FATTI DI CAUSA
Con sentenza n. 576 del 29.3.2018 la Corte di appello di Brescia, in riforma della decisione di primo grado, dichiarò l’illegittimità del recesso esercitato da G.I. dal contratto preliminare di acquisto del complesso immobiliare denominato (Omissis) sito in (Omissis), stipulato in data 17.12.2007 con Pa.Lu. e Pa.Ni., con B.G. e C.C., con P.C. e M.M. e con P.F., rispettivamente proprietari delle quattro unità immobiliari costituenti il compendio e, pro quota, delle parti comuni, dichiarando questi ultimi legittimati, previo esercizio del diritto di recesso, ove non già esercitato, a trattenere le somme ricevute a titolo di caparra.
Il giudizio di primo grado fu promosso da G.I., che chiese fosse accertata la legittimità del recesso dal contratto preliminare da lei comunicato in data l'(Omissis) ai promittenti venditori a causa del loro inadempimento, costituito dal fatto che il complesso immobiliare, come da lei appreso nel (Omissis), a seguito di indagini tecniche svolte dopo la stipula del compromesso, presentava una situazione di gravissima irregolarità edilizia ed urbanistica, che ne rendeva giuridicamente impossibile il trasferimento, in contrasto con l’impegno della controparte, assunto in preliminare, di vendere l’immobile conforme alla normativa ed alle prescrizioni edilizie ed urbanistiche vigenti. Chiese altresì la condanna dei convenuti al pagamento del doppio della caparra loro versata, oltre al rimborso delle spese di commissione e delle altre sopportate per gli accertamenti tecnici eseguiti.
All’esito del giudizio, in cui si costituirono i convenuti opponendosi alle domande e venne svolta consulenza tecnica d’ufficio, il Tribunale di Bergamo dichiarò la risoluzione del contratto preliminare per inadempimento dei convenuti, che condannò al pagamento del doppio della caparra ricevuta.
Proposti distinti appelli da parte dei convenuti ed appello incidentale da parte della G., riuniti i procedimenti, la Corte di appello di Brescia riformò totalmente la decisione di primo grado, rigettando le domande proposte dalla attrice.
A sostegno di tale conclusione la Corte territoriale affermò che non aveva trovato positiva conferma l’assunto della esponente secondo cui l’atto di trasferimento non poteva essere stipulato, pena la sua nullità, avendo il consulente tecnico d’ufficio verificato sì la presenza nel compendio immobiliare di difformità rispetto ai titoli edilizi, ma anche inequivocabilmente accertato che nessuna di esse dava luogo ad abusi primari, cioè alla realizzazione di manufatti in mancanza o totale difformità dal provvedimento autorizzatorio, unica fattispecie che renderebbe nullo, ai sensi della L. n. 47 del 1985, art. 40 e D.P.R. n. 380 del 2001, art. 46, l’atto di vendita. Aggiunse che le difformità riscontrate dal consulente tecnico non potevano nemmeno assumere rilievo in termini di inadempimento a carico dei promittenti venditori, rispetto al loro impegno di vendere l’immobile in regola con le norme urbanistiche, atteso che la G. aveva accettato tali irregolarità con la sottoscrizione del contratto preliminare di vendita, essendo già a conoscenza, in quel momento, della situazione di fatto e di diritto dell’immobile, per avere, prima dell’acquisto, incaricato tecnici qualificati di eseguire sopraluoghi e di compiere le visure necessarie presso gli uffici degli enti locali preposti e risultando gli stessi tecnici in possesso di tutta la documentazione amministrativa, catastale e documentale relativa allo stato edilizio urbanistico della villa, che la stessa parte, in sede di contratto preliminare, dichiarava di avere visionato con riguardo alle effettive consistenze dell’immobile, compresa la parte cortilizia e tutti i relativi accessori. Per la cassazione di questa sentenza, notificata il 12.4.2018, con atto notificato l’11.6.2018, ha proposto ricorso G.I., affidandosi a cinque motivi.
B.G. e C.C. hanno notificato controricorso e proposto ricorso incidentale condizionato, sulla base di due motivi, come pure P.C., P.F. e M.M., sulla base di un solo motivo, cui ha replicato con controricorso la ricorrente principale.
Pa.Lu. e Pa.Ni. hanno notificato controricorso.
Sia il Procuratore Generale che le parti private hanno depositato memoria.
