Svolgimento del processo
Con ricorso del 20 maggio 1976, (omissis), cittadina italiana nata ad Alessandria d’Egitto il 9 luglio 1912, premesso che il 28 settembre 1946 aveva contratto matrimonio con il rito protestante presso l’American Mission del Cairo, in conformità della legge locale che attribuiva competenza in materia alle autorità religiose dei diversi culti, con l’apolide (omissis) nato a Bucarest, dal quale aveva avuto la figlia (omissis) ((omissis)), e che dall’estate del 1968 era stata abbandonata dal marito, il quale aveva costituito un’altra famiglia, chiedeva al Tribunale di Milano di pronunciare la cessazione degli effetti civili del suddetto matrimonio.
Il (omissis) eccepiva l’inammissibilità dell’azione, allegando che il matrimonio non era stato trascritto né era trascrivibile, perché privo di effetti giuridici in Italia, e, successivamente, l’incompetenza territoriale dell’altro tribunale, essendo competente quello di Varese, dove aveva fissato il proprio domicilio e dove era stato notificato il ricorso.
Avendo l’attrice aderito all’indicazione di competenza, il processo veniva dichiarato estinto per rinuncia.
Con successivo ricorso in data 5 aprile 1977 la (omissis) chiedeva al Tribunale di Varese pronunciarsi la separazione personale dal marito per fatto a lui addebitabile, avendo il (omissis) abbandonato il domicilio coniugale, contratto altro matrimonio in costanza del primo e ridotto al di sotto del minimo vitale il sostegno economico.
Il (omissis) contestava di avere contratto matrimonio con la ricorrente, essendosi, a suo dire, limitato a chiedere un certificato matrimoniale alla Missione protestante americana del Cairo, per poter frequentare in compagnia della (omissis) gli alberghi cittadini; e per “mera bontà” aveva provveduto al mantenimento della donna finché, il 22 agosto 1973, aveva contratto valido matrimonio nel Comune di Cavallirio con (omissis).
A tale causa veniva riunita quella di (omissis), con citazione del 6 maggio 1977, per sentir dichiarare la nullità del matrimonio celebrato da (omissis) e (omissis) per violazione degli artt. 86 e 117 c.c.; causa, nella quale i convenuti deducevano che la così detta cerimonia matrimoniale del 28 settembre 1946 mancava dei requisiti necessari per acquistare forma di valido matrimonio.
L’adito tribunale dichiarava l’inesistenza del matrimonio contratto dal (omissis) e dalla (omissis) al Cairo il 26 settembre 1946, trascritto all’Ufficio di Stato Civile del Comune di Milano il 14 dicembre 1977 al n. 491 della parte II, serie C (trascrizione impugnata ed oggetto di separato giudizio davanti al tribunale di Milano) ed escludeva l’esistenza dei presupposti per l’applicazione del regime del matrimonio putativo.
Tale decisione è stata confermata dalla Corte d’appello di Milano, la quale ha ritenuto inesistente (ossia un “non matrimonio”) l’evento “celebrazione del matrimonio del 28 settembre 1946”, cui faceva riferimento lo scritto a firma del pastore protestante (omissis), essendo costituito da un insieme di circostanze insuscettibili di costituire titolo per far discendere effetti giuridici dal possesso di stato. Premessa l’applicabilità nel caso concreto della lex loci celebrationis ai sensi dell’art. 26 delle disp. sulla legge in generale, con riferimento agli art. 115 c.c. e 50 dell’Ord. stato civ., e cioé della legge vigente al Cairo nel 1946, la Corte d’appello, sulla scorta dei documenti acquisiti, anche per iniziativa diretta del tribunale a norma dell’art. 213 c.p.c., ha ritenuto: a) che, alla stregua di tale legge, nessun effetto giuridico, modificativo dello stato libero, poteva attribuirsi a matrimoni posti in essere dalle diverse Chiese protestanti operanti nel Paese al di fuori del Consiglio generale e del previsto regime di autorizzazione ed era da escludere che in tale Paese fosse vigente il principio giuridico in base al quale una cerimonia matrimoniale celebrata davanti ad una qualunque chiesa, indipendentemente da delega certificativa e dagli adempimenti connessi, avesse l’effetto di costituire un rapporto matrimoniale, sia fra sposi entrambi di culto protestante sia fra soggetti di mixta religio; b) che la dichiarazione del pastore celebrante (omissis) (esistente agli atti in versioni diverse) non registrava la celebrazione del matrimonio nel momento in cui questo sarebbe stato posto in essere, ma riproduceva un avvenimento storicamente e logicamente precedente, e la sua validità non avrebbe potuto prescindere da un potere certificativo del dichiarante, che non risultava da alcun elemento, poiché il pastore (omissis) non era mai stato iscritto presso il governo egiziano “come notaio pubblico qualificato per contrarre matrimoni”, né tale potere risultava conferito alla Missione americana, sì che si trattava di una semplice “attestazione” o “dichiarazione” resa a titolo privato da colui che assumeva di essere stato il pastore celebrante; c) che, d’altra parte, il documento era lacunoso e contraddittorio come “titolo” e incompleto anche nella sua funzione certificativa né trovava conforto in altri elementi probatori idonei a ricostruire l’evento “celebrazione del Matrimonio” che avrebbe avuto luogo nella Missione americana del Cairo il 28 settembre 1946; d) che irrilevanti ed inammissibili erano le ulteriori richieste istruttorie formulate dall’appellante.
