Convenivano conseguentemente la predetta società davanti al Tribunale di Bari, chiedendo accertarsi l’avvenuta lesione, ad opera della stessa, del loro diritto di proprietà e la condanna della medesima alla cessazione della turbativa in questione ed al risarcimento dei danni.
Costituitasi, la convenuta eccepiva in via principale la prescrizione dell’azione ex adverso proposta, contestando in subordine la fondatezza delle domande.
La causa, sospesa in attesa che il Tribunale Regionale delle Acque si pronunziasse sulla natura, pubblica o privata, delle acque dei pozzi interessati dall’inquinamento, veniva tempestivamente riassunta dagli (omissis), una volta affermata da detto Tribunale, con sentenza del 29.4.88, la natura non pubblica delle acque in questione.
Con sentenza del 27.7.89 il Tribunale, disattese le eccezioni sollevate dalla convenuta, la condannava al risarcimento del danno, quantificato in L. 100.000.000, oltre interessi legali.
Proponeva impugnazione la s.p.a. (omissis) (già (omissis) s.p.a.), reiterando l’eccezione di prescrizione e censurando la sentenza impugnata in ordine all’esistenza ed entità del danno.
Resistevano gli appellati, eccependo in rito la nullità dell’atto d’appello (sull’assunto dell’omessa esposizione sommaria dei fatti di causa) ed instando, in via di appello incidentale, per una più elevata quantificazione del danno da risarcire.
Con sentenza del 16.10 – 31.10.91, la Corte d’Appello di Bari accoglieva l’appello principale, rigettando la domanda proposta con l’atto introduttivo, e respingeva quello incidentale.
Osservava la corte di merito, per quanto interessa in questa sede, che non ricorreva alcuna ipotesi di nullità (ex art. 164 C.P.C. o ad altro titolo) dell’atto d’appello proposto dalla s.p.a. (omissis); che erroneamente il Tribunale di Bari aveva qualificato l’azione dei germani (omissis) come azione reale ex art. 844, e ritenuto conseguentemente applicabile la prescrizione decennale, omettendo di considerare che detta azione, riconducibile allo schema generale dell’azione negatoria (art. 949 C.C.), va tenuta distinta nei presupposti e nelle conseguenze dell’azione risarcitoria ex art. 2043 C.C., con cui ben può concorrere, ed alla quale gli attori avevano fatto espresso riferimento nell’atto introduttivo; che soltanto sul risarcimento del danno gli attori, anche in sede di gravame, avevano insistito, essendo cessata ogni turbativa ed essendo quindi venuti meno i presupposti dell’azione negatoria; che, pur tenendo conto dell’effetto interruttivo dell’accertamento tecnico preventivo, eseguito con relazione depositata il 31 gennaio 1955, il termine di prescrizione quinquennale ex art. 2947 C.C. doveva ritenersi ampiamente decorso alla data di proposizione della domanda.
Avverso detta sentenza ricorrono per cassazione, sulla base di tre motivi, i germani (omissis). Resiste la soc. (omissis) con controricorso.
Entrambe le parti hanno depositato memoria.
Diritto
Motivi della decisione
Col primo motivo si denunzia violazione e falsa applicazione dell’art. 342 C.P.C. ed omessa o insufficiente motivazione su punto decisivo, in relazione all’art. 360 nn. 3 e 5 del codice di rito.
Lamentano i ricorrenti che, avendo essi eccepito la nullità e comunque l’inammissibilità dell’atto d’appello dell'(omissis), perché non contenente nè l’esposizione sommaria dei fatti nè la specificazione dei motivi d’impugnazione, la corte territoriale abbia immotivatamente ed apoditticamente affermato l’assenza di alcuna ipotesi di nullità, ex art. 164 C.P.C. o ad altro titolo, afferente detto atto.
Il motivo è infondato.
Il requisito dell’esposizione sommaria dei fatti nell’atto d’appello richiesto dall’art. 342 C.P.C., avendo lo scopo di rendere intellegibili i motivi di impugnazione in base alla semplice lettura di tale atto, può dirsi soddisfatto quando l’atto d’appello fornisca, sia pure indirettamente attraverso l’esposizione dei motivi, gli elementi necessari ai controinteressati ed al giudice per l’individuazione dei termini della controversia e dello svolgimento del processo (v. sent. nn. 4831 del 1989 e 3774 del 1990).
Correttamente – pertanto – il giudice d’appello, dopo aver riassunto, nella parte riservata all’esposizione delle vicende processuali, gli specifici motivi posti dalla società appellante a fondamento e giustificazione della proposta impugnazione, motivi formulati in modo da fornire, attraverso il riferimento ai fatti di causa, un quadro sufficientemente chiaro e completo dei medesimi, ha ritenuto insussistenti le dedotte ragioni di nullità – inammissibilità dell’atto d’appello (omessa esposizione sommaria dei fatti e specificazione dei motivi dell’impugnazione).
