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Cassazione civile sez. I, 30/11/2007, n. 25016

Massima

In tema di capitalizzazione trimestrale degli interessi sui saldi di conto corrente bancario passivi per il cliente, a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 425 del 2000, che ha dichiarato costituzionalmente illegittimo, per violazione dell’art. 76 cost., l’art. 25, comma 3, d.lg. n. 342 del 1999, il quale aveva fatto salva la validità e l’efficacia – fino all’entrata in vigore della delibera Cicr di cui al comma 2 del medesimo art. 25 – delle clausole anatocistiche stipulate in precedenza, siffatte clausole, secondo i principi che regolano la successione delle leggi nel tempo, sono disciplinate dalla normativa anteriormente in vigore e, quindi, sono da considerare nulle in quanto stipulate in violazione dell’art. 1283 c.c. Le stesse, infatti, sono basate su un uso negoziale, anziché su un uso normativo, mancando di questo ultimo il necessario requisito soggettivo, consistente nella consapevolezza di prestare osservanza, operando in un certo modo, a una norma giuridica, per la convinzione che il comportamento tenuto è giuridicamente obbligatorio, in quanto conforme ad una norma che già esiste o che si reputa debba fare parte dell’ordinamento giuridico. (“opinio iuris ac necessitatis”).

Supporto alla lettura

ANATOCISMO

L’anatocismo è quel fenomeno per il quale gli interessi producono nuovi interessi, e deriva dal fatto che nei rapporti di conto corrente periodicamente (mensilmente, trimestralmente, ecc.) vengono calcolati gli interessi passivi sulle somme utilizzate dal correntista. Questo comporta che, nel periodo di calcolo successivo, gli interessi siano calcolati non solo sul capitale utilizzato ma anche sugli interessi addebitati, di qui appunto l’anatocismo bancario.

Per capire se c’è anatocismo, è necessario verificare se gli interessi maturati sono stati aggiunti al capitale iniziale per calcolare gli interessi successivi, cioè se gli interessi non sono stati pagati o incassati durante il periodo di riferimento e sono stati invece aggiunti al capitale iniziale.

L’anatocismo bancario è vietato dall’art. 1283 c.c., la cui regola generale, che vale per ogni rapporto e non solo per quelli bancari, è infatti quella per cui gli interessi maturano solo sul capitale dovuto e non anche sugli interessi precedentemente maturati.

Fino al 1999 non si era posto il problema degli anatocismi bancari, era già presente, ma era considerato legittimo dalla giurisprudenza in relazione al fatto che la legge lo vietava, ma salvo che vi fossero usi contrari.

Attualmente l’anatocismo è consentito solo a determinate condizioni, infatti se le banche seguono le regole in vigore per il periodo successivo alla regolamentazione, non è più possibile sollevare contestazioni. E’ però possibile avviare cause che coinvolgano rapporti di conto corrente nei quali vi sia stato in passato anatocismo, sia che tali rapporti siano aperti, sia che siano chiusi. La ragione sta nel fatto che la prescrizione in un rapporto aperto non matura se non a determinate condizioni: per cui nei rapporti aperti o chiusi da meno di 10 anni è astrattamente possibile agire per la ripetizione degli interessi capitalizzati quando la normativa lo consentiva.

Ambito oggettivo di applicazione

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
La Banca Nazionale del Lavoro S.p.a. chiedeva ed otteneva dal Presidente del Tribunale di Roma, nei confronti di (omissis), un decreto ingiuntivo per il pagamento di L. 650.450.026, oltre interessi e spese della fase monitoria, quale corrispettivo per la fideiussione prestata, unitamente a (omissis), in favore della (omissis) s.p.a., successivamente dichiarata fallita dal Tribunale di Roma con sentenza n. (omissis) del 17 novembre 1994.

Con atto di citazione notificato il 24 ottobre 1996 (omissis) conveniva in giudizio innanzi al Tribunale di Roma la Banca Nazionale del Lavoro s.p.a. e proponeva opposizione al decreto ingiuntivo deducendo l’inesigibilità della somma richiesta per mancata esecuzione della controprestazione da parte della Banca, con conseguente liberazione di esso opponente dalla fideiussione nonchè chiedendo che – accertata l’indeterminatezza, l’illiquidità e l’erroneità dell’importo ingiunto – fosse dichiarata l’invalidità, nullità ed inefficacia del decreto ingiuntivo, con sua revoca consequenziale.

La Banca Nazionale del Lavoro si costituiva, chiedendo il rigetto dell’opposizione.

Con sentenza 12 giugno – 30 novembre 1999 il Tribunale di Roma rigettava l’opposizione.

La decisione del Tribunale veniva confermata dalla Corte d’appello di Roma con sentenza dell’8 – 24 giugno 2003 contro la quale (omissis) ha proposto ricorso sulla base di un unico motivo.

