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Cassazione civile sez. I, 20/06/2023, n. 17578

Massima

L’obbligo di mantenimento dei figli minori, anche in caso di allontanamento dalla casa familiare e collocamento in comunità, permane in capo ai genitori, i quali sono tenuti a rimborsare al Comune le spese sostenute per le prestazioni socio-assistenziali erogate ai minori. Il giudizio di legittimità si limita al controllo della correttezza giuridica della decisione impugnata e non può estendersi ad una rivalutazione del merito della causa.

Supporto alla lettura

MANTENIMENTO FIGLI

Entrambi i genitori, anche se non sono uniti in matrimonio, hanno l’obbligo di mantenere, istruire ed educare i figli in proporzione alle loro sostanze.
L’obbligo di mantenimento sussiste anche nei confronti del figlio maggiorenne se ancora non è autosufficiente economicamente.

Ambito oggettivo di applicazione

FATTI DI CAUSA
1. Con atto ritualmente notificato il 14 giugno 2017, il Comune di (omissis) citò in giudizio, innanzi al Tribunale di Como, (omissis) ed (omissis), per ivi sentire accogliere le seguenti conclusioni: “1. Nel merito, in via principale: accertato e dichiarato il diritto del Comune di (omissis) ai sensi del R.D. 1404 del 1934, artt. 25-26, e/o di altra norma ritenuta applicabile al caso di specie, di rivalersi sui convenuti per le spese sostenute per il collocamento di (omissis) e (omissis) nelle comunità, per il concorso al mantenimento di (omissis), e per le spese afferenti agli incontri protetti tra i minori ed i genitori, condannare gli stessi a corrispondere al Comune di (omissis) la somma complessiva di Euro 124.727,63, oltre interessi e rivalutazione monetaria se e come dovuta per legge, od altra somma, minore o maggiore, ritenuta di giustizia emersa in corso di causa. 2. Nel merito, in via subordinata: accertato e dichiarato il diritto del Comune di (omissis), ai sensi dell’art. 2041 c.c., e/o di altra norma ritenuta applicabile al caso di specie, di rivalersi sui convenuti per le spese sostenute per il collocamento di (omissis) e (omissis) nelle comunità, per il concorso al mantenimento di (omissis), e per le spese afferenti agli incontri protetti tra i minori ed i genitori, condannare gli stessi a corrispondere al Comune di (omissis) la somma complessiva di Euro 124.727,63, oltre interessi e rivalutazione monetaria se e come dovuta per legge, od altra somma, minore o maggiore, ritenuta di giustizia emersa in corso di causa”. Tanto sul presupposto che, nel dicembre del 2013, il Tribunale dei Minorenni di Milano, provvedendo ex artt. 330, 333 c.c. e segg., e art. 741 c.p.c., aveva allontanato i menzionati tre figli minorenni dai genitori convenuti e li aveva affidati all’ente attore affinché venissero collocati due in comunità ((omissis), allora tredicenne, e (omissis), all’epoca undicenne) ed il più piccolo ((omissis), allora avente tre anni) in affido etero-familiare.

1.1. Si costituirono la (omissis) e lo (omissis), contestando le pretese avverse e concludendo per il loro rigetto perché infondate. In via meramente subordinata, chiesero accertarsi l’eventuale minor somma da essi dovuta al Comune di (omissis) in ragione delle somme percepite a titolo di assegni familiari dalla data del provvedimento di allontanamento dei figli dalla casa familiare o, comunque, nella misura meglio ritenuta di giustizia in base alle risultanze di causa, da determinarsi in corso di giudizio.

1.2. Il Comune predetto, nel proprio foglio di precisazione delle conclusioni depositato telematicamente l’1 luglio 2019, rinunciò alla domanda di condanna formulata in citazione e così concluse: “Nel merito: accertare e dichiarare il diritto del Comune di (omissis), ai sensi del R.D. n. 1404 del 1934, artt. 25-26, e/o di altra norma ritenuta applicabile al caso di specie quale l’art. 2041 c.c., di ottenere il rimborso 1) delle spese sostenute per il collocamento di (omissis) e (omissis) in comunità negli anni 2014-2015-2016, 2) delle somme versate alla famiglia affidataria di (omissis) a titolo di concorso al suo mantenimento negli anni 2014-2015-2016 e 3) degli importi corrisposti ad (omissis) afferenti gli incontri protetti tra i minori ed i genitori negli anni 2014-2015-2016 e, pertanto, accertare e dichiarare l’obbligo in capo ai sigg.ri (omissis) e (omissis), in qualità di genitori dei minori affidati al Comune di (omissis), anche in via disgiunta, di pagare all’Ente quanto da questo sostenuto 1) per il collocamento di (omissis) e (omissis) in comunità negli anni 2014-2015-2016, 2) delle somme versate alla famiglia affidataria di (omissis) a titolo di concorso al suo mantenimento negli anni 20142015-2016 e 3) degli importi corrisposti ad (omissis) afferenti gli incontri protetti tra i minori ed i genitori negli anni 2014-2015-2016″.

