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Cassazione civile sez. I, 21/02/2025, n. 4596

Massima

L’inserimento di un credito nell’elenco dei creditori in un concordato preventivo non equivale a riconoscimento del debito; il mancato pagamento di crediti contestati non costituisce inadempimento, a meno che non sia stato ordinato il deposito delle somme, la cui omissione può giustificare la risoluzione del concordato.

Supporto alla lettura

CRISI D’IMPRESA

Lo stato di crisi di un’impresa viene definito in relazione allo stato di insolvenza come una situazione connotata da minore gravità e riguarda tutte quelle situazioni degenerative economico-finanziarie dell’impresa potenzialmente idonee a sfociare nell’insolvenza medesima. In ottica aziendalistica, la crisi si identifica come il venir meno delle condizioni di equilibrio economico e finanziario dell’impresa capaci di compromettere la prospettiva di continuità aziendale.

La nozione di crisi d’impresa sotto il profilo giuridico costituisce il presupposto per l’attivazione degli strumenti di composizione negoziale volti a scongiurare il fallimento.

L’evoluzione normativa intervenuta negli ultimi anni ha cambiato gradualmente l’approccio verso il concetto di crisi d’impresa. Con le ultime riforme, infatti, sono stati introdotti nel nostro ordinamento strumenti prevalentemente negoziali per consentire all’imprenditore di disporre di un buon numero di alternative per affrontare una situazione economica sfavorevole e tutelare maggiormente i creditori sociali.

Ambito oggettivo di applicazione

FATTI DI CAUSA

1. Il Tribunale di Nocera Inferiore, con sentenza del 30 luglio 2021, dichiarava la risoluzione del concordato preventivo presentata dalla società (omissis) s.r.l., omologato in data 12 dicembre 2014, su istanza di (omissis) s.p.a.

2. La Corte d’appello di Salerno, con sentenza pubblicata in data 25 gennaio 2022, rigettava il reclamo presentato da (omissis). Constatava, in particolare, che la società debitrice, malgrado fossero oramai decorsi due anni dal termine ultimo fissato (al 31 dicembre 2019), non aveva provveduto al pagamento dei crediti chirografari vantati dall’intero ceto bancario, crediti che dovevano essere soddisfatti nella misura falcidiata del 20,98% per un complessivo importo di € 439.701,07, pur non avendo mai formulato alcuna riserva di contestazione né programmato la proposizione di giudizi aventi ad oggetto la loro contestazione.

Riteneva che tale omissione di pagamento, unitamente alla manifestata volontà della debitrice di non eseguire lo stesso nella misura e con le modalità temporali promesse e trasfuse nell’accordo con i creditori, ribadita anche in sede di reclamo sulla base del convincimento di non dovervi provvedere fino all’esito dei giudizi promossi nei confronti delle banche, configurasse indubitabilmente un grave inadempimento del concordato.

Osservava che i crediti del ceto bancario dovevano ritenersi riconosciuti, essendo stati inseriti dalla debitrice negli elenchi di cui all’art. 161 l. fall., e non erano mai stati contestati fino all’adunanza dei creditori, successivamente alla quale era preclouso al debitore proponente contestare l’ammontare delle poste che egli stesso aveva indicato nell’elenco allegato alla domanda di concordato ed in ordine alle quali non aveva poi dedotto circostanze sopravvenute. Evidenziava che il mancato versamento degli importi dei crediti contestati secondo le disposizioni impartite dal giudice delegato era stata valorizzata al fine di porre in evidenza un ulteriore indice della gravità dell’inadempimento, sul rilievo che detta omissione costituiva espressione dell’incapacità finanziaria della società di far fronte all’esborso, incapacità comprovata del resto dalla ridotta disponibilità liquida della società, attestata dai commissari in € 55.724,82.

Ravvisava, infine, un interesse ad agire (omissis) al fine di sollecitare la risoluzione del concordato già omologato, dato che la banca, in qualità di creditore, aveva lamentato l’inadempimento dell’imprenditore concordatario agli obblighi di pagamento assunti nei suoi confronti all’interno del concordato.

