Deduceva che in data (Omissis) era deceduto in (Omissis) C.A., al quale erano succeduti la moglie, Ca.Ma., la figlia C.D. e gli attori, quali eredi del figlio premorto, C.R.. La Ca., a distanza di qualche giorno dal decesso, aveva fatto pubblicare un testamento olografo del de cuius recante la data del (Omissis), con il quale la quota disponibile era lasciata unicamente alla figlia D., testamento che doveva reputarsi apocrifo, di tal che la successione doveva reputarsi regolata da un precedente testamento del (Omissis), invece favorevole al figlio premorto.
Chiedeva, pertanto, previo disconoscimento dell’autografia della scheda più recente di dichiararne l’invalidità e di accertare altresì l’indegnità a succedere dei convenuti.
Ancora evidenziava che a seguito di un incidente del (Omissis), il de cuius era divenuto incapace di attendere ai propri affari e che ancor prima una cessione di quote della Arco S.r.l. effettuata dal figlio R. al padre A. nel (Omissis) era da ritenersi affetta da simulazione assoluta, dovendo quindi le quote rientrare nel patrimonio del figlio.
Aggiungeva che erano anche simulate le cessioni delle quote della medesima società effettuate dal de cuius in favore della Ca. e della figlia, essendo stato poi deliberato lo scioglimento anticipato dalla società con una Delib. alla cui formazione aveva preso parte il de cuius allorché era affetto da incapacità di intendere e di volere, essendo la medesima Delib. annullabile.
Aggiungeva che le convenute nel corso degli anni avevano disposto delle liquidità del de cuius, senza che la disponibilità delle rilevanti somme potesse essere qualificata come una donazione di modico valore. Ancora nel (Omissis), il de cuius aveva simulato una vendita di un immobile in (Omissis) in favore della figlia D., che nascondeva una donazione la quale doveva essere considerata ai fini della collazione e che lo stesso C.R., dante causa degli attori, alcuni mesi prima di morire, unitamente alla sorella aveva ricevuto la donazione di due immobili in (Omissis), pur essendo quello donato alla figlia di valore notevolmente superiore all’altra donazione. Inoltre, le donazioni prevedevano la riserva di usufrutto anche in favore della moglie, la quale in tal modo aveva beneficiato di una donazione, da prendere in considerazione ai fini successori, come del pari doveva tenersi conto del fatto che tutti i frutti prodotti dalla locazione dei beni donati erano stati percepiti dalla Ca..
Si osservava altresì che nel (Omissis) il de cuius aveva alienato in vita alcuni suoi beni immobili, il cui corrispettivo non era stato poi rinvenuto alla data del decesso, dovendo reputarsi che fosse stato donato alle convenute.
Inoltre, nel (Omissis) la Ca. aveva venduto ad un terzo un suolo edificatorio solo simulatamente a lei intestato, dovendo quindi ritenersi che il prezzo fosse di pertinenza del de cuius.
Concludeva, quindi, affinché fosse dichiarata l’invalidità della scheda testamentaria del (Omissis), e, previa dichiarazione di indegnità a succedere delle convenute, la successione fosse devoluta alle attrici, in ogni caso in base alle previsioni del testamento del (Omissis).
Chiedeva altresì di accertare la simulazione delle cessioni delle quote, e che nella formazione dell’asse si tenesse conto di tutti gli atti simulati posti in essere in vita dal de cuius, disponendo la consequenziale divisione.
Si costituivano in giudizio i convenuti che eccepivano il difetto di legittimazione attiva della L. in proprio, in quanto non beneficiaria della rappresentazione; nel merito contestavano la fondatezza delle domande attoree, eccependo in via subordinata, ove fosse stata accertata la simulazione degli atti indicati in citazione, l’intervenuta usucapione in loro favore della proprietà dei beni interessati.
Nelle more del giudizio decedeva ab intestato anche Co.An. junior, e si costituivano in giudizio L.M.C., quale erede del figlio, e C.M.G., in proprio e quale erede del fratello, facendo proprie le domande originariamente avanzate.
Al giudizio pendente veniva poi riunito altro procedimento avente ad oggetto l’opposizione proposta dalla L. e da C.M.G. avverso il decreto ingiuntivo emesso dal Tribunale di Trani, con il quale era stato loro intimato, su richiesta di Ca.Ma. e di C.D., il pagamento pro quota delle somme impiegate per far fronte ai debiti ereditari.
Quindi, disposto il sequestro giudiziario dei beni caduti in successione, quali risultanti dalla denuncia di successione, all’esito dell’istruttoria, il Tribunale di Trani, con sentenza non definitiva del 29 maggio 2012, dichiarava il difetto di legittimazione ad agire in proprio della L., dichiarava nullo il testamento olografo recante la data del (Omissis); rigettava la domanda di indegnità a succedere e quella volta a far regolare la successione dal testamento olografo del (Omissis); rigettava tutte le domande di simulazione e di usucapione come reciprocamente avanzate, dichiarando la cessazione della materia del contendere quanto alla richiesta di annullamento della Delib. della società ARCO con la quale ne era stato deliberato lo scioglimento anticipato.
Quindi disponeva la rimessione in istruttoria per la prosecuzione della divisione, secondo le quote ab intestato.
Avverso tale sentenza proponevano appello principale L.M.C. e C.M.G., cui resisteva C.D., anche quale erede universale della defunta madre Ca.Ma., D.C.A. e la Arco S.r.l., che a loro volta proponevano appello incidentale.
La Corte d’Appello di Bari, con la sentenza n. 382 dell’11 aprile 2017, in parziale riforma della sentenza impugnata, ed in parziale accoglimento dell’appello principale disponeva che la divisione dovesse avvenire in base alle disposizioni del testamento olografo del (Omissis), rigettando per il resto tutti gli altri motivo di impugnazione.
Nell’esaminare in via prioritaria il motivo di appello incidentale con il quale si contestava l’invalidità della scheda testamentaria del (Omissis), la Corte d’Appello, dopo aver confermato l’interesse delle attrici a farne accertare la nullità, quanto meno per la L., anche quale erede del figlio premorto (non potendo fruire della rappresentazione in relazione alla posizione del marito premorto), riteneva del tutto condivisibile la conclusione cui era pervenuto il CTU, che aveva evidenziato come la scheda fosse frutto di una imitazione della grafia del de cuius, e senza che potesse incidere sul tale esito la prova testimoniale, in quanto l’avv. B., sebbene avesse riferito che il de cuius avesse ricopiato una bozza di testamento di contenuto identico a quella impugnata, non aveva però saputo riferire se quella oggetto di causa fosse la medesima ricopiata alla sua presenza.
Doveva quindi anche essere disattesa la richiesta di riaudizione del teste.
Ritenute quindi condivisibili e corrette le conclusioni del CTU doveva disattendersi la censura mossa dagli appellanti incidentali, essendo prive di fondamento le varie contestazioni mosse all’operato del perito d’ufficio.
Una volta ribadita la natura apocrifa del testamento del (Omissis), non poteva però trovare accoglimento la richiesta di indegnità a succedere delle convenute, in quanto mancava la prova che la falsità della scheda fosse materialmente ascrivibile alle stesse e soprattutto che ne avessero fatto uso con la piena consapevolezza della falsità, condizioni queste necessarie per accedere alla pronuncia di indegnità a succedere.
Era poi esaminato il motivo di appello principale con il quale le attrici chiedevano di regolare la successione in base al precedente testamento del (Omissis).
Il Tribunale aveva disatteso la richiesta ritenendo che, a fronte del disconoscimento della scheda operato dai convenuti, le attrici non ne avessero richiesto la verificazione, ma tale conclusione si poneva in contrasto con i principi affermati dalle Sezioni Unite nella sentenza n. 12307/2015, dovendo essere gli eredi legittimi a dover fornire la prova dell’invalidità della scheda, prova che però non era stata fornita, e senza che nemmeno le convenute avessero inteso proporre un autonomo giudizio di invalidità successivamente all’intervento della Suprema Corte.