1.3. All’udienza di discussione ex art. 281-sexies c.p.c., del 4 luglio 2019, eccepita dal difensore dei convenuti l’inammissibilità della lamentata mutatio libelli effettuata dall’attore in sede di precisazione delle conclusioni (rinuncia ad una domanda di condanna e ad una domanda di tipo dichiarativo e di condanna, con proposizione di una domanda di accertamento), l’adito tribunale, con sentenza, pubblicata in pari data, n. 878/2019, così decise: “Accerta il diritto del Comune di (omissis), ai sensi del R.D. n. 1404 del 1934, artt. 25 e 26, ad ottenere il rimborso, nella misura determinata dai regolamenti comunali e dalle specifiche delibere: 1) delle spese sostenute per il collocamento di (omissis) e (omissis) in comunità negli anni 2014-2015-2016, 2) delle somme versate alla famiglia affidataria di (omissis) a titolo di concorso al suo mantenimento negli anni 2014-2015-2016 e 3) degli importi corrisposti ad (omissis) afferenti gli incontri protetti tra i minori ed i genitori negli anni 2014-2015-2016. Accerta, altresì, l’obbligo in capo ai sigg.ri (omissis) e (omissis), in solido fra loro, di corrispondere al Comune di (omissis) quanto da quest’ultimo sostenuto e comunque nella misura determinata dai regolamenti comunali e dalle specifiche delibere per 1) il collocamento di (omissis) e (omissis) in comunità negli anni 2014-2015-2016, 2) delle somme versate alla famiglia affidataria di L. a titolo di concorso al suo mantenimento negli anni 2014-2015-2016; degli importi corrisposti ad (omissis) afferenti gli incontri protetti tra i minori ed i genitori negli anni 2014-2015-2016. (…)”.

2. Il gravame proposto dalla (omissis) e dallo (omissis) contro questa decisione fu respinto dalla Corte di appello di Milano, con sentenza del 12 gennaio 2022, n. 81, resa nel contraddittorio con il Comune suddetto.