Contro questa sentenza (omissis) ha proposto ricorso per cassazione in base a cinque motivi, cui il (omissis) e la (omissis) hanno resistito con controricorso e memoria.
All’udienza del 12 ottobre 1988 è stata disposta l’integrazione del contraddittorio nei confronti del Procuratore Generale presso la Corte d’appello di Milano, ritualmente eseguita.
Entrambe le parti hanno depositato successive memorie.
Motivi della decisione
Con il primo motivo la ricorrente denunzia la violazione degli artt. 101, 112, 115, 116 e 213 c.p.c., anche in relazione all’art. 24, 1° comma, cost. ed all’art. 2697 c.c., e sostiene che la maggior parte dei documenti acquisiti ai sensi dell’art. 213 c.p.c. è rimasta fuori del dibattito processuale, poiché, al fine di tale acquisizione, non basta che le notizie e i dati, trasmessi in apparente ossequio all’ordine del giudice, pervengono in cancelleria, ma occorre che questa li renda noti alle parti ed, anzi, che essi siano messi nel contraddittorio per iniziativa di parte e cioé che siano “prodotti” da queste. Aggiunge la ricorrente che il telespresso del 16 maggio 1983, con i documenti ad esso allegati (considerati decisivi nella sentenza impugnata), è di data successiva non solo alla discussione (21 gennaio 1983), ma anche alla decisione (9 maggio 1983) di primo grado; e che il telespresso del 17 aprile 1982, a sua volta, è rimasto fuori della causa fino alla conclusione d’appello.
La sentenza impugnata, secondo la ricorrente, è quindi viziata per avere posto a base del proprio convincimento materiale informativo rimasto estraneo al dibattito processuale, con violazione dell’art. 101 c.p.c., in relazione all’art. 24 cost., e dell’art. 115 c.p.c., in relazione all’art. 213 dello stesso codice. Inoltre, la Corte del merito, violando l’art. 116 c.p.c., avrebbe disatteso il materiale probatorio fornito dalle parti e dal Ministero degli esteri, per assumere, come attendibili, documenti di dubbia provenienza e talvolta palesemente inveritieri; per trascurare “il passato che divide” le informazioni, fornite dal Consolato prima della denunciata sostituzione del (omissis) allo stesso nei rapporti con l’autorità locale, e quelle successive; per trascurare la incredibilità di attestazione come quelle firmate dal reverendo (omissis) (qualificatosi come direttore dell’American Mission) fra loro in contrasto, dando ingiustificatamente credito ad una di tali versioni e considerando erroneamente irrilevanti le registrazioni anagrafiche e i documenti personali, compreso il passaporto del (omissis), che vi è indicato come coniugato con la (omissis). Infine, la Corte d’appello sarebbe incorsa nella violazione dell’art. 2697 c.c., in relazione agli artt. 112 e 115 c.p.c., attribuendo valore di prova a mere asserzioni del (omissis) o da lui procuratesi e negando, per contro, alla (omissis) il diritto di chiedere chiarimenti alle autorità responsabili subordinate o da singoli che si presentavano come esponenti cessati o attuali di esse.