Nè, tenuto conto delle premesse espositive che, nell’ambito della sentenza impugnata, hanno costituito gli antecedenti di fatto e logico – giuridici di simile statuizione, può rimproverarsi alla corte di merito di non aver la stessa sufficientemente motivato.
Col secondo motivo i ricorrenti denunziano violazione e falsa applicazione degli artt. 112 C.P.C. e 1363 C.C., nonché omessa o insufficiente motivazione su punto decisivo della controversia. Il tutto in relazione all’art. 360 nn. 3 e 5 C.P.C.. Addebitano al giudice d’appello di aver erroneamente qualificato come risarcitoria l’azione da essi proposta, trascurando la sua espressa e specifica formulazione, fin dall’origine, e sulla base dei dati ed elementi acquisiti in sede di accertamento tecnico preventivo, come azione reale a difesa della proprietà, volta ad ottenere la cessazione delle turbative correlate e conseguenti alle infiltrazioni inquinanti provenienti dal limitrofo fondo della (omissis), ed il conseguimento di un congruo indennizzo, ex art. 844 cod. civ..
Assumono che non avrebbero potuto giustificare tale qualificazione neppure alcune espressioni letterali usate nell’atto introduttivo per indicare l’oggetto della pretesa (tali il riferimento all’art. 2043 C.C. e la richiesta di condanna al “risarcimento del danno”), essendosi precisato già in detto atto, ed ancora più chiaramente nel corso del processo, che si intendeva far valere non una responsabilità da fatto illecito, ma quella, di natura obiettiva, collegata alla provenienza ed alla intollerabilità delle lamentate immissioni.
Rimproverano alla corte di merito, conclusivamente, di aver violato e falsamente applicato le norme in tema di interpretazione della domanda giudiziale (in particolare, quelle sull’interpretazione complessiva delle clausole) ed il principio della corrispondenza del chiesto al pronunziato, omettendo altresì di motivare sufficientemente la qualificazione giuridica data a tale domanda.
Anche questo motivo non può trovare accoglimento.
L’esame degli atti processuali, e, in particolare, delle istanze e deduzioni degli attori, attuali ricorrenti, esame cui questa Corte ha il potere-dovere di procedere direttamente, a fronte del denunziato “error in procedendo” (violazione del principio della corrispondenza del chiesto al pronunciato, consacrato nell’art. 112 C.P.C.) in cui sarebbe incorso il giudice d’appello nell’interpretazione della domanda giudiziale, confermano l’esattezza e validità di siffatta interpretazione e del correlato e conseguente inquadramento giuridico di detta domanda, a tutti gli effetti, compreso quello del termine prescrizionale, nel paradigma dell’azione generale di responsabilità per fatto illecito (art. 2043 cod. civ.).
L’art. 844 cod. civ. impone – nei limiti della normale tollerabilità e dell’eventuale contemperamento delle esigenze della produzione con le ragioni della proprietà – l’obbligo di sopportazione delle propagazioni inevitabili, determinate dall’uso della proprietà attuato nell’ambito delle norme generali e speciali che ne disciplinano l’esercizio. Fuori di tale ambito, si è in presenza di un’attività illegittima, di fronte alla quale non ha ragion d’essere l’imposizione di un sacrificio, ancorché minimo, all’altrui diritto di proprietà o di godimento e non sono, quindi, applicabili i criteri dettati dall’art. 844, in tema di normale tollerabilità, di contemperamento di interessi contrastanti e di priorità dell’uso. In tale ipotesi, invece, venendo in considerazione unicamente l’illiceità del fatto generatore del danno arrecato a terzi, si rientra nello schema dell’azione generale risarcitoria di cui all’art. 2043 cod. civ. (Cfr. sent. n. 2184 del 1972; v. anche sent. n. 7411 del 1992).
Alla stregua di tale criterio, la domanda degli attori, riguardata in funzione del suo contenuto sostanziale, desumibile dalla situazione di fatto dedotta – nelle sue determinanti temporali e spaziali – a fondamento della pretesa fatta valere in giudizio, nonché del provvedimento richiesto in concreto, non può che essere inquadrata nel ridetto schema.
A presupposto della pretesa “risarcitoria” avanzata con l’atto introduttivo (notificato il (omissis)), gli attori dedussero l’avvenuta infiltrazione nel giugno (omissis), nel sottosuolo del fondo di loro proprietà, di prodotti petroliferi provenienti dal vicino stabilimento della (omissis), con conseguente inquinamento di alcuni pozzi per l’irrigazione esistenti nel suddetto fondo ed inaridimento – impoverimento del medesimo (per il venir meno delle colture più redditizie, quelle orticole estivo – autunnali).
