Svolgimento del processo
1. – (omissis), titolare dell’impresa individuale denominata Farmacia (omissis) di (omissis), ha evocato in giudizio innanzi al Tribunale di Milano (omissis) Spa chiedendo di dichiararsi: la nullità dei contratti di finanziamento conclusi rispettivamente il 23 febbraio 2000 e il 23 settembre 2011 per difetto di causa; l’illegittima applicazione di interessi usurari in relazione a entrambi i finanziamenti; l’indeterminatezza dei tassi di interesse passivi applicati ai due rapporti in ragione della mancata indicazione del TAN (tasso annuale nominale) e, in ogni caso, l’applicazione di un ISC (indicatore sintetico di costo) superiore a quello indicato.
Il Tribunale ha respinto le domande.
2. – (omissis) ha impugnato la pronuncia di primo grado e la Corte di appello di Milano ha rigettato il gravame con sentenza del 17 luglio 2019.
3. – Avverso quest’ultima pronuncia la stessa (omissis) ha proposto un ricorso per cassazione articolato in tre motivi. Resiste con controricorso (omissis) Spa, ora in liquidazione. Sono state depositate memorie.
Motivi della decisione
1. – Il primo motivo denuncia la violazione dell’art. 111, comma 6, Cost. e degli artt. 112, 113, 115 e 116 c.p.c., nonché dell’art. 117, comma 4, t.u.b. e, più in generale, dell’art. 1284 c.c. Si imputa alla Corte di merito di non aver considerato che l’ISC non ha alcun valore sul piano della validità del contratto essendo un mero indicatore del costo complessivo dell’operazione. Secondo l’istante, attribuire rilievo a elementi come l’ISC o il TAEG, i quali ricomprendono al loro interno, oltre al tasso di interesse debitore indicato dalla banca, tutti gli altri costi e oneri previsti dal contratto, si traduce nella violazione delle prescrizioni contenute nell’art. 117, comma 4, t.u.b., oltre che dell’art. 1284, comma 3, c.c., secondo cui il tasso di interesse superiore a quello legale deve essere convenuto per iscritto. Si deduce, infine, che il procedimento attraverso cui ricavare il TAN dal TAEG (o ISC) richiederebbe la conoscenza dell’esatto ammontare delle spese e, ove eseguita a partire dal piano di ammortamento, postulerebbe alcune conoscenze di matematica finanziaria che non possono darsi per scontate.
Il tema posto dal mezzo di censura è quello del contratto che indichi il TAEG o ISC e non il TAN.
La sentenza impugnata, per la parte che interessa, si sviluppa in due ordini di considerazioni. La Corte di appello osserva, per un verso, che soltanto il TAEG costituisce un elemento essenziale del contratto di finanziamento, in quanto attraverso la conoscenza di tale elemento il mutuatario può valutare l’effettivo costo dell’operazione; è dunque il TAEG, ad avviso del Giudice distrettuale, a “garantire il rispetto dell’obbligo di informazione e della trasparenza che rappresenta la ratio dell’art. 117 t.u.b.“. Per altro verso, la stessa Corte di merito rileva che, nella fattispecie al suo esame, il TAN era facilmente determinabile attraverso un calcolo matematico.
1.1. – Il TAEG – o ISC – e il TAN sono entità giuridiche distinte.