La Banca Nazionale del Lavoro ha resistito notificando controricorso.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con l’unico motivo il ricorrente ha dedotto violazione e falsa applicazione degli artt. 1832, 1857, 1283 e 1284 c.c.; violazione e falsa applicazione della L. 7 marzo 1996, n. 108, art. 2, e dell’art. 1815 c.c., nonchè contraddittorietà, carenza ed illogicità della motivazione art 360 c.p.c., nn. 3 e 5, in quanto la Corte d’appello avrebbe erroneamente ritenuto che la mancata tempestiva impugnazione degli estratti conto da parte del debitore principale valesse a rendere incontestabili anche i criteri di determinazione e di calcolo mediante i quali la banca era giunta alle proprie determinazioni contabili con riferimento sia al capitale sia alla misura degli interessi applicati, trascurando di considerare che i limiti temporali di impugnazione degli estratti conto riguardano solo i profili strettamente contabili, ma non precludono di impugnare la validità ed efficacia dei titoli contrattuali che sono alla base degli accrediti e degli addebiti e che sono regolati dalle norme generali sui contratti. In particolare la Corte d’appello non avrebbe tenuto conto della circostanza che il contratto con il quale la Banca Nazionale del Lavoro aveva concesso alla Soc. (omissis) un finanziamento di 462000 ECU, conteneva la mera previsione del sorgere di un credito, condizionato alla effettiva erogazione delle somme finanziate, con la conseguenza che la pretesa azionata in via monitoria non poteva in alcun modo prescindere dalla puntuale dimostrazione della entità e dei tempi delle singole consegne delle somme mutuate. La pretesa di applicare, sin dal 1994, una misura fissa ed invariabile, ultra legale e non contemplata nelle pattuizioni scritte intervenute tra le parti, era da ritenere del tutto illegittima, mentre il criterio di determinazione degli interessi era reso poi ancora più oscuro dal groviglio delle clausole contrattuali di cui agli artt. 2, 2 bis, 4, 4 bis ed art. 11, commi 2 e 3, clausole da cui emergeva, come unico dato certo, la variabilità del tasso d’interesse e l’esclusione, sul piano convenzionale, della capitalizzazione periodica, che era stata invece applicata sia sul presunto debito originario in ECU sia, in esito della conversione, sull’importo in lire italiane. Dai conteggi predarti dalla banca risultava prima un tasso al 10% poi, improvvisamente, con contabilizzazione coeva, dal 18,450% al 18,900%.

Si tratta dunque, secondo il ricorrente, di interessi su interessi che hanno prodotto – nonostante i reiterati versamenti effettuati dalla società debitrice – una lievitazione esponenziale del debito, con ulteriore successiva aggiunta di un dietim di L. 235.04.

Il saggio di interesse preteso dalla BNL superava, in ogni caso, i limiti stabiliti dalla L. 7 marzo 1996 n. 108, con la conseguenza che, in applicazione dell’art. 1815 c.c., u.c., le relative clausole pattizie avrebbero dovuto ritenersi nulle e gli interessi non dovuti, ovvero quanto meno ridotti nei limiti consentiti da tale legge.

Quanto poi alla rilevata impossibilità di stabilire il rapporto di cambio (Lira/ECU) applicato, il richiamo contenuto nella sentenza impugnata alla previsione del capitolato che avrebbe previsto, in caso si risoluzione, la conversione del residuo debito in Lire italiane, evidenzierebbe come la Corte non abbia inteso il senso della censura, attinente alla misura del rapporto di cambio e non alla legittimità della conversione. L’affermata incontestabilità degli estratti conto avrebbe portato poi il Giudice d’appello a trascurala erroneamente le eccezioni relative all’imposizione di interessi superiori al tasso usurario, alla capitalizzazione periodica degli stessi in violazione dell’art. 1283 c.c., ed alla violazione dell’art. 1284 c.c..

Il ricorso è solo parzialmente fondato.

Premesso che le questioni dedotte dal ricorrente (nullità delle pattuizioni di interessi a tasso usurario e conseguente non debenza degli interessi stessi; difetto di convenzione scritta posteriore alla maturazione degli interessi, con violazione del divieto di anatocismo; mancata dimostrazione da parte della Banca dell’esistenza ed entità del credito, sia per il capitale sia per gli interessi, non essendo stata allegata, nè tantomeno provata la sussistenza delle condizioni stabilite dalla convenzione, con particolare riguardo ai criteri di riferimento per la loro quantificazione; illegittimità della pretesa, di applicare, sin dal 1994, una misura fissa ed invariabile, ultra legale e non contemplata nelle pattuizioni scritte intervenute tra le parti) erano state già integralmente prospettate innanzi alla Corte d’appello – con conseguente infondatezza dell’eccezione di inammissibilità formulata dalla resistente sotto il profilo della novità di ogni questione diversa dall’asserita mancanza di prove circa l’effettiva erogazione dell’importo del mutuo, e dall’asserita mancanza di precisazioni in ordine all’entità degli interessi via applicati, con riferimento alla prova dell’avvenuta erogazione del credito è sufficiente osservare che la Corte d’appello ne ha ritenuto la sussistenza facendo riferimento non solo alla mancata contestazione degli estratti conto da parte della debitrice, ma anche “alla copiosa documentazione in atti, non contestata dall’appellante, in cui è ripetutamente ammessa l’attribuzione dell’importo mutuato ala società, di cui appellante era presidente”; e tale affermazione, di per sè idonea sul punto a sorreggere l’impugnata decisione, non ha costituito oggetto di specifica censura da parte del ricorrente.