3. (omissis) s.r.l. ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza di rigetto del reclamo prospettando sei motivi di doglianza, ai quali ha resistito con controricorso (omissis) s.p.a. Entrambe le parti hanno depositato memoria ai sensi dell’art. 380-bis.1 cod. proc. civ.

RAGIONI DELLA DECISIONE

4. Il primo motivo lamenta, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 4, cod. proc. civ., la violazione e falsa applicazione degli artt. 2697 cod. civ., 115 e 116 cod. proc. civ., perché i giudici del reclamo non hanno verificato che nel ricorso per l’ammissione al concordato preventivo il credito di (omissis) era stato espressamente disconosciuto, in quanto era frutto di un’illegittima applicazione di interessi anatocistici e ultra legali, commissioni di massimo scoperto, spese e valute non pattuite.

5. Il motivo è inammissibile.

Secondo la giurisprudenza di questa Corte per dedurre la violazione dell’art. 115 cod. proc. civ. occorre denunciare che il giudice, in contraddizione espressa o implicita con la prescrizione della norma, abbia posto a fondamento della decisione prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiasi riconosciutigli (salvo il dovere di considerare i fatti non contestati e la possibilità di ricorrere al notorio), mentre è inammissibile la diversa doglianza con cui si lamenti che questi, nel valutare le prove proposte dalle parti, abbia attribuito maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, essendo tale attività valutativa consentita dall’art. 116 cod. proc. civ. (Cass., Sez. U., 20867 /2020).

La doglianza concernente la violazione dell’art. 116 cod. proc. civ. è ammissibile, invece, solo ove si alleghi che il giudice, nel valutare una prova o, comunque, una risultanza probatoria, non abbia operato – in assenza di diversa indicazione normativa – secondo il suo “prudente apprezzamento”, pretendendo di attribuirle un altro e diverso valore oppure il valore che il legislatore attribuisce a una differente risultanza probatoria (come, ad esempio, valore di prova legale), oppure, qualora la prova sia soggetta a una specifica regola di valutazione, abbia dichiarato di valutare la stessa secondo il suo prudente apprezzamento, mentre, ove si deduca che il giudice ha solamente ma le esercitato il proprio prudente apprezzamento della prova, la censura è ammissibile, ai sensi del novellato art. 360, comma 1, n. 5, cod. proc. civ., solo nei rigorosi limiti in cui esso ancora consente il sindacato di legittimità su i vizi di motivazione (Cass., Sez. U., 20867/2020).

Non è dunque possibile, come prospetta il motivo in esame, proporre una censura per violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ. denunciando un’erronea valutazione del materiale istruttorio compiuta dal giudice di merito.

6.1 Il secondo motivo di ricorso denuncia, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ., la violazione e falsa applicazione dell’art. 186 l. fall.: il mancato pagamento del ceto bancario non poteva ritenersi sintomatico di un’incapacità finanziaria ed economica della debitrice di ottemperare al piano, in quanto l’omissione era giustificata dal fatto che la compagine in concordato aveva intrapreso azioni giudiziarie volte all’accertamento della sua effettiva ed eventuale esposizione nei confronti degli istituti di credito; la proposizione del concordato preventivo e la sua omologazione, infatti, non precludevano alla società debitrice la proposizione di azioni nei confronti dei soggetti inclusi nell’elenco dei creditori, volte all’effettivo accertamento del debito iscritto in bilancio e riportato, per dovere di corretta informazione, nel piano e nella proposta concordataria.

La Corte distrettuale, perciò, avrebbe dovuto registrare che la risoluzione del concordato è istituto deputato a sanzionare un inadempimento dell’imprenditore in procedura rispetto al programma concordatario approvato dai creditori e che la stessa non si verifica, in relazione al mancato pagamento di crediti contestati, sino al momento della definitività del titolo che riconosce tale diritto.