Diritto
RAGIONI DELLA DECISIONE
Preliminarmente va esaminata e quindi disattesa l’eccezione di improcedibilità del ricorso principale sollevata dai controricorrenti B. e C. e P. e M., per non avere la parte depositato copia della sentenza notificatale in data 12.4.2018.
L’eccezione è infondata, atteso che dagli atti risulta che la copia della sentenza munita della sua relazione di notifica è stata depositata tempestivamente insieme all’indice del fascicolo in data 28.6.2018, entro il termine di 20 giorni dalla notifica del ricorso prescritto dall’art. 369 c.p.c..
Il primo motivo del ricorso principale denuncia omessa o falsa applicazione del D.P.R. n. 380 del 2001, artt. 31, 32, 44 e 46, della L. n. 47 del 1985, art. 40, e della L.R. Sardegna n. 23 del 1985, artt. 5 e 50, censurando la sentenza impugnata per avere ritenuto che le irregolarità edilizio urbanistiche presenti nell’immobile, non rientrando tra gli abusi primari, cioè non determinando la totale difformità del bene rispetto ai titoli autorizzativi, non rendessero nullo il futuro atto di vendita, ai sensi della L. n. 47 del 1985, art. 40 e D.P.R. n. 380 del 2001, art. 46.
Premesso che la relazione del consulente tecnico d’ufficio richiamata dalla Corte di appello aveva accertato la sussistenza negli immobili compromessi di ” difformità di minore gravità ” e di ” abusi gravi “, sostiene la ricorrente che la conclusione accolta è erronea ed illegittima, per non avere il giudicante considerato che, essendo i beni compresi in area sottoposta a vincolo paesaggistico ed ambientale, le difformità riscontrare come ” abusi gravi ” avrebbero dovuto portare a qualificare le opere eseguite in totale difformità dal titolo, ai sensi del D.P.R. n. 380 del 2001, art. 32, secondo cui gli interventi che determinano variazioni essenziali su immobili sottoposti a vincolo paesaggistico ed ambientale sono sempre considerate “in totale difformità dal permesso” di costruire.
La ricorrente precisa che l’errore commesso da giudice a quo discende dal recepimento acritico delle conclusioni del consulente tecnico d’ufficio, che, andando al di là del compito affidatogli, aveva escluso l’applicazione del D.P.R. n. 380 del 2001, art. 32, per la ragione che la L.R. Sardegna n. 23 del 1985, all’epoca vigente, nel definire quali fossero gli interventi edilizi da considerarsi “variazioni essenziali” delle opere, non aveva riprodotto la disposizione della legge statale sopra menzionata. L’interpretazione seguita dal consulente era però all’evidenza errata e avrebbe dovuto essere corretta e non seguita dalla Corte di appello, non potendo la legge regionale, a cui l’art. 32 D.P.R. citato demanda solo il compito di stabilire “quali siano le variazioni essenziali al progetto approvato”, derogare alle diposizioni generali fissate dalla legge statale.
La conclusione a cui è giunta la Corte di appello, di ritenere che gli abusi riscontrati non si traducessero in totale difformità delle opere e non determinassero la nullità del successivo atto di trasferimento, è pertanto viziata per omessa applicazione dell’art. 32 citato.
Il motivo non può essere accolto, risultando le censure sollevate inammissibili. Va premesso che dalla lettura della sentenza impugnata emerge che l’attrice aveva giustificato il proprio recesso dal contratto per l’impossibilità giuridica di trasferire il bene compromesso, assumendo che le difformità edilizie ed urbanistiche presenti nel compendio immobiliare erano di tale gravità che ne avrebbero reso nullo l’acquisto, alla luce della disposizione della L. n. 47 del 1985, art. 40, che sanziona con la nullità il trasferimento di immobili qualora nell’atto non siano indicati gli estremi della licenza o della concessione ad edificare, fattispecie che include anche i casi in cui l’immobile sia privo di autorizzazione ovvero sia stato edificato in totale difformità della stessa.