Per l’effetto andava dichiarata l’apertura della successione testamentaria sulla scorta della scheda del (Omissis), dovendosi in sede di divisione regolare le quote in conformità delle volontà testamentarie ivi contenute.
Quanto alle varie domande di simulazione avanzate dalle attrici, la sentenza osservava che le medesime avevano agito nella qualità di eredi del loro dante causa, ma senza spendere anche la qualità di legittimarie del medesimo, con la conseguenza che la prova della simulazione non poteva avvenire in deroga alle limitazioni poste dall’art. 1417 c.c..
In tal senso il contenuto dell’atto di citazione deponeva per la proposizione della sola domanda di divisione e per la pretesa di portare in collazione le donazioni asseritamente poste in essere dal de cuius, il che impediva di poter fruire delle agevolazioni probatorie concesse al legittimario in quanto terzo.
Quanto poi all’asserita simulazione dell’atto di acquisto di alcuni immobili effettuato da C.D. nei confronti del padre A. nel (Omissis), la Corte d’Appello oltre a sottolineare la prescrizione della relativa azione, ribadiva come la prova non era stata fornita in maniera adeguata, sempre in ragione della mancata formulazione della domanda di riduzione.
Ne’ poteva dedursi che la prescrizione non poteva essere opposta a Co.An. junior, per il periodo anteriore al raggiungimento della sua maggiore età, posto che il medesimo, sebbene ancora minorenne alla data di apertura della successione del nonno, ben avrebbe potuto accettare l’eredità tramite il rappresentante legale, non ricorrendo alcuna delle ipotesi di sospensione del termine di prescrizione. Infine, in relazione alla prosecuzione del giudizio di divisione, i giudici di appello rilevavano la necessità di dover adeguare le relative operazioni a quanto statuito in ordine all’operatività del testamento del (Omissis).
Il rigetto dei motivi che investivano le domande di simulazione implicava poi l’assorbimento dei motivi di appello incidentale con i quali, subordinatamente all’accoglimento delle richieste delle atrici, si insisteva per l’accoglimento della domanda di usucapione dei beni asseritamente oggetto di donazioni dissimulate.
Infine, in assenza di un integrale rigetto delle domande attoree, doveva essere disatteso il motivo di appello incidentale con il quale si sollecitava la condanna delle attrici ex art. 96 c.p.c..
Per la cassazione di tale sentenza propone ricorso C.D. sulla base di tre motivi.
L.M.C. e C.M.G. resistono con controricorso e propongono a loro volta ricorso incidentale affidato a sette motivi.
La ricorrente principale ha resistito con autonomo controricorso al ricorso incidentale.
Entrambe la parti hanno depositato memorie in prossimità dell’udienza.
Diritto
RAGIONI IN DIRITTO DELLA DECISIONE
1. Preliminarmente deve essere disattesa l’eccezione di improcedibilità del ricorso per la mancata notificazione anche agli altri convenuti, Arco S.r.l. e D.C.A., rilevando a tal fine la circostanza che, in relazione al contenuto dei motivi di ricorso, e stante l’esito del giudizio nelle precedenti fasi di merito, i detti convenuti sono ormai estranei alla materia ancora in questa sede dibattuta, e ciò in quanto, sulla domanda volta a far dichiarare l’invalidità della Delib. societaria di scioglimento della società, risulta essere intervenuta declaratoria da parte del Tribunale di cessazione della materia del contendere, non più posta in discussione, mentre quanto alla domanda di simulazione delle cessioni di quote effettuate dal de cuius in favore dei convenuti, sempre il Tribunale, senza che sul punto sia intervenuta censura in appello, ha dichiarato l’estraneità alla vicenda del D.C., in quanto non coinvolto nella detta cessione.
2. Il primo motivo del ricorso principale denuncia l’omesso esame circa un fatto deciso della controversia ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, con violazione degli artt. 195 e 217 c.p.c..
Deduce la ricorrente che la Corte d’Appello si sarebbe uniformata alla decisione del Tribunale recependo acriticamente le conclusioni del CTU, senza esaminare gli altri fatti emersi nel corso del giudizio.
La motivazione del giudice di appello sarebbe perplessa ed avrebbe omesso di rispondere alle critiche alla consulenza d’ufficio, trascurando altresì di dare risposta alla richiesta di rinnovazione della CTU.
In particolare, nessuna disamina è avvenuta della consulenza tecnica di parte, in tal modo perpetrandosi una violazione del principio del contraddittorio, con la nullità della CTU. Inoltre, non si sarebbe tenuto conto della richiesta di espungere la relazione del tecnico di parte avversa in quanto conteneva al suo interno la copia del testamento del (Omissis), che era stato disconosciuto dalla ricorrente, e che quindi non poteva esser preso in esame.
Il motivo è manifestamente infondato.
In primo luogo, si palesa inammissibile nella parte in cui deduce il vizio di cui dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, atteso che la sentenza di appello, in parte qua, ha pienamente confermato quella del Tribunale sulla base delle medesime ragioni inerenti alle questioni di fatto, con la conseguenza che risulta applicabile il disposto di cui all’art. 348 ter c.p.c., u.c., oggi art. 360 c.p.c., comma 4, che preclude la deducibilità del vizio de quo in caso di cd. doppia conforme.
Peraltro, è stato precisato che l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come riformulato dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, conv. con mod. dalla L. n. 134 del 2012, consente di censurare l’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, nozione nel cui ambito non è inquadrabile la consulenza tecnica d’ufficio recepita dal giudice, risolvendosi la critica che ad essa nell’esposizione di mere argomentazioni difensive contro un elemento istruttorio (Cass. n. 8584 del 16/03/2022; Cass. n. 12387/2020 del 24/06/2020), dovendosi escludere che la contestazione circa la mancata disamina delle osservazioni del consulente di parte si configuri di per sé come idonea a denunciare l’omesso esame di fatto decisivo, essendo invece necessario che sia sempre specificamente individuato il fatto storico, avente carattere decisivo, che la mancata risposta alle critiche avrebbe impedito di valutare.
E’ stato anche di recente riaffermato che il giudice di merito, quando aderisce alle conclusioni del consulente tecnico che nella relazione abbia tenuto conto, replicandovi, dei rilievi dei consulenti di parte, esaurisce l’obbligo della motivazione con l’indicazione delle fonti del suo convincimento, e non deve necessariamente soffermarsi anche sulle contrarie allegazioni dei consulenti tecnici di parte, che, sebbene non espressamente confutate, restano implicitamente disattese perché incompatibili, senza che possa configurarsi vizio di motivazione, in quanto le critiche di parte, che tendono al riesame degli elementi di giudizio già valutati dal consulente tecnico, si risolvono in mere argomentazioni difensive (così da ultimo Cass. n. 33742 del 16/11/2022).
Nella fattispecie, la sentenza gravata, in relazione alle contestazioni mosse nella perizia di parte all’operato del CTU ha ritenuto che in realtà le stesse avessero già ricevuto adeguata contestazione nella sentenza di primo grado, che aveva reputato che le stesse si risolvessero in un’apodittica contestazione degli esiti della CTU, ma senza offrire validi argomenti di carattere scientifico per contrastare le puntuali deduzioni dell’ausiliario di ufficio.
Anche il motivo di ricorso si presenta come finalizzato a reiterare le critiche alla CTU, ma con osservazioni che denotano con evidenza come le stesse mirino ad una rivalutazione degli apprezzamenti di carattere tecnico scientifico come oggetto di valutazione da parte della Corte d’Appello, che è pervenuta alla conferma della sentenza di primo grado con motivazione logica e coerente, e come tale immune alle censure mosse.
Nella sostanza la ricorrente aspira ad un esito diverso del giudizio circa la validità della scheda del (Omissis) sul presupposto che le deduzioni del proprio consulente siano maggiormente attendibili rispetto a quelle fornite dall’ausiliario d’ufficio, che avrebbe colpevolmente concluso in conformità con il perito di controparte, ma si tratta con evidenza di censura che esula dal novero di quelle suscettibili di esser demandate all’esame del giudice di legittimità.