6.2 Il terzo motivo di ricorso prospetta, ex art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ., la violazione e falsa applicazione dell’art. 186 l. fall., in quanto la società debitrice non avrebbe potuto esimersi dall’indicare nel proprio passivo il credito vantato dalle banche, seppur disconosciuto per le ragioni espresse nel piano concordatario.

6.3 Il quarto motivo si duole, a mente dell’art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ., della violazione degli artt. 186 e 180 l. fall., in quanto la Corte distrettuale ha erroneamente ritenuto di dover dichiarare la risoluzione del concordato preventivo reputando indici rilevatori di un grave inadempimento il mancato deposito delle somme dovute ai creditori chirografari per cui pendevano contestazioni giudiziarie, l’impossibilità di definire tali giudizi in tempi brevi e la mancanza di risorse finanziarie appostate sui conti correnti; in realtà, il creditore che non era stato pagato dal debitore in concordato preventivo perché il suo credito era giudizialmente contestato, con giudizio ancora in corso, e non poteva chiedere la risoluzione del concordato, dato che non era configurabile alcun inadempimento sino al passaggio in giudicato del provvedimento che definiva la controversia, ma, al più, poteva sollecitare il deposito delle somme in contestazione ai sensi del combinato disposto degli artt. 185, comma 2, e 136, comma 2, l. fall.

Allo stesso modo non era possibile constatare l’impossibilità di procedere alla realizzazione del piano in ragione della pendenza dell’accertamento del credito a vanti all’autorità giudiziaria, tenuto conto che i commissari giudiziali mai avevano riferito di un’incapacità dell’impresa di far fronte ai propri obblighi concordatari durante tutta la durata del piano.

7. I motivi, da esaminarsi congiuntamente in ragione del vincolo di connessione che li unisce, non meritano accoglimento.

7.1 La consolidata giurisprudenza di questa Corte in materia di concordato preventivo ritiene che la sussistenza di crediti oggetto di contestazione giudiziale non precluda il loro doveroso inserimento in una delle classi omogenee previste dalla proposta, ovvero in apposita classe ad essi riservata, assolvendo tale adempimento, ricadente sul debitore ed oggetto di controllo critico sulla regolarità della procedura svolto direttamente dal tribunale, a una fondamentale esigenza di informazione dell’intero ceto creditorio: da un lato, infatti, tale omissione pregiudicherebbe gli interessi di coloro che al momento non dispongono ancora dell’accertamento definitivo dei propri diritti (ma che possono essere ammessi al voto, ex art. 176 l. fall., con previsione di specifico trattamento per l’ipotesi che le pretese sia no confermate o modificate in sede giurisdizionale), dall’ ìaltro, essa altererebbe le previsioni del piano di soddisfacimento degli altri creditori certi, non consentendo loro di esprimere valutazioni prognostiche corrette e atteggiarsi in modo piena mente informato
circa il proprio voto (si veda no in questo senso Cass. 13284/2012, Cass. 5689/2017, Cass. 2424/2020, Cass. 21431/2024).

Dunque, l’inserimento degli istituti di credito nell’elenco dei creditori previsto dall’art. 161, comma 2, lett. b), l. fall. non assumeva alcun valore ricognitivo del loro credito né sminuiva o vanificava le contestazioni al contempo espresse, ma consentiva al creditore contestato di poter essere ammesso al voto e assolveva l’obbligo informativo a cui il debitore era tenuto nei confronti dell’intero ceto creditorio.

Il provvedimento impugnato deve essere corretto, ai sensi dell’art. 384, comma 4, cod. proc. civ., laddove ha attribuito all’inclusione nell’elenco dei creditori, di per sè, un valore ricognitivo dell’esistenza del credito.

7.2 Questa Corte (cfr. 208/2019) ha già avuto occasione di chiarire che nell’ambito della procedura concordataria, a differenza di quanto avviene in altre procedure concorsuali, la verifica dei crediti non è funzionale alla selezione delle posizioni concorrenti ai fini della partecipazione al riparto dell’attivo, ma, ben diversamente, è funziona le alla mera individuazione dei crediti aventi diritto al voto e di cui tenere in conto ai fini del calcolo delle maggioranze, come rende palese il disposto dell’art. 176 l. fall.