Con il secondo motivo, che può essere esaminato congiuntamente al primo, la ricorrente denunzia il difetto di motivazione su punti decisivi della controversia da lei prospettati e riguardanti la mancata valutazione delle prove risultanti dai comportamenti del (omissis) dal 1972 al 1978 e dalla antiteticità dei convincimenti da lui espressi prima e dopo il 1978, la mancata valutazione della denunzia consolare e ministeriale della sostituzione del (omissis) alle autorità consolari nei contatti con le autorità locali; la mancata valutazione della contestata provenienza, dai titolari responsabili dei pubblici uffici competenti, della documentazione fatta pervenire dal (omissis) per vie diverse e mai tramite il Ministero, a partire dal 1982; la mancata valutazione delle contraddizioni di tale documentazione, sia interne alla stessa sia rispetto a quella acquisita al processo per via ufficiale o ad opera delle parti; la insufficiente motivazione sulla reiezione delle istanze istruttorie formulate dalla (omissis) e riferite all’art. 213 c.p.c..
Tali censure sono infondate.
Non sussistono, innanzi tutto, le dedotte violazioni del contraddittorio.
L’art. 96 disp. att. c.p.c. dispone che la nota contenente le informazioni, che la p.A. fornisce su richiesta del giudice a norma dell’art. 213 del codice, sia inserita nel fascicolo d’ufficio; e il precedente art. 76 attribuisce alle parti o ai loro difensori regolarmente costituiti il potere di esaminare gli atti e i documenti inseriti nel fascicolo d’ufficio (ed in quelli delle altre parti) e di farsene rilasciare copia dal cancelliere.
Da tali norme risulta chiaro che, essendo nel potere delle parti di esaminare gli atti e i documenti del fascicolo d’ufficio, che vi sono inseriti per legge, e non sussistono, per contro, né un obbligo di comunicazione da parte del cancelliere né un dovere d’iniziativa al riguardo a carico delle altre parti del processo, il contraddittorio sugli atti e i documenti suddetti si istituisce per il solo fatto del loro inserimento del fascicolo d’ufficio, che è onere delle parti esaminare.
Ciò consente di escludere le (ulteriori, secondo la ricorrente) violazioni del contraddittorio per essere, il telespresso del 16 maggio 1983, di data successiva alla decisione di primo grado e per essere, il telespresso del 17 aprile 1982, rimasto fuori dalla causa fino alla comparsa conclusionale d’appello (che per la prima volta ne avrebbe fatto menzione). Infatti, poiché la sentenza del tribunale è del 18 luglio 1983, è evidente che il telespresso del 17 aprile 1982 era stato acquistato ai sensi dell’art. 213 c.p.c. ed inserito nel fascicolo d’ufficio nel corso del giudizio di primo grado; e che le parti ne abbiano fatto oggetto di esame e di discussione soltanto nella comparsa conclusionale d’appello non incide sulla rituale acquisizione di esso, che la Corte d’appello poteva, quindi, considerare ai fini della decisione.
Quanto al telespresso del 16 maggio 1983, pervenuto dopo la deliberazione, ma prima della pubblicazione della sentenza di primo grado, è certo che il tribunale non ne tenne conto (ed, infatti, nessuna censura è in tal senso formulata dalla ricorrente), ma che, essendo stato, d’altra parte, ritualmente acquisito durante la pendenza del giudizio di primo grado, che ebbe a cessare con la pubblicazione della relativa sentenza, ed essendosi, per ciò, per i rilievi già svolti, su di esso formato il contraddittorio nel successivo grado del processo, la Corte d’appello poteva sottoporlo al suo esame in una a tutti gli altri atti e documenti inseriti nel fascicolo d’ufficio.
Le ulteriori censure, contenute nei due motivi in esame, investono la utilizzazione che la Corte d’appello ha fatto del copioso materiale probatorio acquisito al processo. Da esso la Corte del merito, com’era nei suoi poteri, ha attinto gli elementi ritenuti utili e sufficienti ai fini della decisione (ed è noto che, quando abbia ritenuto tale sufficienza ed utilità ai fini della formazione del suo convincimento, il giudice del merito non è tenuto ad esaminare specificamente gli altri elementi che ritenga ininfluenti alla formazione di quel convincimento, purché di esso dia conto con adeguata motivazione); né ha violato il principio della disponibilità delle prove (in quanto esercitata e superata dalla utilizzazione, su istanza delle parti, dei poteri di cui all’art. 213 c.p.c.) o quello dell’onere della prova, essendo costantemente affermato che il giudice può attingere al materiale acquisito al processo, a prescindere da quell’onere.
Non può, d’altra parte, non rilevarsi che, di fronte alla imponente massa di documenti affluiti all’esame della Corte d’appello, se ne imponeva una selezione, sotto il profilo della loro rilevanza e idoneità probatoria, che la Corte d’appello ha operato con approfondito discernimento, sostanzialmente considerando tutti gli elementi acquisiti e volgendo, esaustivamente, il suo esame a tutti i profili della delicata controversia.