2.1. Quella corte, dopo aver riprodotto le deduzioni contenute nella comparsa conclusionale degli appellanti e le repliche ad esse contrapposte dall’ente appellato, ritenne “di condividere le ragioni esposte da parte appellata aggiungendo che, però, con riferimento a (omissis), che si trova in affidamento familiare, (omissis) e (omissis) non avevano legittimazione passiva in primo grado a partire dalla data in cui il minore era stato inserito nella famiglia affidataria, nondimeno non hanno formulato tale eccezione nel primo grado. Nel secondo grado la loro difesa sul punto è ora inammissibile”. Affermò, poi, che, “In definitiva, come già nell’ordinanza di rigetto della sospensiva, questa Corte ritiene che sia corretta l’interpretazione fornita dal Tribunale di Como per cui “l’obbligo di mantenimento dei minori da parte dei genitori trova fondamento nell’art. 30 Cost., nonché negli artt. 147, 148, 155 c.c.. E’ ugualmente pacifico che l’obbligo di mantenimento dei genitori – tanto naturali quanto adottivi – verso i figli, di contenuto più ampio e comprensivo di quello alimentare, si sostanzia tanto nell’assistenza economica quanto nell’assistenza morale di costoro (Cass. 6197/2005; 3974/2002) e non cessa per il raggiungimento della maggiore età da parte di essi, ovvero per altra causa, ma perdura – anche indipendentemente dalla loro età – fino a quando i figli non vengono avviati ad una professione, ad un’arte o ad un mestiere confacente alla loro inclinazione e preparazione. Pertanto, come hanno rilevato la più qualificata dottrina e la giurisprudenza della Suprema Corte anche più lontana nel tempo (Cass. 38/1976), l’obbligo del mantenimento posto dalla menzionata normativa prescinde dalla potestà dei genitori e sopravvive ad essa in varie ipotesi come quella del figlio che abbia raggiunto la maggiore età o come quelle di impedimento o di decadenza del genitore naturale o adottivo della potestà genitoriale. Il che trova conferma nella L. n. 184 del 1983, laddove l’art. 5 apporta una deroga all’obbligo del mantenimento da parte dei genitori nel solo caso di affidamento familiare, ponendolo a carico dell’affidatario anche qualora (art. 50) cessi la potestà dell’adottante o degli adottanti in quanto l’obbligo di provvedere al mantenimento del minore è collegato al perdurare dello stato di genitori adottivi e non alla permanenza del minore presso il loro nucleo familiare. Questi principi cardini non possono ritenersi modificati per il fatto che il provvedimento emesso dal Tribunale di Milano abbia affidato i minori al Comune tenuto per legge agli interventi in favore dei minori ed ai relativi oneri, avendo con esso l’Autorità Giudiziaria inteso disporre esclusivamente l’anticipazione dei costi a carico del Comune quale prevista dal R.D.L. n. 1404 del 1934, artt. 25 e 26, conv. nella L. n. 835 del 1935, e succ. modif., dove sono applicate le misure applicabili ai minori irregolari per condotta e carattere. Fra di esse rientra l’affidamento del minore al servizio sociale minorile…””. Osservò pure che “La Suprema Corte, con sentenza n. 22678/2011, afferma testualmente che “per entrambe le fattispecie l’art. 25, u.c., stabilisce che: le spese di affidamento o di ricovero, da anticiparsi dall’Erario, sono a carico dei genitori, restando così definitivamente confermato che il provvedimento del Tribunale non avrebbe potuto comunque modificare, né ha inteso modificare, come del resto appare ovvio, i profili patrimoniali del rapporto di filiazione” smentendo la tesi sostenuta da parte convenuta (in primo grado i genitori dei tre minori ossia (omissis) e (omissis)) secondo cui l’art. 25 non è applicabile nel caso di affido al Comune da parte di un provvedimento giudiziario. Il Giudice di prime cure ha constatato, quindi, il permanere in capo agli odierni appellanti dell’obbligo di mantenimento dei tre figli, allontanati nel mese di dicembre del 2013 dal Tribunale dei Minorenni di Milano ed affidati al Comune di (Omissis) affinché venissero collocati due in comunità ((omissis), di allora anni (omissis), e (omissis) (omissis)) ed il più piccolo ((omissis) (omissis)) in affido etero-familiare. In accoglimento della domanda del Comune, ha statuito che, ai sensi del R.D. n. 404 del 1934, artt. 25 e 26, le spese di affidamento, da anticiparsi dall’Erario, sono a carico dei genitori e, perciò, il predetto ente ha diritto di chiedere ai genitori il rimborso degli oneri sostenuti e sussiste l’obbligo in solido dei medesimi al pagamento di tali esborsi nei limiti e secondo i criteri individuati nelle deliberazioni e nei regolamenti comunali. Dopo vari solleciti da parte del Comune, i genitori avevano riconosciuto il debito ed avevano iniziato ad effettuare i pagamenti, poi hanno cessato e, dunque, il Comune ha instaurato il contenzioso dinanzi al Tribunale di Como”.

3. Per la cassazione dell’appena descritta sentenza hanno proposto ricorso (omissis) ed (omissis), affidandosi a nove motivi. Ha resistito, con controricorso, il Comune di (omissis). Entrambe le parti hanno depositato memoria ex art. 380-bis.1 c.p.c..