Ancora, del tutto generica appare la denuncia di violazione del principio del contraddittorio, argomentata sul fatto che il CTU non avrebbe anticipato al perito di parte quelle che sarebbero state le proprie conclusioni nel corso delle operazioni peritali, avendo sul punto dato adeguata risposta la sentenza impugnata che ha ricordato che solo con il deposito della relazione, ovvero della sua bozza, il perito d’ufficio è tenuto ad illustrare quale sia il proprio convincimento, essendo il contraddittorio procedimentale finalizzato ad assicurare una partecipazione delle parti e dei loro consulenti, alle varie operazioni prodromiche alla formulazione delle conclusioni peritali.
Del pari priva di fondamento è la deduzione secondo cui la consulenza sarebbe affetta da nullità per essersi avvalsa della perizia di parte, contenente la copia del testamento olografo del (Omissis), oggetto di disconoscimento da parte della ricorrente.
In disparte il rilievo per cui, come si evince dal tenore della sentenza, ai fini di privare di rilevanza tale documento non sarebbe sufficiente il solo disconoscimento, dovendo essere oggetto di un’autonoma azione di invalidità (questione che è poi oggetto del terzo motivo del ricorso principale), va però evidenziato che la censura non si confronta con la risposta della Corte distrettuale che ha sottolineato come la denuncia di nullità della CTU fosse del tutto astratta, posto che la conclusione del Tribunale in merito alla nullità della scheda testamentaria del (Omissis), aveva del tutto prescisso dall’utilizzo della precedente scheda testamentaria, essendosi fondata su autonomi elementi di valutazione in ogni caso conducenti alla soluzione della natura apocrifa del testamento, affermazione questa che rende quindi del tutto irrilevante il fatto che nella perizia di parte attorea fosse inserito anche il detto documento.
Del pari inammissibile si palesa la denuncia circa la mancata rinnovazione della consulenza d’ufficio, occorrendo a tal fine fare richiamo alla costante giurisprudenza di questa Corte secondo cui, pur essendo ammissibile nel giudizio d’appello la richiesta di rinnovazione della consulenza tecnica d’ufficio, ove si contestino le valutazioni tecniche del consulente fatte proprie dal giudice di primo grado, tuttavia il giudice, se non ha l’obbligo di motivare il diniego, che può essere anche implicito, è tenuto a rispondere alle censure tecnico-valutative mosse dall’appellante avverso le valutazioni di ugual natura contenute nella sentenza impugnata, sicché l’omesso espresso rigetto dell’istanza di rinnovazione non integra un vizio di omessa pronuncia ai sensi dell’art. 112 c.p.c., ma, eventualmente, un vizio di motivazione in ordine alle ragioni addotte per rigettare le censure tecniche alla sentenza impugnata (Cass. n. 26709 del 24/11/2020; Cass. n. 2103/2019, circa la natura discrezionale del potere del giudice di merito di disporre indagini tecniche suppletive o integrative, di sentire a chiarimenti il consulente sulla relazione già depositata ovvero di rinnovare, in parte o “in toto”, le indagini, sostituendo l’ausiliare del giudice, il cui esercizio o mancato esercizio non è sindacabile in sede di legittimità, ove ne sia data adeguata motivazione, immune da vizi logici e giuridici; Cass. n. 22799 del 29/09/2017).
Il richiamo alla ampiezza e logicità della motivazione con cui il giudice di appello ha ritenuto di fare proprie le conclusioni del Tribunale, che a sua volta aveva recepito le indicazioni dell’ausiliario d’ufficio, consente quindi di ritenere che sia insindacabile la decisione di non disporre la rinnovazione della CTU.
Quanto infine alle contestazioni che investono la generale attendibilità della perizia grafologica, non ignora la Corte che in alcuni suoi precedenti sia stata evidenziata la limitata consistenza probatoria della consulenza grafologica, non suscettiva di conclusioni obiettivamente ed assolutamente certe, ma è stato altresì precisato che ciò esige che il giudice fornisca un’adeguata giustificazione del proprio convincimento in ordine alla condivisibilità delle conclusioni raggiunte dal consulente, anche in correlazione a tutti gli altri elementi concreti sottoposti al suo esame (Cass. n. 2579 del 02/02/2009; Cass. n. 8881 del 28/04/2005), giustificazione che la sentenza gravata offre invero in maniera più che adeguata.
Il motivo deve quindi essere rigettato.
3. Il secondo motivo del ricorso principale lamenta la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 116 e 257 c.p.c., con omesso esame su un punto controverso del giudizio, con conseguente perplessa motivazione.
Si deduce che la Corte d’Appello ha ritenuto che la falsità del testamento del (Omissis) non potesse essere contraddetta dalle risultanze delle prova testimoniale ed in particolare dalla deposizione dell’avv. B.E..
La Corte d’Appello avrebbe assegnato a tale deposizione un significato in contrasto con il suo intrinseco contenuto, ed è stata del tutto trascurata una successiva dichiarazione scritta del teste che intendeva chiarire il reale senso della sua deposizione.
La sentenza si palesa poi erronea nella parte in cui ha negato la possibilità di disporre la rinnovazione della prova, onde consentire al teste di meglio chiarire il senso della sua prima deposizione.
In dettaglio, la sentenza gravata nel valutare la deposizione del teste, resa all’udienza del 1/7/1999, ha evidenziato come questi avesse certamente riferito della predisposizione di una bozza di testamento dal contenuto identico a quello del testamento impugnato, aggiungendo che il de cuius, recatosi nel suo studio, l’aveva ricopiata, datandola e sottoscrivendola alla sua presenza, per poi portarla via con sé, ma aveva altresì precisato che, pur presentando il testamento impugnato il medesimo contenuto, non era in grado di affermare se si trattava del medesimo documento redatto alla sua presenza.
Da tale affermazione, il giudice di appello, conformemente a quanto ritenuto dal Tribunale, ha tratto il convincimento che non vi fosse la dimostrazione che il testamento di cui aveva riferito il teste fosse lo stesso oggetto di causa, e che quindi se ne potesse escludere la falsità.
In aggiunta, ha poi confermato il rigetto della richiesta dei convenuti di riascoltare il teste, non potendosi a tal fine dare rilievo al fatto che questi avesse poi inviato una missiva, nella quale avrebbe meglio dettagliato il contenuto della sua deposizione, aggiungendo in motivazione che la rinnovazione dell’escussione non mirava semplicemente a chiarire e precisare punti non chiariti, ma a sollecitare al teste una risposta circa il fatto che sapesse, a distanza di molti anni, ciò che in maniera univoca aveva in sede di escussione escluso di conoscere (e cioè la corrispondenza tra la scheda formata nel suo studio e quella oggetto di causa).
Il motivo è inammissibile.
Costituisce principio radicato nella giurisprudenza di questa Corte quello secondo cui il giudice d’appello può disporre la rinnovazione dell’esame dei testimoni anche senza necessità d’istanza di parte poiché il potere di rinnovazione, proprio anche del giudizio di appello per il combinato disposto degli artt. 257 e 359 c.p.c., è discrezionale ed esercitabile anche d’ufficio dal giudice, cui spetta il completo riesame delle risultanze processuali, compresa l’attività necessaria per il chiarimento delle stesse, nei limiti del “devolutum” e dell'”appellatum” (Cass. n. 27286 del 16/09/2022; Cass. n. 18468 del 21/09/2015).
Tuttavia, proprio la discrezionalità che connota tale potere involge un giudizio di mera opportunità che non può formare oggetto di censura in sede di legittimità, neppure sotto il profilo del difetto di motivazione. (Sez. 3, Sentenza n. 9322 del 20/04/2010; Cass. n. 11436 del 01/08/2002).
Poste tali premesse, si rileva che è incensurabile l’apprezzamento del tenore della originaria deposizione testimoniale come compiuto in maniera conforme dai giudici di entrambi i gradi, il che rende immune la sentenza anche dalla denuncia del vizio di cui dell’art. 360 c.p.c., n. 5, trattandosi appunto di una doppia conforme.