La norma, laddove prevede che il giudice delegato possa “ammettere provvisoriamente in tutto o in parte i crediti contestati a i soli fini del voto e del calcolo delle maggioranze”, intende rappresentare non solo che le determinazioni assunte al riguardo possono essere superate da una diversa determinazione del tribunale in fase di omologa, ma soprattutto che le stesse hanno la limitata efficacia prevista e non sono idonee a compromettere in alcun modo l’accertamento in merito all’esistenza, all’entità e alla natura del credito, nel senso espressamente stabilito dall’ultimo periodo del suo primo comma. Né è possibile ritenere che il decreto di omologa rientri nel novero delle “pronunzie definitive sulla sussistenza dei crediti” a cui l’art. 176, comma 1, l. fall. fa riferimento, poiché un simile provvedimento non svolge alcuna funzione di accertamento del credito – se non, come detto, ai fini del calcolo delle maggioranze e della fattibilità del piano -, come dimostra il fatto che il tribunale può al più, ai sensi dell’art. 180, comma 6, l. fall., stabilire le modalità di deposito delle somme spettanti ai creditori contestati, fissando le condizioni e le modalità di svincolo.

Pertanto, il creditore, a prescindere dalla sua ammissione al voto, in presenza di contestazioni del suo credito vede subordinata la propria soddisfazione all’accertamento delle sue ragion i creditorie all’esito di un ordinario giudizio di cognizione.

7.3 Ne discende, posto che le domande del debitore volte a far accertare se i creditori concordatari abbiano il diritto di esigere i loro crediti in sede di esecuzione del concordato, nel caso in cui questi sia no oggetto di contestazione giudiziale, non rientrano nella competenza funziona le del tribuna le che ha omologato il con cordato, bensì in quella dell’ufficio giudiziario individuato in base agli ordinari criteri di competenza per valore e territorio (Cass. 31659/2021), che la Corte di merito, una volta constatata la pendenza dei giudizi di accertamento dell’esistenza dei crediti del ceto bancario, non poteva valorizzare il mancato pagamento degli stessi nei termini di piano al fine di acclarare il ricorrere di un inadempimento del concordato di non scarsa importanza.

Anche sotto questo profilo la sentenza impugnata deve essere corretta ai sensi dell’art. 384, comma 4, cod. proc. civ.

7.4 Il tribunale, al momento dell’omologa ex art. 180, comma 1, l. fall., o il giudice delegato, nel corso dell’esecuzione del concordato ai sensi degli artt. 185, comma 2, e 136, comma 2, l. fall., possono disporre, onde raccordare le esigenze della procedura concordataria e l’accertamento giudiziale del credito che si svolge al di fuori di essa, il deposito delle somme spettanti a i creditori contestati.

Il mancato adempimento di una simile disposizione può essere valutato al fine di verificare l’esistenza di un grave inadempimento che giustifichi la risoluzione del concordato.

Infatti, la contestazione di un credito e la pendenza del relativo giudizio di cognizione legittimano il mancato pagamento al creditore incluso nell’elenco di cui all’art. 161, comma 2, lett. b), l. fall. ma non esimono dal deposito delle somme contestate, a cui il debitore è tenuto in presenza di un ordine in tal senso del tribunale o del giudice delegato (adottato al fine di cautelare i creditori contestati in ordine alle prospettive del loro adempimento durante il tempo necessario per far accertare l’ammontare e la natura del proprio diritto, assicurare un’effettiva e tempestiva soddisfazione una volta risolte le contestazioni ed evita re i I ricorso a condotte abusive).

Ne discende che se la prima condotta è del tutto legittima e non rileva al fine di verificare l’esistenza di un inadempimento di non scarsa importanza del debitore ex art. 186 l. fall., la seconda, invece, assume un autonomo rilievo e giustifica, di per sé, la risoluzione del concordato ove ritenuta dal giudice di merito di non scarsa importanza.