RAGIONI DELLA DECISIONE
1. I primi due motivi di ricorso, denunciano, rispettivamente:I) “Vizio di omessa e/o mancata pronuncia su uno o più motivi di gravame – Error in procedendo ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 – Nullità della sentenza n. 81/2022 della Corte d’Appello di Milano e del procedimento ex art. 112 c.p.c. per omessa pronuncia sul primo motivo di appello proposto dai sigg.ri (omissis) – (omissis)”. Si assume, in sintesi, che questi ultimi, “(…), nel 1 motivo dell’atto di appello e nelle relative conclusioni, avevano richiesto alla Corte d’Appello di Milano la riforma integrale dell’impugnata sentenza n. 878/2019, emessa dal Tribunale di Como (…), chiedendo di accertare e dichiarare la nullità e/o l’annullabilità della sentenza impugnata in ragione dell’inammissibile e tardiva modifica delle domande – per emendatio libelli e/o mutatio libelli – effettuata dal Comune di (omissis) soltanto in sede di precisazione delle conclusioni, in violazione del termine e del disposto di cui all’art. 183 c.p.c., commi 5 e 6; nonché per vizio di extrapetizione e violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato ex art. 112 c.p.c., della sentenza di 1 grado impugnata. (…). Tuttavia, la Corte d’appello di Milano (…), ha totalmente ignorato tali domande di parte appellante, disinteressandosene completamente sia nella motivazione sia nel dispositivo, omettendo palesemente di pronunciarsi, anche solo indirettamente, sul petitum delle domande avanzate nel grado di giudizio, integrando così un error in procedendo ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, che si traduce, altresì, in una violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato ex art. 112 c.p.c., con conseguente nullità della sentenza n. 81/2022 emessa dalla Corte d’Appello di Milano. Si precisa, anche in ossequio al principio statuito dalla Suprema Corte adita nella sentenza della Sez. III Civile n. 41205 del 22.12.2021, che il motivo e le conclusioni sopra riportate sono stati mantenuti e ribaditi nel giudizio di appello dai sigg.ri C. e S. anche in sede di precisazione delle conclusioni ed ampiamente esposti anche in comparsa conclusionale”;

II) “Vizio di “motivazione apparente” e/o di “motivazione perplessa od incomprensibile” della sentenza n. 81/2022 della Corte d’Appello di Milano, censurabile in sede di legittimità ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 – violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, e dell’art. 111 Cost., comma 6 – mancato ed insufficiente esame dei punti decisivi della controversia prospettati dai ricorrenti e/o rilevabili d’ufficio”. Viene rilevata e contestata “l’anomalia motivazionale della sentenza emessa dalla Corte d’Appello di Milano, oggetto di impugnativa, caratterizzata dal fatto che, nei “motivi della decisione” da pag. 4 a pag. 30 della sentenza n. 81/2022, la Corte abbia operato un mero “copia ed incolla”, il tutto anche virgolettato, dapprima del dispositivo della sentenza di primo grado (…), poi dell’intera comparsa conclusionale di parte appellante “parola per parola”, compresi errori di battitura (…), nonché dell’intera comparsa conclusionale di parte appellata “parola per parola”, compresi errori di battitura (…) ed infine della motivazione della sentenza di primo grado (…) e dell’ordinanza di rigetto della sospensiva in grado di appello (…)”. Si sostiene che, “In sintesi, la motivazione “originale” della Corte d’Appello si limiterebbe a 5 righe di pag. 29 del seguente esatto tenore: “Ritiene questa Corte di condividere le ragioni esposte da parte appellata aggiungendo che, però, con riferimento a (omissis), che si trova in affidamento familiare, (omissis) e (omissis) non avevano legittimazione passiva in primo grado a partire dalla data in cui il minore era stato inserito nella famiglia affidataria, nondimeno non hanno formulato tale eccezione nel primo grado. Nel secondo grado la loro difesa sul punto è ora inammissibile.” e di 1 riga di pag. 31 del seguente tenore: “Pertanto, l’appello è infondato e viene respinto, la sentenza di primo grado è confermata.” (…). Da ciò ne consegue che la motivazione con la quale la Corte d’appello ha confermato integralmente la sentenza di primo grado risulta meramente “apparente”, nonché “perplessa ed incomprensibile” in quanto le ragioni della motivazione non possono ritenersi “univoche ed esaustive”, non avendo la Corte esaminato e statuito sui punti decisivi della controversia prospettati dagli odierni ricorrenti nel 1 motivo di appello e nelle conclusioni relativamente all’inammissibile e tardiva modifica delle domande – per emendatio libelli e/o mutatio libelli – effettuata dal Comune di (omissis) soltanto in sede di precisazione delle conclusioni, nonché dell’eccepito vizio di extrapetizione e violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato ex art. 112 c.p.c. della sentenza di 1 grado impugnata”.