Peraltro, che la deposizione si prestasse alla valutazione sostenuta dal giudice di merito, in maniera non suscettibile di essere reputata del tutto implausibile, trova conferma nella stessa sollecitazione della ricorrente ad ammettere la rinnovazione delle deposizione stessa, onde fornire argomenti per dare una diversa lettura dei fatti di causa, e per poter affermare la perfetta identità tra i due documenti, che invece lo stesso teste nella sua deposizione non era stato in grado di affermare.
L’insindacabilità del diniego di rinnovazione dell’istruttoria appare poi ampiamente motivato dal giudice di appello, il che conforta l’inammissibilità del motivo, trovando tale ragionamento anche il conforto del principio secondo cui è inammissibile in appello (salvo il ricorso al rimedio della rimessione in termini, previsto dall’art. 184-bis c.p.c., qualora ne sussistano le condizioni), per il principio dell’infrazionabilità e della contestualità che la caratterizzano, la prova testimoniale che, anche in modo indiretto, si appalesi preordinata a contrastare, completare o confortare le risultanze di quella già dedotta ed assunta in primo grado, e cioè a determinare, attraverso nuove modalità e circostanze, ovvero per la connessione delle circostanze già provate con quelle da provare, una diversa valutazione dei fatti che sono stati oggetto dello stesso mezzo istruttorio nelle precedenti fasi del processo (Cass. n. 10502 del 07/05/2009; Cass. n. 20327 del 20/09/2006; Cass. n. 17567/2003; Cass. n. 8526/2003), atteso che nella fattispecie al teste sarebbe chiesto non già di chiarire il senso della prioria prima deposizione, ma piuttosto di affermare circostanze volte a sovvertire il senso stesso, ed alla luce della valutazione della prova resa in senso sfavorevole dal giudice di prime cure.
4. Il terzo motivo del ricorso principale denuncia l’omesso esame circa un fatto decisivo per la controversia ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, con la violazione e falsa applicazione degli artt. 24 e 111 Cost..
Deduce la ricorrente principale che la sentenza gravata, nel risolvere la questione relativa alla utilizzabilità del testamento del (Omissis), ha fatto immediata applicazione del principio di diritto affermato dalle Sezioni Unite n. 12307/2005, a mente del quale non è sufficiente il disconoscimento della scheda olografa da parte dell’erede legittimo per privarla di efficacia, ma si impone che lo stesso erede legittimo ne provi la falsità ovvero la nullità.
Trattasi però di principio di carattere innovativo che le Sezioni Unite hanno affermato innovando rispetto al precedente quadro giurisprudenziale, e che ha determinato un esito del giudizio del tutto inatteso per la ricorrente che invece aveva fatto affidamento sulla preesistente giurisprudenza.
Si è trascurato altresì che la sentenza delle Sezioni Unite ha implicato un vero e proprio overruling, e che quindi si sarebbe imposta una decisione della controversia che non tenesse conto del mutato orientamento del giudice di legittimità.
Anche tale motivo deve essere disatteso.
Questa Corte ha anche di recente affermato che l’intervento regolatore delle Sezioni Unite, derivante da un preesistente contrasto di orientamenti di legittimità in ordine alle norme regolatrici del processo, induce ad escludere che possa essere ravvisato un errore scusabile, ai fini dell’esercizio del diritto alla rimessione in termini, ai sensi dell’art. 153 c.p.c., o dell’abrogato art. 184-bis c.p.c., in capo alla parte che abbia confidato sull’orientamento che non sia poi prevalso, atteso che il detto intervento, non essendo preceduto da un orientamento univoco, non dà luogo ad una fattispecie di “overruling”, postulando essa un rivolgimento ermeneutico avente carattere, se non proprio repentino, quanto meno inatteso. Pertanto, è stata ritenuta non spettante la rimessione in termini alla parte che, confidando in uno dei contrastanti orientamenti giurisprudenziali di legittimità, in ordine allo strumento processuale utilizzabile per contrastare l’autenticità di un testamento olografo – poi superato da Cass., S.U., n. 12307 del 2015 -, si era limitata a disconoscere la conformità della copia prodotta all’originale, anziché proporre domanda di accertamento negativo della provenienza della scrittura (Cass. n. 32827 del 09/11/2021).
In disparte il rilievo per il quale in realtà la ricorrente non sollecita con il motivo nemmeno una rimessione in termini, ma pretenderebbe che la decisione della causa dovrebbe avvenire sulla base dei principi in passato seguito, peraltro solo da parte della giurisprudenza di legittimità, ignorando l’approdo delle Sezioni Unite, occorre ricordare che questa Corte ha già avuto modo di affrontare la questione dell’incidenza sui giudizi pendenti degli effetti delle conclusioni espresse dalle Sezioni Unite quanto all’individuazione del corretto regime di impugnativa del testamento olografo, ritenendo che l’affermazione circa la necessità di un’azione di accertamento negativo si imponga anche laddove le parti avessero nel merito dibattuto circa la necessità di dover ricorrere alla querela di falso o in alternativa alla verificazione, previo disconoscimento dell’atto mortis causa (cfr. in tal senso Cass. n. 4847/2017; Cass. n. 24336/2017; Cass. n. 2127/2018; Cass. n. 18363/2018). Occorre altresì considerare che il contrasto giurisprudenziale, cui la stessa ricorrente fa cenno, è stato risolto appunto da Cass. Sez. U., 15/06/2015, n. 12307, affermandosi che la parte che contesti l’autenticità di un testamento olografo deve proporre domanda di accertamento negativo della provenienza della scrittura, gravando su di essa l’onere della relativa prova, secondo i principi generali dettati in tema di accertamento negativo. Le Sezioni Unite di questa Corte, in particolare, hanno ritenuto inadeguato, al fine di superare l’efficacia probatoria di un testamento olografo, sia il ricorso al disconoscimento che la proposizione di querela di falso, prescegliendo, all’uopo, la terza via predicativa della necessità di proporre, appunto, un’azione di accertamento negativo della falsità della scheda testamentaria. Come si legge nella motivazione della richiamata sentenza delle Sezioni Unite, la necessità di una siffatta azione per quaestio nullitatis consente di rispondere: “- da un canto, all’esigenza di mantener il testamento olografo definitiva mente circoscritto nell’orbita delle scritture private; – dall’altro, di evitare la necessità di individuare un (assai problematico) criterio che consenta una soddisfacente distinzione tra la categoria delle scritture private la cui valenza probatoria risulterebbe “di incidenza sostanziale e processuale intrinsecamente elevata, tale da richiedere la querela di falso”, non potendosi esse “relegare nel novero delle prove atipiche” (…), – dall’altro, di non equiparare l’olografo, con inaccettabile semplificazione, ad una qualsivoglia scrittura proveniente da terzi, destinata come tale a rappresentare, quoad probationis, una ordinaria forma di scrittura privata non riconducibile alle parti in causa; – dall’altro ancora, di evitare che il semplice disconoscimento di un atto caratterizzato da tale peculiarità ed efficacia dimostrativa renda troppo gravosa la posizione processuale dell’attore che si professa erede, riversando su di lui l’intero onere probatorio del processo in relazione ad un atto che, non va dimenticato, è innegabilmente caratterizzato da una sua intrinseca forza dimostrativa; – infine, di evitare che la soluzione della controversia si disperda nei rivoli di un defatigante procedimento incidentale quale quello previsto per la querela di falso, consentendo di pervenire ad una soluzione tutta interna al processo, anche alla luce dei principi affermati di recente da questa stessa Corte con riguardo all’oggetto e alla funzione del processo e della stessa giurisdizione, apertamente definita “risorsa non illimitata”” (conformi, di seguito, Cass. Sez. 2, 02/02/2016, n. 1995; Cass. Sez. 2, 04/01/2017, n. 109; Cass. Sez. 6-2, 12/07/2018, n. 18363). E’ esplicito il richiamo da parte delle Sezioni Unite al remoto precedente di questa Corte costituito da Cass. 15 novembre 1951, n. 1545 che individua una sorta di impugnazione di autenticità del testamento, legittimato a sperimentare la quale è l’erede legittimo.