Nel rigettare la domanda proposta la Corte ha affermato, richiamando le conclusioni del consulente tecnico di ufficio, che le irregolarità accertate, pur consistendo alcune di esse in “abusi gravi”, non portavano a concludere che i beni fossero stati realizzati in totale difformità da quanto autorizzato e che pertanto gli immobili erano commerciabili e che il relativo atto di vendita, se fosse stato stipulato, non sarebbe stato nullo. In particolare, richiamando la consulenza tecnica, la Corte ha precisato che le irregolarità riscontrate nelle strutture accessorie a servizio delle pertinenze comuni e le difformità di cui alle varianti interne era sanabili con accertamento di conformità, non essendo necessari provvedimenti concessori in sanatoria, mentre le restanti irregolarità urbanistiche erano emendabili o “con il ripristino delle condizioni previste nei progetti originari, a mezzo di molteplici opere edili, ovvero adibendo gli ambienti, dove gli abusi sono stati accertati, a destinazioni equivalenti a quelle accertate”.
Tanto precisato, le censure svolte dal motivo che denunziano l’erronea applicazione della L.R. Sardegna n. 23 del 1985, sono inammissibili, in quanto investono considerazioni che si assumono svolte nella consulenza tecnica d’ufficio, ma che non risultano anche riprodotte o fatte proprie dalla sentenza impugnata, che di esse non fa alcuna menzione né contiene alcun riferimento alla citata disposizione della Legge Regionale. Il ricorso per cassazione, quale mezzo di impugnazione, deve rivolgersi avverso le argomentazioni poste dal giudice a fondamento della sua decisione, non contro quelle svolte dal consulente tecnico, tanto più laddove esse non siano richiamate quale presupposto delle conclusioni accolte o non emerga alcun collegamento materiale, logico o fattuale, tra le une e le altre.
Inammissibile appare anche la dedotta violazione od omessa applicazione del D.P.R. n. 380 del 2001, art. 32.
Ciò perché, come dedotto dai controricorrenti B. e C., la relativa censura appare fondata su un presupposto indimostrato, che vale a dire le irregolarità riscontrate sugli immobili oggetto di compromesso, ovvero talune di esse, integrassero e fossero qualificabili “variazione essenziali”, secondo la formula impiegata da tale disposizione. Il ricorso non spiega le ragioni, fattuali e giuridiche, di tale conclusione ed omette altresì anche di descrivere in cosa tali difformità consistano in concreto, mancanza che evidentemente impedisce a questa Corte di formulare qualsiasi valutazione al riguardo, cioè, nella specie, in ragione del controllo di legittimità ad essa demandato, di verificare la corrispondenza di esse, per la loro obiettiva consistenza, alla nozione di ” variazione essenziale ” posta dalla normativa nazionale (art. 32, comma 1, D.P.R. citato) e, per effetto del rinvio dalla stessa operato alla competenza delle Regioni, dalla legge regionale e quindi di esercitare il controllo sulla sua corretta applicazione.
Il secondo motivo di ricorso, che denuncia violazione o falsa applicazione degli artt. 1385 e 1372 c.c., e degli artt. 112 e 115 c.p.c., assume che la Corte di appello, nel valutare la legittimità del recesso dal contratto esercitato dalla odierna ricorrente, non avrebbe dovuto limitarsi a riscontrare se nella fattispecie ricorressero o meno ipotesi di nullità dello stipulando contratto definitivo di compravendita, ma avrebbe dovuto anche accertare se le difformità riscontrate sugli immobili integrassero un inadempimento grave da parte dei promittenti venditori, verifica che avrebbe dovuto portare ad esito positivo, alla luce della clausola “F” del contratto preliminare, in forza della quale i convenuti si erano assunti lo specifico obbligo di trasferire un immobile “conforme alla normativa ed alle prescrizioni edilizie ed urbanistiche vigenti”.