1.1. Queste doglianze, scrutinabili congiuntamente perché chiaramente connesse, sono prive di fondamento.

1.2. In primo luogo, infatti, non sono configurabili, nella specie, – pur tenendosi doverosamente conto del diverso tenore letterale delle richieste del Comune controricorrente come originariamente formulate in citazione e, poi, in sede di precisazione delle conclusioni in primo grado, – una emendatio o una mutatio libelli. Si è al cospetto, invero, di una semplice restrizione del petitum originario, nel senso che l’inziale richiesta di accertamento e di condanna del Comune di (Omissis) è stata ridotta (per effetto della espressa rinuncia alla condanna formulata dal medesimo ente) a mera richiesta di accertamento.

1.2.1. Una siffatta condotta processuale deve ritenersi certamente consentita, posto che, come chiarito da Cass. n. 4837 del 2019, “dopo la precisazione delle conclusioni, è vietato estendere il thema decidendum, attraverso nuove domande ed eccezioni che non potrebbero essere confutate ex adverso, ma non restringerlo, mediante rinuncia a qualche capo di domanda o a qualche eccezione (Cass. 23-71971 n. 2434; Cass. 27-2-1965 n. 334, Cass. 22-4-1963 n. 1018)”.

1.3. In secondo luogo, nemmeno è ipotizzabile la lamentata omissione di pronuncia.

1.3.1. Basti considerare, invero, che la corte di appello, nella misura in cui ha dichiarato di condividere le argomentazioni, analiticamente riportate della sentenza impugnata, che il Comune appellato aveva contrapposto a ciascuno dei motivi di gravame dei coniugi (omissis) – (omissis), ha innegabilmente deciso su detti motivi.

1.3.2. In altri termini, quella corte si è pronunciata su tutto il devolutum, mentre, ovviamente, altro e diverso profilo sarebbe quello della correttezza, o non, di quanto dalla stessa affermato (sebbene facendo proprie, appunto, le tesi del Comune predetto).

1.3.3. Ne’ può dirsi violato l’art. 112 c.p.c., per il solo fatto che la corte milanese abbia puntualizzato i periodi di riferimento dell’accertato diritto del medesimo Comune (e corrispondente obbligo degli appellanti) e le normative comunali cui si era attenuta a questo fine.

1.4. In terzo luogo, poi, è doveroso ricordare che Cass., SU, n. 642 del 2015, ha sancito che “Nel processo civile ed in quello tributario, la sentenza la cui motivazione si limiti a riprodurre il contenuto di un atto di parte (o di altri atti processuali o provvedimenti giudiziari), senza niente aggiungervi, non è nulla qualora le ragioni della decisione siano, in ogni caso, attribuibili all’organo giudicante e risultino in modo chiaro, univoco ed esaustivo, atteso che, in base alle disposizioni costituzionali e processuali, tale tecnica di redazione non può ritenersi, di per sé, sintomatica di un difetto d’imparzialità del giudice, al quale non è imposta l’originalità né dei contenuti né delle modalità espositive, tanto più che la validità degli atti processuali si pone su un piano diverso rispetto alla valutazione professionale o disciplinare del magistrato”.

1.4.1. Le Sezioni Unite di questa Corte, dunque, hanno riconosciuto essere esente da vizi la decisione la cui motivazione sia meramente riproduttiva degli atti di parte, così prospettando un autonomo modello di sentenza semplificata e consentendo al giudice di esprimere le ragioni della decisione per mezzo delle “voci” delle parti del processo.

1.4.1.1. L’indicata pronuncia mette in evidenza, peraltro, come il ricorso a tale tecnica di redazione della sentenza non consenta di trascurare l’obbligo di necessaria chiarezza del decisum. La motivazione riproduttiva degli atti di parte, infatti, vene ammessa a condizione che, anche mediante questa tecnica espositiva, la sentenza esponga in maniera chiara, univoca ed esaustiva le ragioni, giuridiche e di fatto, che sostengono la decisione (come innegabilmente accaduto nella odierna vicenda).

1.4.1.2. Inoltre, quanto al rischio che l’utilizzo della tecnica del collage induca il giudice a trascurare “domande, eccezioni e rilievi”, la decisione suddetta correttamente chiarisce che tali vizi incidono sulla validità della sentenza indipendentemente dal fatto che essa sia stata redatta attraverso la copiatura di atti di parte: essi andranno, pertanto, “denunciati e valutati di per sé, con esclusivo riferimento al contenuto oggettivo della sentenza”.