La corte d’appello ha poi rilevato che la banca, in ottemperanza alle clausole contrattuali, aveva inviato periodicamente alla (omissis) s.p.a. dettagliati conteggi, in cui erano esposte le singole voci e l’entità del debito, ivi compresa la misura degli interessi, misura che dalla società debitrice era stata ritenuta conforme a quanto stabilito nel contratto, tanto che al riguardo non era stato sollevato alcun rilievo. Tali affermazioni, contenute nell’impugnata sentenza, si risolvono in un accertamento in fatto (pattuizione di determinavi tassi d’interesse, e riconoscimento da parte della debitrice della conformità alle pattuizioni dei tassi applicati) che non appare suscettibile di sindacato in sede di legittimità, nè peraltro la specifica motivazione della Corte d’appello sul punto ha costituito oggetto di apposita censura da parte del ricorrente. Sotto altro profilo, la corte territoriale ha espressamente richiamato l’art. 11, del capitolato (costituente parte integrante del rogito di finanziamento) secondo cui, in caso di risoluzione del contratto, il residuo capitale, i relativi interessi e qualsiasi altro costo sarebbero stati convertiti in lire italiane al cambio medio della Borsa Valori di Roma e Milano, vigente al momento della risoluzione del contratto; e il ricorrente contravvenendo ai principi della necessaria specificità e della autosufficienza di motivi di ricorso – ha omesso di indicare da un sito quale sarebbe stato il supposto e diverso valore del cambio al momento della risoluzione del contratto, dall’altro in quale altra occasione, nel corso del rapporto, la banca abbia applicato rapporti di cambio. Quanto alla questione relativa agli interessi usurari, occorre ricordare che, secondo l’insegnamento costante di questa Corte, la disciplina relativa ai tassi di interesse sui mutui introdotta dalla L. 7 marzo 1996, n. 108, recante disposizioni in materia di usura e quindi anche quella dettata dal D.L. 29 dicembre 2000, n. 394, art. 1, conv. in L. 28 febbraio 2001 n. 24, di interpretazione autentica della precedente non può essere applicata a rapporti completamente esauditi prima della sua entrata in vigore, senza che rilevi, in senso contrario, la pendenza di una controversia sulle obbligazioni derivanti dal contratto e rimaste inadempiute, le quali non implicano che il rapporto contrattuale sia ancora in atto, ma solo che la sua conclusione ha lasciato in capo alle parti, o ad una di esse, delle ragioni di credito (cfr., tra le altre, Cass. 22 luglio 2005, n. 15497; Cass. 25 febbraio 2005, n. 4092). Il D.L. 29 dicembre 2000, n. 394 art. 1, conv. in L. 28 febbraio 2001, n. 24, ha infatti chiarito, con norma avente carattere di interpretazione autentica che, ai fini dell’applicazione dell’art. 644 c.p., e dall’art. 1815, comma 2, c.c., si intendono usurari gli interessi che superano il limite stabilito dalla legge nel momento in cui essi sono promessi e comunque convenuti a qualunque titolo, indipendentemente dal momento, del loro pagamento. Il ricorso è invece fondato par quanti attiene agli interessi anatocistici. Come infatti ripetutamente affermato da questa Corte, con indirizzo costante dopo la sentenza delle S.U. 4 novembre 2004, n. 21095, in tema di capitalizzazione trimestrale degli interessi sui saldi di conto correli: e bancario passivi per il cliente, a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 425 del 2000, che ha dichiarato costituzionalmente illegittimo, per violazione dell’art. 76, Cost., il D.Lgs. n. 342 del 1999, art. 25, comma 3, con il quale era stata fatta salva la validità e l’efficacia – fino all’entrata in vigore della delibera CICR di cui all’art. 25, comma 2, – delle clausole anatocistiche stipulate in precedenza, siffatte clausole, secondo i principi che regolano la successione delle leggi nel tempo, sono disciplinate dalla normativa anteriormente in vigore e, quindi, sono da considerare nulle in quanto stipulate in violazione dell’art. 1283, c.c., perchè basate su un uso negoziale, anzichè su un uso normativo, mancando di quest’ultimo il necessario requisito soggettivo, consistente nella convinzione che il comportamento tenuto sia giuridicamente obbligatorio, in quanto conforme ad una norma già esistente o che si reputa debba far parte dell’ordinamento giuridico (cfr., tra le altre, Cass. 5 maggio 2006, n. 10376; 19 maggio 2005, n. 10599; 25 febbraio 2005, n. 4095).

Nei limiti di cui sopra il ricorso deve dunque essere accolto, con cassazione della sentenza impugnata e rinvio alla Corte d’appello di Roma, in diversa composizione, anche ai fini delle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso per quanto di ragione, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d’appello di Roma, in diversa composizione, anche ai fini delle spese del giudizio di legittimità.Così deciso in Roma, il 20 settembre 2007.

Depositato in Cancelleria il 30 novembre 2007

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