Basta considerare, al riguardo, che la Corte d’appello, dopo avere raggruppato i vari documenti (acquisiti ai sensi dell’art. 213 c.p.c. o prodotti dalle parti) in due categorie (quelli relativi al regime giuridico dei matrimoni religiosi in Egitto nel 1946 e quelli volti ad integrare il “certificato” del pastore (omissis)), li ha esaminati sia isolatamente sia in collegamento gli uni con gli altri (specificamente indicandoli) ed è pervenuta a conclusioni, che, come si dirà anche con riguardo agli altri motivi di ricorso, resistono, sul piano della correttezza giuridica e su quello dell’adeguatezza e logicità della motivazione, alle censure della ricorrente.
Quanto precede costituisce anche giustificazione congrua per disattendere le istanze istruttorie, volte a provocare l’acquisizione di ulteriori documenti ai sensi dell’art. 213 c.p.c., e, pertanto, non sussiste, in proposito, il denunciato vizio d’insufficienza della motivazione, mentre nessuna censura alla mancata ammissione, da parte della Corte d’appello, della prova testimoniale dalla (omissis).
Con il terzo motivo la ricorrente denunzia la violazione dell’art. 17 disp. prel. al c.c.’ in relazione agli artt.131, 113 e 137 c.c., all’art. 126 ord. stato civ. ed alle altre norme sul regime delle nullità matrimoniali; la violazione delle citate norme del c.c., in relazione all’art. 31 disp. prel. al c.c.; la falsa applicazione dell’art.26 disp.prel. al c.c.; censurando la sentenza impugnata nella parte in cui procede alla valutazione dell’atto di matrimonio, contratto dalle parti in Egitto, sulla base della legge locale per risalire poi agli effetti costitutivi di status coniugali. Così facendo, la Corte d’appello, secondo la ricorrente, sarebbe incorsa nel duplice errore (a) di determinare lo stato delle persone in base alla legge richiamata dall’art. 26 disp. prel. al c.c. e non secondo la legge italiana, unica competente in forza dell’art. 17 delle stesse disposizioni, trattandosi di matrimonio tra una cittadina italiana e un apolide residente in Italia; e (b) di far dipendere gli effetti dell’atto di matrimonio non dalla legge che ne disciplina gli effetti, bensì da quella che ne regola il procedimento di formazione, in contrasto con il principio per il quale la norma, che assume una fattispecie come produttiva di effetti tipici, stabilisce anche le conseguenze su tali effetti dei vizi nella formazione dell’atto, con la conseguenza che i vizi i quali colpiscono quel procedimento raramente sono motivo di nullità o annullamento e sono soggetti, nella maggior parte dei casi, a decadenza, sanatoria e convalida (cfr. gli artt. 113 e 137 c.c. e l’art.126 Ord. stato civ.). Avrebbe dovuto, per ciò, ricevere applicazione l’art. 131 c.c., in base al quale il possesso di stato, conforme all’atto di celebrazione di matrimonio, sana ogni difetto di forma, poiché la pretesa inidoneità, nel caso concreto, dell’atto di celebrazione, ai fini dell’applicazione della norma ora richiamata, è esclusa da tutte le informazioni acquisite al giudizio, salvo che da quelle più recenti la cui palese inattendibilità è stata preventivamente denunciata dal Consolato. D’altra parte – aggiunge la ricorrente – la sentenza impugnata è errata nella stessa ricerca del quadro normativo e non dà alcuna giustificazione sul richiamo della normativa. costituita dal decreto del 1° marzo 1902, per trarre la valutazione circa la esistenza, o meno, della celebrazione del matrimonio, piuttosto che della normativa di fatto vigente in Egitto nel 1946, secondo i dati forniti da Consolato e Ministero e da tali organi ampiamente discussi, dai quali risultavano l’avvenuta celebrazione del matrimonio e i numerosi matrimoni celebrati presso l’American Missioni in quanto erano localmente riconosciuti come tali. La sentenza impugnata, secondo la ricorrente, non tiene conto del carattere proprio di un sistema pluralistico a base confessionale qual era quello egiziano in materia matrimoniale ancora nel 1946, per cui ciascuno dei coesistenti ordinamenti religiosi determinava autonomamente la propria competenza, estendendosi talvolta anche alla giurisdizione. Rileva in conclusione la ricorrente che, se il celebrante mancava di una investitura, in ipotesi richiesta, egli era un apparente ufficiale di stato civile e si applica l’art. 113 c.c.; se egli non era competente, perché appartenente ad una chiesa diversa da quella di appartenenza dei nubendi, si applica l’art. 137 c.c.; se l’atto avesse dovuto essere firmato (ma non doveva esserlo), si applicherebbe l’art. 131 c.c.; se fossero mancati i testimoni (ma vi erano e firmarono), si applicherebbero sia l’art. 137, sia l’art. 131 c.c..