Il terzo motivo di ricorso denuncia violazione o falsa applicazione degli artt. 1362,1363 e 1366 c.c., censurando la sentenza impugnata per avere respinto la contestazione di inadempimento della controparte sollevata dall’attrice a causa delle difformità riscontrate sugli immobili compromessi. L’errore in cui è incorsa la Corte di appello sta nell’avere ritenuto che la clausola negoziale con cui i promittenti venditori garantivano la conformità edilizia ed urbanistica dei beni fosse “una formula generica, a cui non poteva ricollegarsi alcun speciale obbligo dei venditori, laddove, come nel caso di specie, risulta riportata con precisone nel preliminare l’elencazione delle sanatorie esistenti, individuate ed espressamente menzionate nel dettaglio” ed in ragione del fatto che la situazione di fatto e di diritto degli immobili era conosciuta dalla G. già prima della conclusione del contratto preliminare, che l’aveva pertanto accettata, ritenendola non ostativa all’acquisto. Il ragionamento svolto dalla Corte di appello, assume il ricorso, palesa una evidente violazione delle regole di interpretazione del contratto, nella specie del criterio letterale e logico, nonché dei principi secondo cui, nel ricostruire la volontà dei contraenti, il giudice deve tener conto del comportamento complessivo delle parti e del principio di buona fede. In particolare, costituisce un salto logico l’affermazione secondo cui il richiamo contenuto nelle premesse del preliminare al fatto che la promissaria acquirente avesse avuto la disponibilità della documentazione amministrativa degli immobili comportasse anche la sua effettiva conoscenza di tutte le difformità esistenti e, a maggior ragione, delle eventuali difformità tra le risultanze di tale documentazione e l’effettivo stato dei luoghi. L’apposizione della clausola di garanzia da parte dei venditori della conformità edilizia ed urbanistica stava in realtà a significare che l’odierna ricorrente non aveva mai rinunciato a pretendere che il complesso immobiliare dovesse essere in regola con la suddetta normativa. La predetta clausola andava comunque interpretata alla stregua del criterio della buona fede, essendo palese che era stata inserita a protezione dell’interesse della acquirente a conseguire l’effettiva utilità del contratto, mentre l’oggettiva svalutazione del suo significato operata dalla Corte di appello ha fornito un’interpretazione dell’accordo totalmente sbilanciata a favore della controparte.
Il secondo e terzo motivo possono esaminarsi insieme, per la parziale sovrapponibilità delle critiche svolte.
La censura, sollevata con il secondo motivo, con cui la ricorrente lamenta un vizio di omessa pronuncia in ordine alla contestazione con cui ha denunziato l’inadempimento dei promittenti venditori, appare manifestamente infondata. Come risulta chiaramente dalla lettura della sentenza, la Corte territoriale ha valutato le difformità degli immobili lamentate dalla parte attrice non solo sotto il profilo della loro incidenza sulla validità del contratto definitivo di compravendita, con ciò rispondendo al principale assunto difensivo secondo cui esse non avrebbero consentito di stipulare un valido atto di trasferimento, ma ha esaminato le dedotte irregolarità anche per la loro rilevanza sotto l’aspetto degli obblighi di adempimento gravanti sui promittenti venditori, tema che, del resto, è quello investito dalle critiche svolte dai motivi in esame.
Per il resto le censure, laddove contestano la decisione impugnata nella parte in cui ha escluso l’inadempimento dei convenuti, sono inammissibili.
La ragione, principalmente, va ravvisata nel fatto che i motivi non investono in maniera completa ed esauriente tutte le argomentazioni poste dalla Corte di appello a sostegno della sua statuizione sul punto.
Il giudice territoriale ha escluso che le difformità riscontrate dal consulente tecnico d’ufficio sugli immobili integrassero inadempimento degli obblighi assunti dai promittenti venditori di trasferire i beni in regola con le norme urbanistiche per la ragione che dalle risultanze istruttorie era emerso che la parte attrice era perfettamente a conoscenza della situazione di fatto e di diritto dei beni già nella fase delle trattative, prima della sottoscrizione del contratto preliminare, inferendo da ciò la conseguenza che esse erano state accettate dalla parte o comunque, può aggiungersi, ritenute dalla stessa non rilevanti ai fini della sua determinazione all’acquisto, con implicita rinuncia alla loro contestazione successiva.
Il convincimento della Corte in ordine alla conoscenza da parte della attrice delle denunziate difformità appare motivato dal rilievo che, prima dell’acquisto, la G. aveva effettuato sopraluoghi sull’immobile a mezzo di tecnici qualificati, che erano state fatte visure e accessi presso gli uffici preposti all’urbanistica e all’edilizia, comunali e regionali, ed era stata acquisita tutta la documentazione amministrativa, catastale e relativa alla situazione urbanistica della villa. La Corte ha quindi dato atto che, in sede di preliminare, era stato espressamente precisato che la promissaria acquirente aveva la disponibilità ed aveva preso visione “della documentazione tecnica e amministrativa relativa alle effettive consistenze dell’immobile, ivi compresa l’area cortilizia e tutti i relativi accessori”, nonché riportate con precisione l’elencazione delle sanatorie esistenti, individuate ed espressamente menzionate nel dettaglio.