La natura occasionale e contingente delle lamentate “immissioni” (la cui causa fu individuata dal c.t.u., nella relazione dell’accertamento tecnico preventivo richiamata in citazione, nella “rottura dell’oleodotto od altra avaria”), lasciando il fatto generatore delle stesse al di fuori dell’ordinario (e, per cosi dire, fisiologico) svolgimento dell’attività produttiva della convenuta, ed escludendo conseguentemente quell’indispensabile requisito di invocabilità della norma di cui all’art. 844 cod. civ. che è l’attualità di una situazione di intollerabilità delle immissioni derivante da una continuità, o almeno periodicità, anche se non ad intervalli regolari, delle medesime (Cfr. sent. nn. 3889 del 1977 e 1404 del 1979), da ragione, unitamente alla considerazione delle finalità risarcitorie espressamente perseguite dagli attori (in contrasto con quelle, puramente indennitarie, proprie dell’azione ex art. 844 C.C.), della correttezza della qualificazione giuridica dell’azione operata dal giudice d’appello, aderente al “petitum” sostanziale e non importante alcuna violazione del principio della corrispondenza del chiesto al pronunciato.
Col terzo motivo, denunziando “violazione e falsa applicazione dell’art. 112 C.P.C. in relazione all’art. 2043 C.C. e delle norme e dei principi in tema di corrispondenza tra chiesto e pronunziato ed in tema di danno permanente”, i ricorrenti sostengono che avrebbe in ogni caso errato il giudice d’appello nel ritenere che ogni turbativa al loro fondo fosse cessata. In realtà le infiltrazioni inquinanti avevano generato danni “non istantanei, ma permanenti, rinnovantisi giorno dopo giorno”.
E nel caso di illecito permanente, in cui il comportamento “contra ius”, oltre a produrre l’evento dannoso, lo alimenta continuamente per tutto il tempo in cui questo perdura, il termine di prescrizione dell’azione risarcitoria comincia a decorrere dalla cessazione della condotta dannosa.
Sarebbe perciò incorso nelle denunziate violazioni di norme di diritto il giudice d’appello, per non aver tenuto conto che, versandosi in ipotesi di illecito permanente, l’azione proposta, quand’anche configurabile come risarcitoria, non poteva ritenersi prescritta.
Il motivo è privo di fondamento.
L’istantaneità o la permanenza del fatto illecito extracontrattuale – con le relative conseguenze in ordine alla decorrenza della prescrizione – deve essere accertata con riferimento non già al danno, bensì al rapporto eziologico tra questo ed il comportamento “contra ius” dell’agente, qualificato dal dolo o dalla colpa: mentre nel fatto illecito istantaneo tale comportamento è mero elemento genetico dell’evento dannoso e si esaurisce con il verificarsi di esso, pur se l’esistenza di questo si protragga poi autonomamente (fatto illecito istantaneo con effetti permanenti), nel fatto illecito permanente il comportamento “contra ius”, oltre a produrre l’evento dannoso, lo alimenta continuamente per tutto il tempo in cui questo perdura, avendosi così coesistenza dell’uno e dell’altro (Cfr., tra le altre, sent. nn. 5383 del 1980 e 1346 del 1991).
Risultano per ciò stesso inconsistenti le censure svolte col motivo in esame. Come la loro formulazione palesemente denunzia, i ricorrenti mostrano infatti di attribuire alla (pretesa) permanenza delle conseguenze pregiudizievoli dell’altrui illecito (l’asserito persistere, a seguito e per effetto delle infiltrazioni inquinanti verificatesi nel lontano (omissis), dell’inaridimento del loro fondo), la stessa valenza, ai fini della decorrenza della prescrizione dell’azione risarcitoria, del protrarsi nel tempo della condotta illegittima generatrice di dette conseguenze, condotta che invece – com’è pacifico – ebbe assai breve durata (le infiltrazioni di prodotti petroliferi nel sottosuolo della proprietà Sbisà si esaurirono nel volgere di qualche mese).
Versandosi, anche a voler seguire la tesi degli attuali ricorrenti sulla permanenza dei danni, in un’ipotesi di illecito istantaneo con effetti permanenti, il termine di prescrizione del diritto al risarcimento del danno non poteva quindi non farsi decorrere – come ha fatto il giudice d’appello – dalla data in cui era stata posta in essere la condotta illecita generatrice del danno medesimo.
Segue al rigetto del ricorso la condanna dei ricorrenti, in solido, al pagamento delle spese di questo procedimento, nella misura liquidata in dispositivo, a favore della resistente.
P.Q.M.
Così deciso in Roma il 6.4.1994.