Tali censure sono infondate.
Conviene premettere che il matrimonio religioso contratto all’estero da cittadini italiani (o, come nel caso in esame, da una cittadina italiana con apolide), se produce, in virtù della legge locale, effetti civili nel paese dov’é stato celebrato, come una delle tante forme ammesse in quello Stato per contrarre matrimonio con l’anzidetta efficacia, è valido anche in Italia a norma dell’art. 115 c.c., indipendentemente dalla trascrizione nei registri dello stato civile (v. sent. 12 luglio 1967 n. 1719 e 14 febbraio 1975 n.569). Tuttavia, il giudice italiano, se del matrimonio contratto all’estero è chiamato a verificare la validità e – ove esso sia affetto da vizi formali – a stabilire se si sia verificata taluna delle ipotesi di sanatoria previste dagli artt. 113, 131, 132 e (implicitamente) 137 c.c., deve innanzi tutto accertare che esso non sia inesistente per mancanza dei requisiti minimi essenziali, avendo presente che sono causa d’inesistenza del matrimonio la mancanza dei requisiti formali della celebrazione, del consenso degli sposi (e, ovviamente, della loro diversità di sesso) (sent. 569-75); con la partecipazione che l’inesistenza va ravvisata nella mancanza della realtà naturalistica della fattispecie, i cui requisiti minimi sono costituiti dalla presenza di due persone di sesso diverso, manifestanti la volontà matrimoniale all’ufficiale celebrante (sent. 20 maggio 1976 n.1808).
Muovendo da tali principi, la Corte d’appello ha correttamente osservato che: a) solo quando esista un consenso, sia pure viziato o condizionato, manifestato dai nubendi davanti ad un apparente destinatario di funzioni ufficiali, si può prospettare il problema della celebrazione del matrimonio in termini di nullità o invalidità del vincolo, poiché diversamente ci si trova in presenza di un “non matrimonio”, ossia di un insieme di circostanze insuscettibili di costituire titolo per far discendere effetti giuridici dal possesso di stato; b) matrimonio nullo èsolo quello venuto ad esistenza nella realtà fenomenica, ma che l’ordinamento ritiene incompatibile con la disciplina sanzionata da nullità; c) il complesso di fatti, che, considerato in modo unitario, dimostra sul piano sociale l’esistenza dello stato coniugale, assume rilievo solo nelle ipotesi tipiche considerate della legge (art. 131: possesso di stato conforme all’atto di celebrazione del matrimonio: art. 132, 2°comma: ammissibilità della prova dell’esistenza del matrimonio, sempre che risulti in modo non dubbio un conforme possesso di stato, in caso di mancato inserimento dell’atto di matrimonio nei registri a ciò destinati per dolo o colpa del pubblico ufficiale o per forza maggiore), nonché nelle ipotesi di matrimonio celebrato davanti a un apparente ufficiale dello stato civile (art. 113) o ad ufficiale incompetente ovvero senza la presenza dei testimoni (art. 137); d) l’unione di fatto, pur prolungata nel tempo, non è idonea a sostituire la celebrazione ed a sanare l’eventuale falso dell’atto di celebrazione o a superare la mancata manifestazione del consenso da parte degli sposi o la mancata dichiarazione dell’Ufficiale dello stato civile.
La Corte d’appello ha – pure esattamente – osservato che, affinché possa operare, ai sensi dell’art. 17 disp.prel.c.c., la legge italiana, quale legge regolatrice degli effetti, deve prima riscontrarsi – in base alla legge del luogo di celebrazione (art.26 disp. prel. c.c., in relazione all’art. 115 c.c. e all’art. 50 ord. stato civ.)- se, dal punto di vista formale, vi sia una celebrazione di matrimonio in senso proprio consacrata in un atto conclusivo del procedimento di formazione di un titolo matrimoniale (e non la mera registrazione di una situazione di coabitazione), e, ancor prima, se vi sia l’esistenza di un fatto storico di celebrazione. In questa ottica – v’é da precisare – la stessa legge del luogo di celebrazione, in tanto assume rilievo (al fine della individuazione dei requisiti formali che essa richiede perché si possa contrarre un valido matrimonio), in quanto si rintracci, nella realtà fenomenica, un fatto comunque sussumibile in uno schema di matrimonio, del quale abbia quei requisiti minimi indispensabili cui si è accennato.