Il primo, già previsto nella dir. 87/102/CEE e nella dir. 90/88/CEE, è stato introdotto nel nostro ordinamento dalla l. n. 142/1992, il cui art. 19 affidava al CICR il compito di stabilire le modalità di calcolo del TAEG e gli elementi da computare a tal fine. In sede di prima applicazione della detta legge la disciplina e i criteri di definizione del tasso annuo effettivo globale per la concessione di credito al consumo furono definiti dal d.m. 8 luglio 1992, in cui il TAEG, quale “tasso che rende uguale, su base annua, la somma del valore attuale di tutti gli importi che compongono il finanziamento erogato dal creditore alla somma del valore attuale di tutte le rate di rimborso” (art. 2, comma 1), era definito “un indicatore sintetico e convenzionale del costo totale del credito, da determinare mediante la formula prescritta qualunque sia la metodologia impiegata per il calcolo degli interessi a carico del consumatore” (art. 2, comma 2). La formula per il calcolo del TAEG era contenuta nell’allegato 1 al detto decreto ministeriale; peraltro, già l’allegato 2 alla dir. 90/88/CEE stabiliva la modalità di calcolo del TAEG. L’art. 9, comma 2, della delib. CICR del 4 marzo 2003 in tema di “Disciplina della trasparenza delle condizioni contrattuali delle operazioni e dei servizi bancari e finanziari” demandava alla Banca d’Italia di individuare le operazioni e i servizi a fronte dei quali il predetto indice “comprensivo degli interessi e degli oneri che concorrono a determinare il costo effettivo dell’operazione per il cliente”, dovesse essere segnalato, nonché la formula per rilevarlo. Indicazioni articolate sul TAEG si rinvengono, poi, al par. 4.2.4 del provvedimento del 29 luglio 2009 della Banca d’Italia sulla trasparenza delle operazioni e dei servizi bancari e finanziari e la correttezza delle relazioni tra intermediari e clienti; lo stesso provvedimento contiene, nell’allegato 5 B, la formula matematica per il calcolo del TAEG: la competenza, sul punto, della Banca d’Italia, è stata successivamente confermata dall’art. 121, comma 3, t.u.b., nel testo modificato dal D. Lgs. n. 141 del 2010. Nello stesso articolo del testo unico, al comma 1, lett. m), è spiegato che il TAEG indica, in percentuale annua, il costo effettivo del credito.
Il TAN è invece il tasso annuo di interesse dovuto al netto della capitalizzazione: è il valore cui fa riferimento l’art. 117, comma 4, t.u.b. quando stabilisce che i contratti “indicano il tasso d’interesse”. La stessa norma dispone che il contratto debba indicare, oltre al saggio di interesse, “ogni prezzo e condizione praticati”: e gli uni e gli altri concorrono a definire il dato aggregato del TEGM.
Sarebbe scorretto assumere che l’indicazione, nel contratto, del TEAG giustifichi la mancata precisazione, in esso, del tasso di interesse.
Con riferimento ai contratti conclusi da una banca con un soggetto non consumatore – come è l’odierna ricorrente – resta insuperabile la norma cogente contenuta nel cit. comma 4 dell’art. 117, la quale è presieduta dalla sanzione della nullità parziale, con applicazione dei tassi sostitutivi di cui al comma 7 dello stesso articolo. Analoga regolamentazione ricevono i contratti di credito immobiliare ai consumatori, ai quali si applica, in modo integrale, la disciplina dell’art. 117 t.u.b. (art. 120 noviesdecies), mentre per gli altri contratti di credito al consumo, rispetto ai quali il rinvio all’art. 117 è limitato ai commi 2, 3 e 6 (art. 125 bis, comma 2) è comunque prescritto che i relativi contratti precisino le condizioni stabilite dalla Banca d’Italia, in conformità alle deliberazioni del CICR (art. 125 bis, comma 1): condizioni tra cui è ricompresa quella per cui “(i) contratti indicano il tasso d’interesse ogni altro prezzo o condizioni praticati”, la quale replica quanto disposto, in via generale, dall’art. 117, comma 4, cit..