Appare però evidente come, nell’assetto derivante da Cass. Sez. U., 15/06/2015, n. 12307, “questione” della non provenienza del testamento olografo dal de cuius rimanga affidata all’onere probatorio dell’erede ab intestato, non spettando, viceversa, all’asserito erede testamentario di dar prova dell’esistenza di una valida vocazione testamentaria, e ciò analogamente, quanto meno sul piano del riparto dell’onere probatorio alla soluzione che sarebbe scaturita ove fosse stata reputata preferibile la tesi della necessità della querela di falso, che del pari faceva ricadere sull’erede legittimo l’onere di proporre detta querela, assoggettandosi al maggior rigore imposto da tale strumento processuale. Tale considerazione appare al Collegio anche utile al fine di evidenziare le ragioni per le quali non possa addivenirsi alla soluzione che ammetta una rimessione in termini in favore della ricorrente. Ad escludere la configurabilità, ai fini dell’invocata rimessione in termini, di un affidamento incolpevole degli originari convenuti stanno, però, i principi dettati dal precedente costituito da Cass. Sez. U., 11/07/2011, n. 15144. Questa pronuncia ha effettivamente chiarito come debba escludersi l’operatività della preclusione o della decadenza derivante da un mutamento della propria precedente interpretazione di una norma processuale da parte del giudice della nomofilachia (cosiddetto overruling), nei confronti della parte che abbia confidato incolpevolmente (e cioè non oltre il momento di oggettiva conoscibilità della decisione che abbia invertito la precedente ricostruzione) in una consolidata precedente interpretazione della regola di rito, di tal che l’overruling si connoti del fisionomico carattere dell’imprevedibilità, per aver agito in modo inopinato e repentino su di un pacifico orientamento pregresso. Di seguito, peraltro, Cass. Sez. U., 12/10/2012, n. 17402, ha ulteriormente spiegato come il mutamento di una precedente interpretazione giurisprudenziale, non preceduto da un orientamento univoco, non dà luogo ad una fattispecie di overruling, postulando essa un rivolgimento ermeneutico avente carattere, se non proprio repentino, quanto meno inatteso, o comunque privo di preventivi segnali anticipatori del suo manifestarsi, quali possono essere quelli di un, sia pur larvato, dibattito dottrinale o di un qualche significativo intervento della giurisprudenza sul tema (si veda ancora Cass. Sez. U., 10/02/2014, n. 2907). Cass. Sez. U., 15/06/2015, n. 12307, e la stessa ordinanza di rimessione n. 28696 del 20 dicembre 2013, davano, invece, espressamente atto di come esistesse un evidente contrasto di orientamenti nella giurisprudenza della Corte di cassazione sulla questione dello strumento processuale utilizzabile per contestare l’autenticità di un testamento olografo, e proprio la rilevata difformità di decisioni aveva giustificato la rimessione della questione alle Sezioni Unite di questa Corte, a norma dell’art. 374 c.p.c., comma 2. Tale contrasto fu poi composto dalle Sezioni Unite adottando la “terza via, già indicata dalla giurisprudenza di questa Corte con la risalente sentenza del 1951 (Cass. 15.6.1951 n. 1545, Pres. Mandrioli, est. Torrente), e cioè quella predicativa della necessità di proporre un’azione di accertamento negativo della falsità”. Pertanto, a rendere ingiustificata la richiesta formulata in ricorso è sufficiente qui ribadire l’orientamento di questa Corte, secondo il quale la stessa sussistenza di un intervento regolatore delle Sezioni Unite, derivante da un preesistente contrasto di orientamenti di legittimità in ordine alle norme regolatrici del processo, induce ad escludere che possa essere ravvisato un errore scusabile, ai fini dell’esercizio del diritto alla rimessione in termini, ai sensi dell’art. 153 c.p.c., o dell’abrogato art. 184-bis c.p.c., in capo alla parte che abbia confidato sull’orientamento che non sia poi prevalso (Cass. Sez. L, 05/06/2013, n. 14214; Cass. Sez. 1, 15/12/2011, n. 27086). D’altronde, ove anche la Corte avesse optato per la soluzione della querela di falso, che era appunto una delle opzioni maggioritarie che allora si contendevano il campo, la scelta fatta dalla ricorrente di incanalare le contestazioni dell’olografo nel binario del giudizio di verificazione (senza quindi mai intendere avvalersi del diverso istituto della querela di falso), non avrebbe legittimato di certo il ricorso alla rimessione in termini, e ciò proprio alla luce di quanto appena evidenziato in tema di riconoscibilità del cd. overruling, dovendosi altresì rilevare che la soluzione delle Sezioni Unite, se da un lato svincola l’impugnativa testamentaria dal rigore della querela di falso, ha pur sempre accollato all’erede legittimo l’onere di provare la falsità del testamento, analogamente a quanto sarebbe accaduto ove il dilemma fosse stato risolto a favore della soluzione della querela di falso, il che conforta il convincimento che non ricorrono gli estremi per favorire la richiesta rimessione in termini (richiesta peraltro mai rivolta alla Corte d’Appello, sebbene l’arresto delle Sezioni Unite fosse già intervenuto in pendenza del giudizio di merito). Va pertanto confermato il principio già espresso da questa Corte, secondo cui (Cass. n. 6918/2019) l’intervento regolatore Ric. 2018 n. 10179 sez. M2 – ud. 27-05-2021 -12- delle Sezioni Unite, derivante da un preesistente contrasto di orientamenti di legittimità in ordine alle norme regolatrici del processo, induce a escludere che possa essere ravvisato un errore scusabile, ai fini dell’esercizio del diritto alla rimessione in termini in capo alla parte che abbia confidato sull’orientamento che non è prevalso (nella specie, in una fattispecie sovrapponibile a quella in esame, la S.C. ha ritenuto non spettante la rimessione in termini alla parte che, confidando in uno dei contrastanti orientamenti giurisprudenziali di legittimità, in ordine allo strumento processuale utilizzabile per contrastare l’autenticità di un testamento olografo – poi superato da Cass., S.U., n. 12307 del 2015 -, si era limitata a disconoscere la conformità della copia prodotta all’originale).
Il ricorso principale è quindi rigettato.
5. Il primo motivo del ricorso incidentale lamenta la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1417, 2722, 2729 c.c., nonché degli artt. 115 e 116 c.p.c., in riferimento al mancato accoglimento del motivo di appello relativo al rigetto da parte del Tribunale della domanda indicata al n. 5 delle conclusioni della citazione.
Era stato, infatti richiesto di accertare la simulazione assoluta della cessione della quota della Arco effettuata da C.R. in favore del padre A. con atto del (Omissis), nonostante la presenza di numerosi elementi indiziari e presuntivi che deponevano per la fondatezza della domanda.
La Corte d’Appello ha disatteso però la domanda sul presupposto che non fosse stata fornita la prova della simulazione mediante la produzione della controdichiarazione, e ciò sul presupposto che, in assenza della proposizione della domanda di riduzione, fosse preclusa alle attrici la possibilità di fornire aliunde la prova della natura simulata della vendita.
Si è però trascurato che non vi palesava la necessità di proporre la domanda di riduzione per fruire delle agevolazioni probatorie, anche in ragione della pacifica qualità di erede legittimario in capo al dante causa delle ricorrenti incidentali.
Il secondo motivo del ricorso incidentale denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 782, 1325, 1343, 1344, 1417, 1418, e della L. n. 89 del 1913, art. 48, e, nonché degli artt. 115 e 116 c.p.c., quanto al mancato accoglimento del motivo di appello circa il rigetto da parte del Tribunale della domanda di cui al n. 9 delle conclusioni dell’atto di citazione. Si riferisce che la Corte d’appello ha escluso che fosse stata fornita la prova della simulazione della cessione delle quote sociali della Arco effettuata dal de cuius in favore di Ca.Ma. e di C.D. in data (Omissis), in quanto dissimulante una donazione.