La ricerca e l’esame del diritto egiziano vigente nel 1946 (che la Corte d’appello ha accuratamente compiuto e che la ricorrente censura senza, peraltro, contrapporre un diverso quadro di riferimento nell’ambito della collaborazione che le parti devono, a tal fine, prestare al giudice delle cui cognizioni non fa parte la legge straniera) conduce, invero, proprio ad escludere l’esistenza stessa di un fatto storico di celebrazione, tale da permettere poi di verificare la conformità al diritto straniero, sì che, di fronte all’accertata inesistenza di un fatto nel quale sia ravvisabile quel minimo indispensabile per potersi parlare, pur nella realtà naturalistica, di una avvenuta celebrazione, diventa superflua ogni ulteriore indagine per stabilire se e quali particolari vizi formali abbiano potuto inficiare una celebrazione totalmente mancata.
In altri termini, la Corte d’appello, quando ha rilevato che, al di fuori delle ipotesi di celebrazione di matrimonio dinanzi ai ministri delle chiese protestanti facenti parte del “Consiglio generale”, abilitati a porli in essere secondo i regolamenti di procedura previsti dalla legge egiziana e con l’osservanza di un particolare regime autorizzatorio, non era configurabile, come esistente, lo stesso atto di celebrazione, non ha inteso fare riferimento alla mancanza di taluni requisiti formali o alla mera incompetenza del ministro celebrante, ma ha affermato molto di più, e cioé che l’evento del 1946 (nel quale la ricorrente ravvisa la celebrazione del suo matrimonio con il Secan) era inesistente, come atto di celebrazione, anche nell’ordinamento egiziano e che quel matrimonio, come tale, non poteva essere celebrato da qualsiasi ministro di qualsiasi culto e non solo dal pastore della Missione americana protestante del Cairo. E gli accertamenti di merito che sorreggono tale conclusione, approfonditi e congruamente motivati, non sono scalfiti delle censure (generiche, sul punto) della ricorrente. Né elementi di prova circa una esistente celebrazione (ed argomenti a sostegno della tesi della ricorrente) la Corte d’appello ha ritenuto di poter trarre dal certificato postumo rilasciato dal pastore ((omissis)) che, si assume, avrebbe celebrato il matrimonio; ed anche su questo punto la sentenza impugnata è pervenuta a corrette conclusioni.
La Corte d’appello ha, infatti, osservato che il documento citato, del quale esistono diverse versioni su moduli diversi non conformi l’una all’altra, non registra la celebrazione del matrimonio nel momento in cui esso sarebbe stato posto in essere, ma riproduce un avvenimento storicamente e logicamente precedente, sì che esso non può prescindere da un potere certificativo del dichiarante, che, nel caso concreto, non sussisteva; e rimane nell’area di una semplice attestazione o dichiarazione resa, a titolo privato, da colui che assumeva essere stato il pastore celebrante. Trattasi, inoltre, di un documento lacunoso come titolo (perché non registra la manifestazione del consenso alla presenza del pastore celebrante e dei testimoni; non identifica gli sposi in modo completo né fa riferimento alcuno alla collocazione del preteso atto in qualsivoglia registro o raccolta documentale) e incompleto nella sua funzione certificativa (ove si voglia ammettere che possa assumerla), perché manca della data del rilascio, della indicazione dell’autorità emittente e del riferimento ad un originale, accompagnato da quel minimo di requisiti che caratterizzano la collocazione seriale all’interno di un sistema di registrazione.