La persistenza dell’obbligo di indicare, nel contratto, il tasso di interesse si spiega con facilità ove si abbia riguardo alla (limitata) finalità cui assolve il TAEG. Quest’ultimo, rappresentando il dato aggregato del costo del credito, consente all’interessato di confrontare le condizioni di finanziamento che gli operatori bancari offrono sul mercato: per tale ragione ne è prevista la pubblicità (cfr. art. 123, lett. c, t.u.b.), oltre che l’informativa personalizzata al soggetto interessato al finanziamento prima che egli sia vincolato da un contratto (cfr,. art. 124, comma 1, t.u.b., anche se, per la verità, quest’ultima norma non fa preciso riferimento al TAEG, ma alle “informazioni necessarie per consentire il confronto delle diverse offerte di credito sul mercato”). L’indicazione, nel testo del negozio, del tasso di interesse risponde, invece, alla funzione informativa che ha la documentazione del contratto stipulato dalla banca col suo cliente. L’art. 117, comma 4, t.u.b. vuole che nel contratto siano precisati il tasso di interesse, i prezzi e le altre condizioni (compresi i maggiori oneri in caso di mora) in quanto reputa che tale nucleo di informazioni – riferite ai diversi elementi dell’obbligazione che grava sul cliente – sia indispensabile per rimuovere l’asimmetria conoscitiva dei contraenti. Nella logica della disciplina generale della forma dei contratti bancari l’indicazione puntuale del tasso di interesse (non di un TAEG onnicomprensivo, il quale non è un tasso convenuto contrattualmente ma un dato numerico calcolato in base a una formula matematica, quindi un semplice indicatore di costo) assume, insomma, un rilievo centrale: e ciò è confermato dall’apparato rimediale predisposto dal legislatore, il quale tiene conto di nullità riferite alle pattuizioni che interessano non il tasso effettivo globale, ma il tasso di interesse (art. 117, comma 7, lett. a) e gli altri prezzi e condizioni contrattuali (art. 117, comma 7, lett. b). L’idea che l’esplicitazione, in contratto, del TAEG sia idonea ad assicurare, sotto il profilo che qui rileva, la validità del contratto, genera, come conseguenza, una inoperatività della nullità dell’art. 117, comma 4, t.u.b. che è priva di fondamento giustificativo, visto che non esiste alcuna norma che deroghi alla regola, desumibile dal comma 7 dello stesso articolo, per cui, in assenza della fissazione del tasso di interesse, si ha una nullità parziale con eterointegrazione del regolamento contrattuale.
Mette conto di aggiungere che, specularmente, la comminatoria della nullità non è operante nei confronti della mancata indicazione del TAEG: proprio in quanto il TAEG è un indicatore sintetico del costo complessivo dell’operazione di finanziamento, questa Corte ha rilevato che esso non rientra nel novero dei tassi, prezzi ed altre condizioni la cui mancata indicazione nella forma scritta è sanzionata con la nullità ex art. 117 t.u.b. (Cass. 14 febbraio 2023, n. 4597; Cass. 9 dicembre 2021, n. 39169). Resta ferma ovviamente la nullità prevista, per i contratti del consumatore, dall’art. 125 bis, comma 6, t.u.b.: nullità incidente sulle clausole del contratto relative a costi a carico del consumatore che, contrariamente a quanto previsto ai sensi dell’articolo 121, comma 1, lett. e), non sono stati inclusi o sono stati inclusi in modo non corretto nel TAEG pubblicizzato nella documentazione predisposta in base all’art. 124.
1.2. – Rimane da chiarire se la nullità sia da escludere anche ove l’ammontare del saggio di interesse, non specificamente individuato, possa ricavarsi, in base a un calcolo aritmetico, dal testo del contratto che individui il TAEG.
In termini generali, la forma scritta ad substantiam di un contratto non esclude che la pattuizione investa un oggetto non determinato, ma determinabile (Cass. 28 marzo 2023, n. 8731; Cass. 9 ottobre 2014, n. 21352).
Con riferimento all’ipotesi della clausola degli interessi ultralegali, pure soggetta al rigore formale, la giurisprudenza di questa Corte ammette che il tasso di interesse di cui all’art. 1284, comma 3, c.c. possa essere non indicato in cifra, ma determinato attraverso il richiamo a criteri prestabiliti ed elementi estrinseci, purché oggettivamente individuabili, funzionali alla concreta determinazione del tasso stesso (tra le tante: Cass. 27 novembre 2014, n. 25205; Cass. 30 marzo 2018, n. 8028). Analoga regola è affermata con riguardo alla norma dei cui all’art. 117, comma 4, t.u.b. che contempla l’obbligo di indicare il tasso di interesse in contratti che sono già soggetti alla forma scritta: anche in questo caso il tasso di interesse può essere determinato per relationem, con esclusione del rinvio agli usi, ma il contratto deve richiamare criteri prestabiliti ed elementi estrinseci che, oltre ad essere oggettivamente individuabili e funzionali alla concreta determinazione del tasso, non devono essere determinati unilateralmente dalla banca (Cass. 26 giugno 2019, n. 17110: il principio è riferito al rinvio a dati esterni, che il contratto può recepire allo scopo, ad esempio, di regolare l’andamento di un tasso variabile; nella fattispecie è stato ritenuto nullo il riferimento ad un generico top rate, concretamente specificato solo in un avviso sintetico redatto dalla banca ed esposto al pubblico).