Tanto premesso, le censure sollevata dalla ricorrente si appuntano sull’interpretazione data dalla Corte di appello alla clausola del contratto preliminare con cui la parte promittente assumeva l’obbligo di vendere l’immobile in regola con le norme urbanistiche vigenti, senza investire le argomentazioni relative alla acquisita conoscenza da parte della attrice, prima del preliminare, della situazione concreta, di fatto e di diritto, dell’immobile, che invece costituisce, nell’impianto motivazionale della decisione, uno snodo fondamentale.
Sotto altro profilo, si osserva che la critica all’interpretazione data dal giudice a quo della suddetta clausola di garanzia appare generica e non sviluppata con argomenti decisivi, risolvendosi in una mera contrapposizione tra l’interpretazione censurata e quella alternativa invocata. Ed invero la Corte ha precisato che la suddetta clausola era destinata a rimanere una formula generica proprio alla luce della acquisita conoscenza da parte della acquirente delle difformità presenti nell’immobile e della elencazione, contenuta nel preliminare delle sanatorie esistenti, individuate ed espressamente menzionate nel dettaglio. Al riguardo la censura è generica, perché la parte non deduce la presenza di difformità edilizie ed urbanistiche scoperte successivamente alla stesura del contratto preliminare, che non avrebbe potuto conoscere sulla base delle indagini tecniche effettuate, né appare circostanziata la contestazione in ordine alla non corrispondenza della documentazione amministrativa con la situazione di fatto dell’immobile.
Va poi ribadito il principio, formulato più volte da questa Corte, che l’interpretazione del contratto costituisce un’operazione demandata dalla legge alla esclusiva competenza del giudice di merito, suscettibile di sindacato di legittimità solo per violazione dei criteri legali ermeneutici, e che, per sottrarsi a censura, quella data dal giudice non deve essere l’unica interpretazione possibile, o la migliore in astratto, ma una delle possibili, e plausibili, interpretazioni (Cass. n. 9461 del 2021; Cass. n. 28319 del 2017; Cass. n. 27136 del 2017; Cass. n. 24536 del 2009; Cass. n. 10131 del 2006). Nel caso di specie, la soluzione della Corte di appello di non attribuire alla clausola di garanzia in discorso una rilevanza autonoma ed ulteriore rispetto al ricostruito assetto degli interessi dei contraenti, tale da poter superare la conoscenza acquista dalla parte in ordine alla situazione degli immobili ed i riferimenti a tale stato contenuti nello stesso atto contrattuale, appare una conclusione non arbitraria, ma plausibile e motivata in modo né illogico né contraddittorio.
Il quarto motivo di ricorso denuncia violazione dell’art. 112 c.p.c., per vizio di ultrapetizione, per avere la Corte di appello dichiarato il diritto degli appellanti, previo esercizio del diritto di recesso, ove non già esercitato, a trattenere la somma ricevuta a titolo di caparra. Tale accertamento, si sostiene, viola il principio della corrispondenza tra chiesto e pronunciato, atteso che i convenuti B., C. e Pa. non avevano mai esercitato la facoltà di recedere dal contratto, né mai chiesto al giudice adito di accertare in loro favore tale diritto.
Il quinto motivo di ricorso denuncia violazione degli artt. dal 1292 al 1313 c.c., e dagli artt. 1314 al 1320 c.c., “per avere la Corte di appello erroneamente interpretato le conseguenze in tema di obbligazione complessa in capo ai promittenti venditori”. Premesso che oggetto del preliminare era l’intero compendio immobiliare e che esso era formato da beni di proprietà esclusiva dei singoli gruppi di venditori, oltre che di beni comuni alle varie proprietà, assume il ricorso che i convenuti avevano assunto, in giudizio, posizioni diverse rispetto alla sorte del contratto, avendo chiesto i B. C. l’adempimento, con conseguente trasferimento del bene ex art. 2932 c.c., mentre gli altri avevano domandato che, stante l’inadempimento della controparte, fosse loro riconosciuto il diritto a trattenere la caparra ricevuta. Ne discende che la Corte ha errato nel riconoscere il diritto al trattenimento della caparra, atteso che esso presuppone l’esercizio del diritto di recedere dal contratto a mente dell’art. 1385 c.c., e che, dovendo considerarsi i promittenti venditori come un’unica parte contrattuale, il recesso, per poter essere efficace, avrebbe dovuto essere esercitato da tutti collettivamente.