1.4.2. Orbene, nel caso di specie non vi è prova che il decisum della corte distrettuale non sia stato emesso all’esito di un vaglio critico e che non possa essere ritenuto validamente “motivato”, in quanto la riproduzione delle ragioni espresse negli atti di parte esprime anche le ragioni per le quali la medesima corte ha ritenuto di condividere la posizione difensiva del Comune appellato, senza che sia per questo esclusa la disamina delle contrapposte posizioni assunte dalle parti in giudizio.

1.5. Ragioni di completezza, infine, inducono pure a rimarcare che le contestuali denunce di omessa pronuncia (primo motivo) e di motivazione apparente (secondo motivo), sono tra loro logicamente incompatibili. Invero, la motivazione apparente postula comunque una motivazione e ciò esclude, di per sé, l’omessa pronuncia.

2. Il terzo motivo di ricorso, rubricato “Sulla violazione e falsa applicazione del R.D. n. 1404 del 1934, artt. 25 e 26, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3”, contesta la ritenuta possibilità di applicazione del R.D. n. 1404 del 1934, artt. 25 e 26, quali norme legittimanti il diritto dell’Ente ad agire nei confronti dei ricorrenti per ottenere le spese sostenute per il collocamento in comunità ed in affido familiare dei figli minori allontanati ex art. 333 c.c..

2.1. Questa censura si rivela infondata alla stregua di quanto specificamente sancito dalla qui condivisa Cass. n. 22678 del 2010, a tenore della quale il provvedimento del Tribunale dei Minorenni di allontanamento dalla casa familiare e di collocamento in comunità di un minore, accompagnato, o meno, dalla sospensione della potestà genitoriale, non fa venir meno l’obbligo dei genitori di provvedere al mantenimento del minore medesimo, nella specie consistente nella retta da pagare alla struttura di accoglienza, trattandosi di un obbligo collegato esclusivamente al perdurare dello “status” di figlio e non alla permanenza del minore presso il nucleo familiare.

2.2. La menzionata pronuncia, dopo aver ricordato che del R.D.L. n. 1404 del 1934, artt. 25 e 26, conv. nella L. n. 935 del 1935, e succ. modif., indicano le misure applicabili ai minori irregolari per condotta o per carattere, ha chiarito che “Fra di esse rientra l’affidamento del minore al servizio sociale minorile, come pure l’ipotesi di cui al successivo art. 26, u.c., in base al quale questa misura “può altresì essere disposta quando il minore si trovi nella condizione prevista dall’art. 333 c.c.”: nella quale “il giudice, secondo le circostanze, può adottare i provvedimenti convenienti e può anche disporre l’allontanamento di lui dalla residenza familiare ovvero l’allontanamento del genitore o convivente che maltratta o abusa del minore”, adottando provvedimenti qualificati, nel comma 2, come revocabili in qualsiasi momento. E per entrambe le fattispecie l’art. 25, u.c., stabilisce che: “le spese di affidamento o di ricovero, da anticiparsi dall’erario, sono a carico dei genitori” (…)”. L’odierna censura dei ricorrenti, invece, non offre adeguati e convincenti argomenti per rivedere l’appena riportato indirizzo ermeneutico.

3. Il quarto motivo di ricorso, rubricato “Sulla violazione e falsa applicazione delle norme relative all’obbligo di mantenimento ex artt. 147, 148 e 155 c.c., nonché contraddittoria motivazione in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3”, lamenta, in sintesi, che la corte distrettuale, “nel confermare, in modo del tutto generico, la sentenza di primo grado, opera un richiamo generale all’obbligo di mantenimento nei confronti dei figli, richiamando la giurisprudenza relativa all’affidamento dei figli nell’ambito dei procedimenti di separazione e divorzio. Tuttavia nessun richiamo viene svolto in merito alle effettive possibilità economiche dei genitori. Nel caso in esame, l’Ente agisce per ottenere il pagamento di somme particolarmente ingenti – nel (omissis) stimate in circa Euro 124.727,63 – sulla base di una norma che, in primis, non è applicabile al caso concreto e senza utilizzare alcun parametro di valutazione se non, in modo errato, la disciplina dell’ISEE che, come si dirà nei successivi motivi, è applicabile tenendo in considerazione l’ISEE del soggetto che usufruisce del servizio (ovvero il minore) e non degli obbligati al mantenimento (cfr. D.P.C.M. n. 159 del 2013, art. 3, comma 4)”.