Il tasso può anche ricavarsi dal contesto stesso del contratto; come è ovvio, pure le indicazioni contenute nel corpo del negozio possono rappresentare elementi atti a rendere determinabile, a norma dell’art. 1346 c.c., l’oggetto della pattuizione relativa agli interessi. Deve credersi, in conseguenza, che il TAN del finanziamento, non puntualmente indicato, ben possa risultare determinabile ove sia suscettibile di definizione numerica sulla scorta del TAEG e degli altri valori riportati nel contratto.
Posto, dunque, che le indicazioni contenute nel corpo del negozio possono rappresentare elementi utili per rendere determinabile, a norma dell’art. 1346 c.c., il preciso oggetto della pattuizione relativa agli interessi, occorre osservare che la Corte di merito ha inteso dar conto proprio di detta evenienza.
Dopodiché, parte ricorrente dubita, in sostanza, della legittimità dell’impiego, nel contratto, a riferimenti che rendano il calcolo del TAN complesso e perciò disagevole. La censura è tuttavia declinata su di un piano astratto e non circostanziato ed è pertanto inammissibile: infatti l’istante non riproduce, né riassume, le parti dei documenti contrattuali relative alle condizioni pattuite e nemmeno precisa quale sia la localizzazione degli stessi all’interno dei fascicoli di causa. Resta così inattaccabile l’accertamento della Corte di appello, secondo cui nel caso in esame il TAN è da ritenersi “facilmente determinabile ai sensi dell’art. 1346 c.c.” (pag. 7 della sentenza impugnata).
1.3. – Tirando le fila, l’impugnata decisione del Giudice distrettuale è fatta bersaglio di una critica che, per un verso, si scontra con l’enunciato principio quanto alla determinabilità del saggio di interesse e che, per altro verso, difetta della necessaria specificità.
Il primo motivo va dunque complessivamente respinto.
2. – Col secondo mezzo si lamenta la violazione dell’art. 111, comma 6, Cost. e degli artt. 112, 113, 115 e 116 c.p.c., nonché dell’art. 117, comma 4, e dell’art. 119 t.u.b.. Rileva la ricorrente che “un finanziamento con tasso floor contiene al suo interno un’opzione floor, ovvero uno strumento finanziario derivato che consente alla banca di porre un limite alla variabilità in discesa di un determinato indice (es. l’euribor) ricevendo la differenza che alla scadenza o alle scadenze contrattuali si manifesta tra l’indice di riferimento ed il limite fissato”. Venendo in questione un derivato, il documento contrattuale dovrebbe evidenziare la “caratteristica evidente di derivato embedded”, nonché l’accordo sugli “scenari probabilistici di andamento dei tassi di interesse futuri”, consentendo così al cliente di comprendere la funzione specifica della clausola e il suo corretto valore.
2.1. – Come ricorda la sentenza impugnata, col secondo motivo di appello l’odierna ricorrente aveva lamentato che la clausola contenuta nel contratto di finanziamento – la quale prevedeva che gli interessi venissero indicizzati in base all’euribor tre mesi, con un tasso minimo del 2,40%, al di sotto del quale il saggio contrattuale non poteva scendere – implicava uno strumento finanziario derivato denominato “opzione floor”: in forza di essa Comifin si sarebbe vista assicurato un rendimento minimo anche nel caso di ribasso del tasso parametro variabile cui era indicizzato il finanziamento, mentre nessun beneficio sarebbe stato accordato al cliente, il quale era anzi esposto al rischio del rialzo del tasso, senza una soglia di sbarramento. Ha rilevato la Corte di appello che la clausola denominata “opzione floor” stabilisce una sorta di base (floor, appunto) al di sotto della quale l’interesse applicato al finanziamento non può mai scendere: in conseguenza, secondo lo stesso Giudice distrettuale, “tale clausola attiene alle modalità di determinazione del tasso di interesse debitorio ed ha, pertanto, natura ‘creditizia’; sicché essa non costituisce, neppure surrettiziamente, uno strumento derivato, ma è soggetta esclusivamente alla disciplina del testo unico bancario”.
Il motivo va rigettato.
