v., per tutte, Cass. Sez. U, Sent. n. 20867 del 2020). Invece, per dedurre la violazione dell’art. 115 c.p.c., occorre denunciare che il giudice, in contraddizione espressa o implicita con la prescrizione della norma, abbia posto a fondamento della decisione prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli (salvo il dovere di considerare i fatti non contestati e la possibilità di ricorrere al notorio), mentre è inammissibile la diversa doglianza che egli, nel valutare le prove proposte dalle parti, abbia attribuito maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, essendo tale attività valutativa consentita dall’art. 116 c.p.c. (cfr. la stessa Cass. Sez. U, Sent. n. 20867 del 2020).

9. In definitiva, alla stregua delle complessive ragioni svolte, il ricorso va integralmente rigettato con conseguente condanna del ricorrente, risultato soccombente, al pagamento delle spese processuali in favore delle controricorrenti, liquidate come in dispositivo.

10. Poiché il ricorso è deciso in conformità alla proposta formulata ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c., vanno applicati – come previsto dal terzo comma, ultima parte, dello stesso art. 380-bis -il terzo e il quarto comma dell’art. 96 c.p.c., con conseguente condanna dello stesso ricorrente al pagamento, sempre in favore delle controricorrenti, di una somma equitativamente determinata (nella misura di cui in dispositivo), nonché al pagamento di una ulteriore somma – nei limiti di legge – in favore della Cassa delle ammende (anch’essa quantificata in dispositivo).

11. Considerato il tenore della pronuncia, va dato atto – ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del D.P.R. n. 115 del 2002 -della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo contributo unificato, pari a quello previsto per la proposizione dell’impugnazione, se dovuto.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento, in favore delle controricorrenti, delle spese del presente giudizio di legittimità, che liquida in Euro 3000,00 per compensi e in Euro 200,00 per esborsi, oltre al contributo forfettario, iva e c.p.a. nella misura e sulle voci come per legge.Condanna, altresì, il ricorrente, ai sensi dell’art. 96, commi 3 e 4, c.p.c., al pagamento, sempre in favore delle parti controricorrenti, della ulteriore somma pari ad Euro 1.500,00, nonché al pagamento della somma di Euro 1.000,00 in favore della Cassa delle ammende.

Dichiara la sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Seconda Sezione Civile, in data 23 ottobre 2024.

Depositato in cancelleria il 7 novembre 2024.

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