3.1. Questa doglianza non merita accoglimento tenuto conto di quanto si è già detto, respingendosi il precedente motivo, richiamandosi il contenuto della ivi riportata Cass. n. 22678 del 2010.

3.2. Essa, inoltre, da un lato, mostra di non tenere in alcun conto il ben noto orientamento giurisprudenziale per cui l’obbligo del genitore di provvedere al mantenimento dei figli (cfr. art. 30 Cost.) perdura finché questi non abbiano raggiunto l’indipendenza economica, oppure siano stati posti nelle concrete condizioni per potere essere economicamente autosufficienti, senza averne però tratto utile profitto per loro colpa o per loro scelta; dall’altro, invoca valutazioni circa le concrete condizioni patrimoniali della (omissis) e dello (omissis) che, in quanto di natura chiaramente fattuali, sono inammissibili in sede di legittimità.

4. Il quinto motivo di ricorso denuncia la “Violazione e falsa applicazione della L. n. 328 del 2000, art. 1, e del D.Lgs. n. 112 del 1998, art. 128, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3”. Assumono i ricorrenti che il collocamento dei propri figli, allora minorenni, in comunità è avvenuto in virtù di un decreto del Tribunale dei Minorenni di Milano, sicché non può ritenersi che, nella specie, si sia trattato di prestazioni socio-assistenziali su richiesta del beneficiario. Invero, della L. n. 328 del 2000, art. 1, stabilisce che per interventi e servizi sociali si intendono tutte le attività previste del D.Lgs. n. 112 del 1998, art. 128, tra cui sono escluse le attività assicurate in sede di amministrazione della giustizia. Vi sono, invece, delle norme ben precise – del D.P.R. n. 616 del 1977, artt. 22 e 23 – che fanno rientrare gli interventi a favore di minori soggetti a provvedimenti dell’autorità giudiziaria, sia nell’ambito della competenza amministrativa che civile, in quelle funzioni amministrative relative alla “beneficienza pubblica”.

4.1. Questa doglianza – che si limita semplicemente a riprodurre la medesima argomentazione formulata dagli odierni ricorrente innanzi alla corte di appello di Milano, e da quest’ultima disattesa sebbene con motivazione facente rinvio alle corrispondenti difese del Comune appellato – si rivela infondata, atteso quanto implicitamente desumibile, in termini di qualificazione come di assistenza socio sanitaria di prestazioni quali quelle di cui si discute, dalla qui condivisa Cass. n. 19036 del 2010, a tenore della quale “Nel sistema di redistribuzione delle attribuzioni in materia di assistenza agli enti territoriali, alla luce della L. n. 698 del 1975 di soppressione dell'(omissis) ((omissis). Ndr), del D.P.R. n. 616 del 1977 e della L. 6 novembre 2000, n. 328, il Comune deve essere considerato tenuto alla erogazione delle prestazioni di assistenza; pertanto, nel caso in cui il Tribunale per i minorenni abbia disposto l’affidamento di un minore ad una casa famiglia, prevedendo l’accoglienza anche della madre, tale ente locale è obbligato al pagamento delle somme relative alle spese di vitto e alloggio per entrambe”.