Di fronte all’accertata inesistenza della celebrazione del matrimonio, non giova alla ricorrente invocare l’art. 17 delle disp. prel. c.c., per sostenere che, mentre la forma dell’atto è regolata dalla legge del luogo in cui esso è stato compiuto, la disciplina degli effetti, è quella della legge italiana, poiché questa nessun effetto fa discendere dal matrimonio inesistente; o richiamare l’art. 31 disp. prel. c.c., per affermare che non possono farsi valere in Italia nullità matrimoniali stabilite da leggi straniere, ma non ammesse dalla legge italiana, perché nel caso in esame trattasi non di nullità, ma di inesistenza del matrimonio, cui, si ripete, neppure l’ordinamento italiano ricollega effetti di sorta. Analogo discorso va fatto con riferimento agli artt. 113 (equiparazione al matrimonio celebrato davanti all’ufficiale di stato civile di quello celebrato davanti a chi, non avendo tale qualità ne esercitava pubblicamente le funzioni, salvo che gli sposi fossero a conoscenza della mancanza della qualità suddetta), 132, 2° comma (ammissibilità della prova dell’esistenza di un matrimonio, il cui atto non sia stato inserito nei registri a ciò destinati per dolo o colpa del pubblico ufficiale o per forza maggiore, sempre che risulti un conforme possesso di stato), 137 (che contiene disposizioni penali a carico dell’ufficiale che abbia celebrato un matrimonio per cui non era competente, ma non commina la nullità dell’atto) e 131 c.c. (a norma del quale il possesso di stato, conforme all’atto di celebrazione del matrimonio, sana ogni difetto di forma). Trattasi, invero, di norme che postulano l’esistenza della celebrazione del matrimonio, e che non sono applicabili quando, come nel caso in esame, si deve ritenere che non solo manchi l’atto suddetto, ma che non vi sia stata, neppure nella realtà fenomenica, la celebrazione, connotata da un complesso di attività e dalla presenza degl’indispensabili requisiti minimi affinché il matrimonio possa ritenersi celebrato.
Quanto finora osservato vale a disattendere, in gran parte, le censure proposte con il quarto motivo.
Con esso la ricorrente denunzia la violazione dell’art.2907 c.c., in relazione all’art. 24, 1° comma, cost. e degli artt. 796 e ss.c.p.c., deducendo che l’apparente valutazione di merito del “marriage certificate”, contenuta nella sentenza impugnata, si riduce alla pura e semplice recezione delle valutazioni, procuratesi dal (omissis) presso le autorità egiziane, circa l’inidoneità del predetto certificato sia come atto che come prova dell’avvenuta celebrazione del matrimonio, senza che fosse affrontato il problema nei termini imposti dall’art. 131 in armonia con il principio dell’inesistenza di prescrizioni desumibili dalla legge italiana, per quanto attiene alla forma, al contenuto e alla stessa intitolazione del documento in cui trovi consacrazione scritta nei Paesi stranieri la celebrazione del matrimonio, ed in armonia con il principio del favor matrimonii. E, poiché le autorità locali erano state richieste dal Secan non di fornire informazioni sul diritto vigente nel 1946 in Egitto ma di pronunciarsi direttamente sulla inesistenza del suo matrimonio, la sentenza impugnata, secondo la ricorrente, non farebbe che immettere tali decisioni nell’ordinamento italiano, violando l’art. 24 cost. oltre che con i principi sulla estensione e i limiti della giurisdizione italiana (sostanzialmente declinata dalla Corte d’appello), e gli art.796 e ss. c.p.c., che escludono la rilevanza in Italia di decisioni giudiziarie estere al di fuori del riconoscimento attraverso il processo di deliberazione, e, a maggior ragione, la rilevanza di decisioni, che non sono nemmeno giudiziarie e che risultano comunque pronunciate da autorità prive di competenza internazionale.
Infatti, da quando si è osservato a confutazione del terzo motivo del ricorso risulta che la Corte d’appello, con riguardo sia al “certificato” del pastore (omissis), sia alla inesistenza del matrimonio che la ricorrente assume essere stato celebrato in Egitto nel; 1946, non ha recepito, trasfondendole come tali nel nostro ordinamento, decisioni (per giunta non giudiziarie, come afferma la ricorrente) emanate da organi stranieri, ma ne ha operato – e con ricchezza di proprie argomentazioni critiche- una autonoma valutazione, desumendo dalle informazioni attinte presso quegli organi (e fondandovi liberamente il convincimento che era chiamata ad esprimere sulla base dell’acquisto materiale probatorio), la mancanza nel pastore (omissis) di poteri certificativi e la inesistenza di un atto di celebrazione del matrimonio.
In altri termini, la Corte ha esercitato i suoi istituzionali poteri di apprezzamento della copiosa documentazione acquisita e, quindi, non ha violato le norme sul procedimento di deliberazione degli atti emanati all’estero né ha declinato la giurisdizione, poiché solo a conforto delle conclusioni raggiunte nell’esercizio dei suoi poteri di giudizio, ha osservato come esse coincidessero con l’affermazione delle autorità locali circa la inesistenza del matrimonio, che la ricorrente assume di avere celebrato con il Secan nel 1946 in Egitto.