Si deduce che vi erano numerosi elementi presuntivi che deponevano per l’accertamento della reale natura liberale dell’atto, che però non sono stati reputati suscettibili di utilizzazione, in ragione dell’operare della limitazione probatoria di cui all’art. 1417 c.c..
Anche sul punto la sentenza gravata fa leva sulla mancata presentazione dell’azione di riduzione, ma trattasi di affermazione che contrasta con la qualità di legittimario spettante al figlio del de cuius ed al fatto che non appare necessario per avvalersi delle agevolazioni probatorie che sia contestualmente esperita l’azione di riduzione.
Andava poi considerato che la finalità dell’atto di eludere le norme in tema di forma dell’atto di donazione costituisce una evidente manifestazione dell’intento di eludere norme imperative, con la conseguenza che trattandosi di simulazione di atto illecito ne era consentita la prova anche per le parti a mezzo presunzioni.
Il terzo motivo del ricorso incidentale deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 1417, 2722, 2729 c.c., e degli artt. 115 e 116 c.p.c., quanto al mancato accoglimento del motivo di appello in riferimento al rigetto della domanda di cui al punto 9 dell’atto di citazione nella parte in cui, ai fini della prova per presunzioni della donazione dissimulata, è stata negata alle attrici la qualità di terze, trascurando che la medesima non richiede necessariamente l’esercizio dell’azione di riduzione. Ne deriva che, avvalendosi degli elementi presuntivi, gravi precisi e concordanti offerti dalle ricorrenti incidentali, la sentenza avrebbe dovuto pervenire ad accertare la simulazione.
Il quarto motivo del ricorso incidentale denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 782, 1417, 1418, 1422 e 2935 c.c., nonché della L. n. 89 del 1913, art. 48, quanto al mancato accoglimento del motivo di appello relativo alla domanda di cui al n. 10 dell’atto di citazione volta a far accertare la donazione dissimulata dei pianterreni in (Omissis) di cui all’atto apparente di vendita del 26/4/1972, donazione effettuata dal de cuius in favore della figlia D..
Si evidenzia che la Corte d’Appello ha fondato la sua decisione sul rilievo della prescrizione dell’azione di simulazione, senza però tenere conto che si trattava di una donazione dissimulata, ma avvenuta con atto pubblico di vendita privo dell’assistenza di testimoni.
La nullità dell’atto assicurava quindi il recupero del bene senza necessità dell’azione di riduzione, il che sconfessa l’assunto, anche in punto di prescrizione, della Corte d’Appello circa la necessità di dover proporre la domanda di simulazione unitamente a quella di riduzione.
Il quinto motivo di ricorso incidentale denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 782, 1343, 1344, 1417 c.c. e della L. n. 89 del 1913, art. 48, nonché degli artt. 115 e 116 c.p.c., quanto al mancato accoglimento del motivo di appello circa il rigetto della domanda di simulazione degli atti con i quali Ca.Ma. aveva acquistato un terreno in (Omissis), successivamente poi rivenduto (punto n. 18 dell’atto di citazione).
Anche in tal caso il rigetto del motivo è ancorato alla mancata proposizione dell’azione di riduzione, trascurandosi gli argomenti esposti in occasione dei precedenti motivi di ricorso, circa la superfluità dell’esercizio contestuale dell’azione di riduzione.
Il sesto motivo del ricorso incidentale denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 1417, 1418, 2722, 2729 c.c. e artt. 115 e 116 c.p.c., quanto al mancato accoglimento del motivo di appello volto a contestare il rigetto della domanda di cui al n. 18 dell’atto di citazione, in quanto non si è tenuto conto della possibilità, per le ragioni già esposte, di poter avvalersi anche delle presunzioni ai fini della prova della simulazione.
Il settimo motivo denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 458, 536, 1344, 1417 e 1418 c.c., quanto alla manifesta volontà di eludere norme imperative mediante un disegno unitario di atti simulati.
Si assume che le controparti hanno posto in essere una serie di atti volti ad eludere le disposizioni in tema di patti successori, tramite una serie ripetuta di atti simulati, volti a pregiudicare il diritto alla quota di riserva dei discendenti di Co.An. junior.
6. I motivi, che per la loro connessione possono essere congiuntamente esaminati, sono privi di fondamento.
La sentenza gravata ha accomunato il rigetto della varie domande di simulazione avanzate dalle attrici facendo leva sul fatto che, essendo le stesse subentrate nella qualità di eredi del de cuius, erano sottoposte alle medesime limitazioni probatorie prescritte per la prova della simulazione ad opera delle parti contraenti, non potendo invece giovarsi del regime agevolato che la legge assicura la legittimario.
Alla pag. 52, è stato evidenziato che il tenore dell’atto di citazione consentiva di affermare che fosse stata avanzata la sola domanda di divisione, ricomprensiva anche dei beni asseritamente oggetto di simulazione, ma senza che fosse stata anche esercitata l’azione di riduzione, conclusione questa che impediva di poter farsi ricorso alle presunzioni per dimostrare la natura liberale degli atti apparentemente onerosi. Inoltre, quanto alla pretesa simulazione dell’atto del 1972 con il quale il de cuius aveva alienato alla figlia D. degli immobili in (Omissis), la Corte d’Appello, oltre a confermare la maturata prescrizione dell’azione di simulazione, essendo decorsi oltre dieci anni alla data di introduzione del giudizio rispetto a quella della vendita, ha altresì ribadito che il mancato esercizio dell’azione di riduzione non permetteva di provare la natura liberale dell’atto a mezzo di presunzioni.
Le censure sopra esposte, come detto, appaiono infondate, sebbene si imponga in parte la necessità di dover correggere la motivazione del giudice di appello.
6.1 In primo luogo quanto alla simulazione dell’atto di cessione di quote intervenuto nel (Omissis) tra il dante causa delle ricorrenti incidentali, C.R. ed il padre, rileva la circostanza che l’accertamento non è funzionale alla tutela dei diritti successori vantati sulla successione del secondo, quanto piuttosto a far valere l’esclusione da tale ultima successione delle quote, in quanto solo apparentemente trasferite. Ne consegue che effettivamente non risulta pertinente la motivazione del giudice di appello che ha fatto leva sulla necessità di dover distinguere tra l’azione di simulazione volta solo a far rientrare determinati cespiti nell’asse relitto da quella invece finalizzata a farne accertare la lesività della quota di riserva del legittimario, spettando solo in quest’ultimo caso la possibilità di darne la prova tramite anche presunzioni, atteso che l’azione di simulazione concernete tale atto di cessione mirava piuttosto a ripristinare la consistenza effettiva del patrimonio del dante causa della attrici.
Trattasi però evidentemente di azione di simulazione che non risulta anche in astratto in alcun modo suscettibile di avvantaggiare C.R., e per esso le sue aventi causa, in quanto legittimario rispetto alla successione paterna, ma è invece un’ordinaria azione di simulazione fatta valere dai uno dei contraenti al fine di far risultare, nella specie, l’assenza di una volontà di trasferire beni che quindi solo in apparenza sono pervenuti al cessionario.
Ne consegue che la disciplina della prova della simulazione ricade appieno nella previsione di cui all’art. 1417 c.c., che pone specifici limiti alla prova per testimoni a carico delle parti contraenti, e ciò anche per l’ipotesi di simulazione assoluta, la quale, oltre che a mezzo di produzione della controdichiarazione, e quindi tramite atto in forma scritta, al più potrebbe essere fornita a mezzo interrogatorio formale (cfr. Cass. n. 8804/2018; Cass. n. 3869/2004), ma non anche con il ricorso a presunzioni.
Il primo motivo è quindi infondato.
6.2 Passando invece alla simulazione degli atti che, nella prospettazione delle attrici, costituivano delle liberalità effettuate dal de cuius in favore delle convenute risulta invece pertinente il richiamo fatto dalla Corte d’Appello alla necessità che alle attrici possa essere riconosciuta rispetto alla donazione dissimulata la qualità di terze, e che a tal fine sia necessaria la spendita della qualità di legittimari, interessati a far valere la lesione della quota di riserva, asseritamente pregiudicata dall’atto di liberalità non reso evidente come tale all’esterno.