Non si presta, quindi, a censure la valutazione (di merito, non sindacabile in questa sede di legittimità) della Corte distrettuale secondo cui il mancato versamento degli importi dei crediti contestati secondo le disposizioni impartite dal giudice delegato “costituiva espressione dell’incapacità finanziaria della società di far fronte all’esborso” e un “indice della gravità dell’inadempimento” (v. pag. 10 della decisione impugnata).

In conclusione, il quarto motivo non è fondato, perché il mancato deposito delle somme contestate giustifica la risoluzione del concordato, ove la condotta assuma non scarsa importanza, mentre gli ulteriori mezzi conducono alla sola correzione in diritto delle erronee affermazioni presenti all’interno del provvedimento impugnato, ma risultano privi di decisività nell’economia della lite, alla luce dell’ulteriore profilo di inadempimento constatato, correttamente, dalla Corte di merito.

8.1 Il quinto motivo denuncia, ex art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ., la violazione e falsa applicazione degli artt. 186 l. fall. e 100 cod. proc. civ., in quanto la Corte distrettuale ha ritenuto che il mero fatto di risultare creditore di una procedura concordataria legittimi il titolare del credito a richiedere la risoluzione ai sensi dell’art. 186 l. fall., senza che questi debba procedere ad alcun a dimostrazione del vantaggio che si ricaverebbe in ordine alla soddisfazione dei creditori indicati nella proposta in termini di migliore e/o più celere soddisfazione.

8.2 Il sesto motivo di ricorso lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 186 l. fall.: la Corte d’appello ha ritenuto che ogni creditore insoddisfatto possa richiedere la risoluzione del concordato preventivo senza dover dimostrare l’esistenza di un pregiudizio e, soprattutto, la maggiore convenienza derivante dal venir meno della procedura concorsuale; al contrario l’istante avrebbe dovuto affermare e provare nella propria domanda di risoluzione per inadempimento del concordato preventivo, indipendentemente dalla rilevanza del credito vantato, l’esistenza di un proprio pregiudizio.

La mera qualità di creditore contestato ed insoddisfatto non era sufficiente per la valida proposizione dell’istanza prevista dall’art. 186 l. fall. per la risoluzione di un concordato preventivo.

9. I motivi, da esaminarsi congiuntamente in ragione della loro sostanziale sovrapponibilità, non risultano fondati.

Le Sezioni Unite di questa Corte hanno avuto occasione, di recente, di precisare che l’accertamento dell’interesse ad agire, inteso quale esigenza di provocare l’intervento degli organi giurisdizionali per conseguire la tutela di un diritto o di una situazione giuridica, deve compiersi con riguardo all’utilità del provvedimento giudiziale richiesto rispetto alla lesione denunziata, prescindendo da ogni indagine sul merito della controversia e dal suo prevedibile esito (Cass., Sez. U., 34388/2022).

Ora, ove si consideri che “l’omologazione non comporta di per sé novazione dell’obbligazione anteriore, quanto soltanto il diverso e più circoscritto effetto della parziale inesigibilità del credito” (v. Cass. 15029/2024, § 2.1), non si presta a censure la decisione impugnata, laddove ha ritenuto sufficiente, ai fini dell’individuazione di un interesse ad agire, la rappresentazione di un inadempimento dell’im prenditore concordatario in funzione dell’accertamento della responsabilità di quest’ultimo nel non dare esecuzione all’accordo e della conseguente risoluzione del concordato omologato, giacché la risoluzione del concordato ha come suo effetto naturale il fatto che la parziale inesigibilità del credito determinata dall’omologa perda la sua fonte giustificativa e non vincoli oltre i creditori concorsuali e costituisce l’utilità automaticamente derivante dal provvedimento giudiziale richiesto in conseguenza della lesione denunziata.

10. Per tutto quanto sopra esposto, il ricorso deve essere rigettato.

Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al rimborso delle spese del giudizio di cassazione, che liquida in € 7.200, di cui € 200 per esborsi, oltre accessori come per legge e contributo spese generali nella misura del 15%.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versa mento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, ove dovuto.

Così deciso in Roma in data 28 gennaio 2025.

Allegati

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