Il quinto motivo di ricorso, che pone una questione generale avente carattere preliminare dal punto di vista logico e giuridico, va esaminato per primo rispetto al quarto ed accolto, in adesione alle conclusioni rassegnate dal Procuratore Generale.
La stessa sentenza impugnata, nel rigettare la domanda di adempimento proposta dai convenuti B. e C., dà invero atto che il contratto preliminare prevedeva l’impegno congiunto e non distinto di ciascun promittente venditore alla cessione di beni in parte di proprietà esclusiva ed in parte comuni e che l’oggetto del contratto non era divisibile. La Corte di appello ha quindi, in difetto di domanda congiunta di tutti i promittenti venditori, respinto la domanda di B. e C. diretta ad ottenere sentenza costitutiva del trasferimento ex art. 2932 c.c., ma ha errato nel non trarre le medesime conseguenze in ordine alla richiesta degli altri convenuti del riconoscimento del loro diritto a trattenere la caparra confirmatoria ricevuta. Tale riconoscimento presuppone, ai sensi dell’art. 1385 c.c., l’esercizio del diritto di recesso dal contratto per inadempimento della controparte, come esattamente dedotto dalla ricorrente. L’errore consiste allora nell’avere ritenuto che, nel caso di parte contrattuale unica plurisoggettiva, il recesso possa validamente essere esercitato soltanto da alcuni contraenti e non da tutti, collettivamente. In realtà, avendo i diversi promittenti venditori assunto, rispetto all’oggetto del contratto ed alla volontà in esso manifestata, la posizione di unica parte contrattuale, è evidente che il recesso, per essere valido ed efficace, avrebbe dovuto essere esercitato collettivamente da tutti i contraenti. L’unitarietà e insieme inscindibilità della posizione da essi rivestita impediscono che il contratto possa ritenersi sciolto per alcuni contraenti e proseguire per gli altri (Cass. n. 2969 del 2019; Cass. n. 9042 del 2016; Cass. n. 27302 del 2005).
Ne’ l’ostacolo rappresentato dalla necessità del recesso collettivo può essere superato, come sembra aver fatto la Corte di appello, riconoscendo in astratto il diritto di trattenere la caparra a tutti i convenuti, “previo esercizio del recesso, ove non già esercitato”. La volontà di recedere dal contratto, che come si è sottolineato doveva nel caso di specie provenire da tutti i promittenti venditori, deve infatti, per produrre effetto, essere manifestata, essere, cioè, effettiva e reale e non ipotetica e futura.
Il quarto motivo del ricorso principale risulta di conseguenza assorbito, risultando il vizio di ultrapetizione denunciato superato dall’accoglimento del quarto motivo.
Assorbiti devono infine dichiararsi i ricorsi incidentali proposti da B.G. e C.C. e da P.C., P.F. e M.M., che sono stati espressamente avanzati in via condizionata all’accoglimento del primo e terzo motivo di ricorso principale. Vero è che i ricorsi incidentali pongono questioni di inammissibilità, di carattere necessariamente preliminare, assumendo che il primo motivo del ricorso principale investe un tema il cui esame sarebbe precluso da giudicato interno (ricorso di B. e C.), mentre il terzo motivo è relativo al rigetto di una domanda, quella di inadempimento, che sarebbe tardiva perché proposta oltre i termini previsti dall’art. 183 c.p.c. (ricorsi B., C. e P., M.). Ma tale considerazione deve ritenersi recessiva e quindi superata dal rilievo che i relativi motivi del ricorso principale sono stati dichiarati inammissibili, giungendo alla medesima conclusione, sia pure per una ragione diversa, invocata dai ricorrenti incidentali.
In conclusione, va accolto il quinto motivo del ricorso principale, rigettato il secondo, dichiarati inammissibili il primo ed il terzo, dichiarati assorbiti sia il quarto motivo che i ricorsi incidentali. La sentenza va pertanto cassata in relazione al motivo accolto e la causa rinviata alla Corte di appello di Brescia, in diversa composizione, che si atterrà, nel decidere, ai principi di diritto sopra enunciati e provvederà anche alla liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
Accoglie il quinto motivo del ricorso principale, dichiara inammissibili il primo ed il terzo, rigetta il secondo, dichiara assorbiti il quarto motivo del ricorso principale ed i ricorsi incidentali; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia la causa, anche per la liquidazione delle spese, alla Corte di appello di Brescia, in diversa composizione.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 4 luglio 2023.
Depositato in Cancelleria il 2 agosto 2023