La considerazione dell’autonoma valutazione compiuta dalla Corte d’appello supera anche il rilievo circa l’iniziativa spiegata dal Secan nel provocare l’emanazione degli atti da parte delle autorità locali, poiché anche questa circostanza ha formato oggetto di esame nella sentenza impugnata.
Né, infine, giova alla ricorrente invocare il principio del favor matrimonii (che, si dice, informa il nostro ordinamento), poiché tale principio si rivolge ai matrimoni che, sia pure viziati o invalidi, possono ritenersi tuttavia esistenti e solo per essi consente le ipotesi di sanatoria già esaminate.
Con il quinto ed ultimo motivo , la ricorrente denunzia la falsa applicazione degli artt. 2907 e 2908 c.c., in relazione all’art.24, 1° comma, cost. e degli artt. 91 e 92 c.p.c., in relazione al 2° comma dell’art. 24 cost. censurando la sentenza impugnata per aver posto a carico di essa ricorrente una parte rilevante delle spese processuali, totalmente errando nella valutazione della soccombenza in una causa in cui all’attrice andava riconosciuto il merito di avere ricondotto l’accertamento dello status delle parti all’autorità giudiziaria cui unicamente competeva, mentre il convenuto pretendeva di far prevalere le sue decisioni anagrafiche ed ostacolando in ogni modo la regolarizzazione degli status delle parti nei modi offertigli dallo stesso coniuge sia all’inizio che nel caso dei giudizi. La Corte del merito avrebbe, inoltre, omesso di considerare, nel regolare le spese processuali, che è d’obbligo riservare all’autorità giudiziaria le controversie di stato e che era stata accolta non la domanda principale dei convenuti, tendente all’accertamento della inesistenza materiale della celebrazione del matrimonio, ma la domanda subordinata di nullità, comune anche alla (omissis), come subordinata, sì che si era determinata una reciproca soccombenza.
Anche quest’ultimo motivo è infondato.
La controversia dalla Corte d’appello traeva origine da due domande giudiziali proposte dall’odierna ricorrente, l’una per far dichiarare la separazione personale dal (omissis) e l’altra per far dichiarare la nullità del matrimonio contratto dal (omissis) con la (omissis), sul presupposto contestato dai convenuti dell’esistenza di un suo precedente valido matrimonio con il (omissis).
Su tale punto, risolutivo ed esaustivo delle due controversie, la (omissis) è rimasta soccombente e la Corte d’appello, nell’esercizio e nei limiti del potere discrezionale attribuitole dalla legge dell’art. 92 c.p.c., ha compensato le spese per metà, condannando la (omissis) al pagamento della residua metà, conformemente a quanto aveva statuito anche il Tribunale. Gli argomenti addotti dalla ricorrente per negare una sua totale soccombenza nel giudizio d’appello sono privi di consistenza.
Che essa avesse ricondotto l’accertamento dello status delle parti all’autorità giudiziaria, non toglie che il giudizio si sia concluso a suo totale sfavore; e che il convenuto avesse tentato di “modificare surrettiziamente le registrazioni anagrafiche” è elemento che, se sussistente, rientrava nei poteri discrezionali del giudice valutare ai fini del regolamento delle spese, che non ammette alcun sindacato di merito da parte di questa Corte. Né, infine, è vero che si fosse determinata fra le parti una reciproca soccombenza in ordine alla validità, invalidità o inesistenza del matrimonio, perché la tesi dei convenuti, risultava pienamente fondata, era quella della inesistenza; e la tesi dell’attrice, del tutto disattesa, era quella del verificarsi degli effetti del possesso di stato in quanto ricondotti ad un matrimonio (sia pure invalido), di cui sussisteva il titolo sufficiente a far produrre quegli effetti.
In tale situazione, il giudice del merito poteva, nel suo prudente apprezzamento, compensare totalmente o parzialmente le spese del giudizio, con l’unico limite di non poterle porre totalmente a carico della parte vittoriosa. Trattasi di un apprezzamento, che, non implicando nel caso in esame il superamento di quel limite, è,secondo costante giurisprudenza, insindacabile in sede di legittimità.
Pertanto, il ricorso dev’essere rigettato e si ravvisano giusti motivi per compensare fra le parti le spese del giudizio di cassazione.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e compensa fra le parti le spese del giudizio di cassazione.
Così deciso in Roma il 10 maggio 1989.
DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 22 FEBBRAIO 1990