La ratio della sentenza impugnata si palesa in maniera evidente dal percorso argomentativo della Corte distrettuale, occorrendo tuttavia, a parziale correzione della stessa motivazione, ribadire che ciò che rileva ai fini della concessione delle agevolazioni probatorie, non è necessariamente l’esercizio contestuale dell’azione di riduzione, quanto invece l’allegazione a giustificazione della domanda di simulazione della qualità di legittimario e della necessità di addivenire all’accertamento della effettiva natura degli atti simulati, onde garantire il rispetto della quota di legittima, la cui tutela è scuramente offerta dall’azione di riduzione che però non costituisce l’unico strumento che il legislatore accorda al legittimario in vista della tutela delle sue aspettative successorie (si pensi alla rideterminazione delle quote ab intestato ex art. 553 c.c., ovvero alla nullità dei pesi e delle condizioni apposte alla legittima ex art. 549 c.c., ovvero alla nullità della divisione con pretermissione del legittimario, art. 735 c.c.).
Anche di recente la giurisprudenza della Corte ha ribadito che in tema di simulazione relativa, qualora la domanda venga proposta dalle parti o dagli eredi, la prova per testi, diretta a dimostrare l’esistenza del negozio dissimulato, è ammessa soltanto nell’ipotesi di cui dell’art. 2724 c.c., n. 3, ovvero quando s’intenda far valere l’illiceità del negozio (Cass. n. 18434/2022), così che l’azione di simulazione fatta valere dall’erede, senza allegare la qualità di legittimario risulta del pari assoggettata alle limitazioni di prova imposte alle parti dell’atto simulato.
Affinché l’erede che sia però anche legittimario possa provare la simulazione per testi o per presunzioni, in deroga al limite dell’art. 1417 c.c. (e ciò anche quando l’esito dell’accertamento della simulazione sia la verifica della nullità della donazione dissimulata in quanto l’atto simulato non è stato predisposto con i requisiti formali prescritti per le donazioni), è necessario che la relativa domanda sia stata proposta sulla premessa dell’avvenuta lesione della propria quota di legittima. Infatti, in tale situazione la lesione assurge a “causa petendi” accanto al fatto della simulazione ed il legittimario, benché successore del defunto, non può, pertanto, essere assoggettato ai vincoli probatori previsti per le parti dall’art. 1417 c.c., non rilevando la circostanza che egli, quale erede legittimo, benefici non solo dell’effetto di reintegrazione della summenzionata quota, ma pure del recupero del bene al patrimonio ereditario per intero, poiché il regime probatorio non può subire differenziazioni a seconda del risultato finale cui conduca l’accoglimento della domanda (così Cass. n. 15510/2018; Cass. n. 8215/2013).
Se di norma la tutela della quota del legittimario necessita dell’esercizio dell’azione di riduzione, onde recuperare la quota di riserva pregiudicata sulle disposizioni lesive, come potrebbe accadere nel caso in cui solo una volta disvelata la natura liberale dell’atto apparentemente oneroso, il legittimario possa sullo stesso recuperare in tutto o in parte la riserva lesa, l’accertamento della simulazione, in quanto volto ad incrementare il donatum, e di riflesso l’ammontare della legittima, potrebbe assicurare la tutela di quest’ultima senza la necessità di esercizio dell’azione di riduzione, in quanto i diritti del riservatario potrebbero essere soddisfatti avvalendosi della previsione di cui all’art. 553 c.c., e con la rideterminazione più favorevole delle quote ab intestato spettanti al legittimario, ovvero permettendo l’aggressione delle disposizioni testamentarie, che solo per effetto dell’incremento del donatum si rivelano come pregiudizievoli per la quota di legittima, ma senza che l’azione di riduzione sia formalmente indirizzata verso le disposizioni oggetto dell’atto simulato.
Deve quindi ritenersi oggetto di precisazione l’affermazione in passato ricorrente secondo cui le agevolazioni probatorie spettavano al legittimario solo nel caso in cui (cfr. Cass. n. 24134/2009; Cass. n. 8942/1994) fosse stata proposta in concreto una domanda di riduzione, nullità o inefficacia della donazione dissimulata, dovendo invece darsi continuità al più recente principio secondo cui il legittimario è ammesso a provare, nella veste di terzo, la simulazione di una vendita fatta dal “de cuius” per testimoni e presunzioni, senza soggiacere ai limiti fissati dagli artt. 2721 e 2729 c.c., a condizione che la simulazione sia fatta valere per un’esigenza coordinata con la tutela della quota di riserva tramite la riunione fittizia; egli, pertanto, va considerato terzo anche quando l’accertamento della simulazione sia preordinato solamente all’inclusione del bene, oggetto della donazione dissimulata, nella massa di calcolo della legittima e, così, a determinare l’eventuale riduzione delle porzioni dei coeredi concorrenti nella successione “ab intestato”, in conformità a quanto dispone l’art. 553 c.c. (Cass. n. 12317/2019).
Da tale puntualizzazione non può però farsi discendere che ogni qual volta l’azione di simulazione della donazione sia esperita dall’erede, a questi sia sempre possibile provare la stessa anche tramite presunzioni, dovendosi invece confermare il principio secondo cui dall’esercizio dell’azione di tale azione non deriva necessariamente che egli sia terzo, al fine dei limiti alla prova testimoniale stabiliti dall’art. 1417 c.c., perché, se l’erede agisce per lo scioglimento della comunione, previa collazione delle donazioni – anche dissimulate – per ricostituire il patrimonio ereditario e ristabilire l’uguaglianza tra coeredi, subentra nella posizione del “de cuius”, traendo un vantaggio dalla stessa qualità di coerede rispetto alla quale non può avvantaggiarsi delle condizioni previste dall’art. 1415 c.c., essendo invece terzo, se agisce in riduzione, per pretesa lesione di legittima, perché la riserva è un suo diritto personale, riconosciutogli dalla legge, e perciò può provare la simulazione con ogni mezzo (cfr. da ultimo Cass. n. 41132 del 21/12/2021; Cass. n. 536/2018, ed in precedenza Cass. n. 7134/2001; Cass. n. 4024/1998).
La deroga alla restrizione alla prova posta dall’art. 1417 c.c., se quindi non è più necessariamente correlata al fatto che sia stata anche proposta l’azione di riduzione della donazione dissimulata, resta però ancorata al fatto che l’azione di simulazione sia strumentale e finalizzata alla tutela della quota di riserva, poiché solo in questa ipotesi l’erede, che attraverso l’azione ex art. 1414 c.c., miri a reintegrare la quota spettantegli quale legittimario si pone come “terzo” rispetto all’atto impugnato, e difende un diritto proprio che gli spetta per legge, in una posizione antagonista rispetto al “de cuius” (cfr. Cass. n. 6315/2003).
In tale direzione si pone quindi anche il precedente richiamato nel ricorso incidentale (Cass. n. 2836/2017), che lungi dall’affermare la spettanza in ogni caso all’erede delle agevolazioni probatorie ve agisca in simulazione, ribadisce la necessità, pur in assenza della formale proposizione dell’azione di riduzione, che l’azione sia volta alla tutela della quota di riserva (sempre in tale ottica si veda Cass. n. 16535/2020, a mente della quale, quando la successione legittima si apre su un “relictum” insufficiente a soddisfare i diritti dei legittimari alla quota di riserva, avendo il “de cuius” fatto in vita donazioni che eccedono la disponibile, la riduzione delle donazioni pronunciata su istanza del legittimario ha funzione integrativa del contenuto economico della quota ereditaria di cui il legittimario stesso è già investito “ex lege“, determinando il concorso della successione legittima con la successione necessaria. Pertanto, la circostanza che il legittimario, nel chiedere l’accertamento della simulazione di atti compiuti dal “de cuius“, abbia fatto riferimento alla quota di successione “ab intestato” non implica che egli abbia inteso far valere i suoi diritti di erede piuttosto che quelli di legittimario, qualora dall’esame complessivo della domanda risulti che l’accertamento sia stato comunque richiesto per il recupero o la reintegrazione della quota di legittima lesa).