Sul punto non può non darsi seguito a quanto affermato, di recente, dalle Sezioni Unite di questa Corte: “Costituisce un puro artificio la tesi (…) secondo cui la previsione di un tasso minimo dovuto dal cliente, inserita in un contratto di finanziamento a tasso indicizzato, costituirebbe una ‘inconsapevole vendita da parte del cliente al finanziatore’ di una option floor, e dunque un contratto derivato”. Secondo le dette Sezioni Unite, infatti, “la previsione per cui, anche nel caso di fluttuazione dell’indice di riferimento per la determinazione degli interessi, il debitore sia comunque tenuto al pagamento di un saggio di interessi minimo, non è che una clausola condizionale, in cui l’evento condizionante è la fluttuazione dell’indice di riferimento al di sotto di una certa soglia, e l’evento condizionato la misura del saggio: dunque un patto lecito e consentito dall’art. 1353 c.c.” (Cass. Sez. U. 23 febbraio 2023, n. 5657, in motivazione, par. 5.6.3).
3. – Col terzo mezzo la sentenza impugnata è censurata per la violazione dell’art. 111, comma 6, Cost. e degli artt. 112, 113, 115 e 116 c.p.c., nonché per la violazione dell’art. 1234 c.c. Si assume che dalla documentazione prodotta era risultato pacifico tra le parti che il capitale oggetto del secondo finanziamento era stato impiegato per estinguere il debito residuo del primo. Posto che le parti avevano inteso estinguere le obbligazioni a carico della mutuataria nascenti da un primo rapporto e costituire, in sostituzione di tali obbligazioni, un nuovo rapporto di credito, la vicenda era da inquadrare nell’istituto della novazione. Doveva quindi trovare applicazione la norma di cui all’art. 1234 c.c. per la quale, in caso di inesistenza dell’obbligazione originaria, la novazione è senza effetto. In tal senso, secondo la ricorrente, la nullità delle clausole del primo finanziamento o l’illegittimità degli addebiti operati con riguardo al rapporto nascente da detto contratto si sarebbero ripercossi sul secondo negozio.
3.1. – In sede di appello la Corte territoriale è stata chiamata a pronunciarsi sulla questione, posta col terzo motivo di gravame, vertente sulla nullità di causa del secondo contratto di finanziamento, siccome utilizzato per estinguere il debito per il rimborso del primo finanziamento. Sul punto il Giudice di appello ha osservato che l’importo erogato di Euro 1.339.818,92, pur non essendo stato materialmente consegnato all’attrice, era stato destinato alla chiusura della posizione debitoria derivante dal precedente finanziamento su richiesta della stessa appellante. In conseguenza, secondo la Corte di merito, il secondo contratto di finanziamento non poteva ritenersi privo di causa in concreto.
Il motivo è privo di fondamento.
Che l’operazione posta in essere attraverso l’acquisizione del secondo finanziamento e l’estinzione del primo possa essere ricondotta alla novazione è da escludere: e ciò in quanto il venir meno del primo rapporto contrattuale è dipeso non dalla conclusione di un negozio novativo, secondo lo schema dell’art. 1230 c.c., ma dall’adempimento dell’obbligazione di rimborso gravante sull’odierna ricorrente. Si mostra allora non pertinente l’evocazione dell’art. 1234 c.c.
D’altro canto, la deduzione secondo cui il pagamento posto in essere attraverso la provvista erogata col secondo contratto di finanziamento sarebbe da ritenere sostanzialmente apparente (essendo Comifin rimasta creditrice di “somme corrispondenti”: cfr. ricorso, pag. 32) non coglie nel segno. Infatti, il mutuo stipulato per ripianare la pregressa esposizione debitoria del mutuatario verso il mutuante non può essere qualificato come una mera dilazione del termine di pagamento del debito preesistente oppure quale pactum de non petendo in ragione della pretesa mancanza di un effettivo spostamento di denaro, poiché l’accredito in conto corrente delle somme erogate è sufficiente ad integrare la datio rei giuridica propria del mutuo e il loro impiego per l’estinzione del debito già esistente purga il patrimonio del mutuatario di una posta negativa (Cass. 25 luglio 2022, n. 23149).
4. – In conclusione, il ricorso è respinto.
5. – Le spese di giudizio seguono la soccombenza.
P.Q.M.
La Corte
rigetta il ricorso; condanna parte ricorrente al pagamento, in favore della contoricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 5.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi, liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge; ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17, della l. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello stabilito per il ricorso, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della prima Sezione Civile, in data 27 ottobre 2023.
Depositato in Cancelleria il 27 febbraio 2024.