6.3 La sentenza impugnata, con accertamento che si palesa incensurabile, in quanto operato con una lettura logica e coerente degli atti di causa, non adeguatamente contrastato dalle censure delle ricorrenti incidentali, ha riscontrato che in citazione le attrici avevano chiesto disporsi la divisione dei beni caduti in successione, sia pure specificando la necessità di includere nell’asse anche le somme distratte dal patrimonio del de cuius ovvero oggetto di vendite simulate o di intestazioni a nome altrui, nonché di tutte le donazioni dirette o indirette, ma sempre ai fini della semplice divisione, secondo le quote legittime o testamentarie, ma senza che a tale richiesta fosse in alcun modo accompagnata la deduzione di una lesione della quota di riserva, il che consente di affermare che l’esercizio delle domande di simulazione sia avvenuto spendendo la qualità di eredi (potendo l’accertamento della simulazione essere funzionale anche alla sola collazione delle donazioni dissimulate) e non anche quella di aventi causa da un legittimario, in assenza di conclusioni che potessero richiamare l’esigenza di tutela della quota di riserva.
Risulta formalmente richiesta la sola divisione dei beni relitti, sicché appare pertinente il richiamo al principio secondo cui l’azione di divisione ereditaria e quella di riduzione sono fra loro autonome e diverse, perché la prima presuppone la qualità di erede e l’esistenza di una comunione ereditaria che si vuole sciogliere, mentre la seconda implica la qualità di legittimario leso nella quota di riserva ed è diretta alla reintegra in essa, indipendentemente dalla divisione, con la conseguenza che la domanda di divisione e collazione non può ritenersi implicitamente inclusa in quella di riduzione (Cass. n. 18468/2020; Cass. n. 19284/2019) o che viceversa in quella di divisione sia implicitamente inclusa quella di riduzione (Cass. n. 22885/2010).
Ne’ su tale esito può influire la circostanza che, stante l’operatività del testamento del (Omissis), al figlio R. fosse stata attribuita dal de cuius oltre che la legittima anche la disponibile.
Non ignora la Corte che di recente sia stato affermato che la riunione fittizia, prevista dall’art. 556 c.c., non è legata solo all’esperimento dell’azione di riduzione, ma è operazione necessaria, nel concorso di eredi legittimari, ogni qual volta sia rilevante stabilire quale sia il valore della disponibile lasciata genericamente dal testatore ad uno di essi (Cass. n. 14193/2022), ma trattasi di affermazione che non tocca il diverso problema qui in esame della deroga alla limitazione probatoria posta dall’art. 1417 c.c..
In particolare. ove anche necessaria la riunione fittizia, essendo l’individuazione della quota disponibile e di quella legittima scaturenti da tale operazione contabile, la stessa avverrà sul solo relictum ovvero sul donatum che già formalmente appaia tale, ovvero sia costituito da donazioni indirette, nel mentre l’inclusione anche delle donazioni dissimulate, se dal caso avvalendosi della prova per testi o presuntiva, presupporrà l’allegazione da parte dell’interessato che l’accertamento sia funzionale, come detto alla tutela della quota di riserva.
Ciò è scontato, nel caso in esame, per l’ipotesi in cui la simulazione sia dedotta da colui che per testamento sia beneficiario della sola quota di legittima, ma ove invece la simulazione sia richiesta da colui che abbia anche ricevuto la disponibile, come appunto gli eredi di C.R., la deroga all’art. 1417 c.c., presuppone che si alleghi che, in assenza dell’inclusione nel donatum anche della donazione dissimulata, la distribuzione dei beni effettuata in base alle previsioni testamentarie risulterebbe lesiva della propria quota di riserva.
6.4 Del pari priva di fondamento è la pretesa, anche nell’ottica di aggirare il profilo della prescrizione, individuata dalla Corte d’appello come seconda ratio fondante il rigetto della domanda di simulazione dell’atto di vendita del (Omissis), di giustificare la deroga all’art. 1417 c.c., sul presupposto della illiceità delle donazioni dissimulate, in quanto idonee ad eludere le norme, asseritamente imperative, in materia di forma delle donazioni.
Infatti, deve darsi seguito alla pacifica giurisprudenza di questa Corte che ha già in passato affermato che la nullità del contratto dissimulato per difetto di forma (nella specie, atto pubblico di donazione rogato senza l’assistenza dei testimoni) non configura un’ipotesi di illiceità del contratto, e pertanto non vale a rendere ammissibile senza limiti la prova testimoniale della simulazione tra le parti del contratto, ai sensi dell’art. 1417 c.c. (Cass. n. 4861/1980; Cass. n. 861/1973; Cass. n. 1361/1969; Cass. n. 276/1964, e più di recente Cass. n. 1535/2000).
Come del pari non configura l’illiceità del negozio la pretesa finalità di eludere i diritti dei legittimari (questione che pone il settimo motivo del ricorso incidentale), essendosi del pari affermato che (Cass. n. 861/1973) l’illiceità del negozio dissimulato, agli effetti dell’art. 1417 c.c., è configurabile solo se il negozio persegua interessi che l’ordinamento reprime, e non anche quando i contraenti si siano limitati a non osservare prescrizioni di legge che condizionino la validità del negozio, ovvero ove dia stata posta una donazione dissimulata nulla per difetto di forma ancorché preordinata allo scopo di ledere le future ragioni del legittimario (conf. Cass. n. 8942/1994).
Alla luce delle motivazioni che precedono deve quindi affermarsi l’infondatezza dei motivi di ricorso incidentale con i quali si invoca la possibilità di provare la simulazione delle donazioni asseritamente poste in essere dal de cuius, a mezzo di presunzioni, non senza rilevare che, quanto alla dedotta simulazione dell’atto di vendita del (Omissis), che il rigetto del motivo di appello si fonda su di una duplice ratio, ognuna delle quali di per sé sola sufficiente a giustificare la decisione, e cioè il riscontro della prescrizione della relativa domanda, e l’impossibilità di avvalersi della prova per presunzioni in assenza della proposizione dell’azione di riduzione (rectius spendita della qualità di legittimario).
6.5 Quanto, infine al settimo motivo del ricorso incidentale, risulta del tutto inconferente il richiamo alla pretesa violazione dell’art. 458 c.c., in quanto oggetto delle impugnative da parte della attrici erano pretesi atti di donazione, e cioè atti destinati a far fuoriuscire immediatamente i beni dal patrimonio del disponente, senza che quindi ricorrano i presupposti oggettivi per la configurazione di ipotetici patti successori istitutivi.
In tal caso, ove con gli atti di liberalità il de cuius intenda spogliarsi in vita del proprio patrimonio, sia pure al fine di pregiudicare le aspettative dei legittimari, la tutela dell’ordinamento è accodata tramite i rimedi approntati a favore del legittimario (rimedi nella specie, come visto non esperiti), ma senza che sia possibile invocare, ove anche la finalità sia quella di eludere le aspettative dei riservatari, una pretesa nullità per illiceità ex artt. 1343 e 1344 c.c..
Anche il ricorso incidentale deve quindi essere rigettato.
7. In ragione della soccombenza reciproca, si ritiene che ricorrano i presupposti per compensare le spese del presente giudizio.
8. Poiché sia il ricorso principale che quello incidentale sono rigettati, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto del Testo Unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater – della sussistenza dei presupposti processuali dell’obbligo di versamento, da parte della ricorrente principale e delle ricorrenti incidentali, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la rispettive impugnazioni.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso principale ed il ricorso incidentale;
Compensa integralmente le spese del giudizio di legittimità;
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente principale e delle ricorrenti incidentali di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato per i rispettivi ricorsi, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 28 febbraio 2023.