4.1.1. Significativo, invero, è il passaggio motivazionale della menzionata sentenza in cui, esclusa l’eccezionalità della previsione di cui al D.P.R. n. 616 del 1977, art. 23, lett. c), (riferito “agli interventi in favore dei minorenni soggetti a provvedimenti dell’autorità giudiziaria minorile nell’ambito della competenza amministrativa e civile”), si spiega che “Essa si inserisce nell’ambito del generale trasferimento di funzioni amministrative, esercitate dallo Stato, nella sua articolazione centrale o periferica, e da enti pubblici nazionali o interregionali, ai sensi dell’art. 117 Cost.. Si parla di “ordinamento ed organizzazione amministrativa, servizi sociali, sviluppo economico, assetto ed utilizzazione del territorio”. Si precisa ulteriormente che la nozione di beneficenza pubblica concerne tutte le attività relative, nel quadro della sicurezza sociale, alla predisposizione ed erogazione dei servizi gratuiti o a pagamento, di prestazioni economiche a favore di singoli e di gruppi, escluse le sole funzioni relative a prestazioni di natura previdenziale. Assai opportunamente si fa riferimento specifico ad alcune funzioni che, in quanto relative a soggetti destinatari di provvedimenti dell’autorità giudiziaria, difficilmente avrebbero potuto considerarsi, per sola via interpretativa, rientranti nel generale trasferimento: in particolare la previsione, già indicata, relativa agli interventi in favore di minori soggetti a provvedimenti dell’autorità giudiziaria minorile nell’ambito della competenza civile ed amministrativa. Alla Regione compete la potestà legislativa sulle materie trasferite e la funzione generale di indirizzo, programmazione, controllo; ai Comuni sono attribuite tutte le funzioni amministrative di carattere operativo, relative all’organizzazione ed erogazione dei servizi di assistenza e beneficenza. Va altresì osservato che gran parte delle funzioni assistenziali alle famiglie e ai minori, erano in passato controllate e/o direttamente esercitate dall'(omissis), disciplinata dal T.U. n. 2316 del 1934. In particolare l’Opera provvedeva “per il tramite dei suoi organi provinciali e comunali” (art. 4) alla protezione e all’assistenza delle gestanti e delle madri bisognose e abbandonate, nonché dei bambini lattanti e divezzi fino al quinto anno, appartenenti a famiglie che non potevano prestare loro tutte le cure necessarie per un razionale allevamento. I Comitati di patronato, a base comunale, organizzavano e attuavano l’assistenza alla maternità, con ambulatori specializzati, adoperandosi perché le madri allattassero i loro figli, e questi fossero sorvegliati e curati nel periodo dell’allattamento e dopo il divezzamento (art. 13). E il regolamento di esecuzione (R.D. n. 718 del 1926) della L. n. 2277 del 1925, rimasto in vigore, dopo l’abrogazione di essa, ad opera del predetto T.U. del 1934, prevedeva, all’art. 136, che fosse disposta “dai Comitati di patronato l’ammissione della madre del bambino in un laboratorio nido o in un albergo materno”, precisando che la separazione del bambino dalla madre, mediante il suo ricovero in un asilo per lattanti o divezzi, non poteva essere consentito che “in casi assolutamente eccezionali”. L'(omissis) fu sciolta con L. n. 698 del 1975 (anteriormente, quindi, al D.P.R. n. 616 del 1977): ai Comuni vennero trasferite le funzioni amministrative relative agli asili nido e ai consultori familiari; alle Province furono attribuite “le funzioni amministrative esercitate di fatto dai Comitati Provinciali (omissis)” (art. 2). Il D.P.R. n. 616 del 1977, sopra ricordato, all’art. 2 precisava bensì che a Comuni e Province residuavano le funzioni amministrative, già loro spettanti, secondo la legge, ma la successiva L. n. 328 del 2000 – legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali – all’art. 6, stabilisce che ai Comuni spetta l’erogazione delle attività assistenziali, già di competenza delle Province. Si può considerare, quindi, il Comune, a buon diritto, come successore dell’articolazione locale dell'(omissis), nell’attività di erogazione delle prestazioni di assistenza”.

4.1.2. A tanto va solo aggiunto che, giusta Cass. n. 22909 del 2010, in caso di allontanamento del minore (nella specie adottato) dal nucleo familiare e di suo collocamento in una casa famiglia, le spese di ricovero rimangono a carico dei genitori (in quel caso adottivi), nei cui confronti il Comune, che le abbia anticipate, può rivalersi, salvo che essi alleghino e dimostrino lo stato d’indigenza (condizione rimasta indimostrata, nell’odierna vicenda, anche tenuto conto di quanto si è già detto precedentemente disattendendosi la doglianza di cui al quarto motivo di ricorso).

5. Il sesto motivo di ricorso prospetta la “Violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 502 del 1992, art. 3-septies e D.P.C.M. 14 febbraio 2001, in particolare per quanto riguarda il minore S.F. collocato in comunità terapeutica, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 e dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5”. I ricorrenti insistono sulla circostanza che, dopo appena tre mesi dal provvedimento provvisorio del Tribunale dei Minori di Milano del 27 dicembre 2013, (omissis) era stato collocato, per problemi di salute di tipo psichiatrico, in una comunità terapeutica, la (omissis), e non in una comunità familiare, pertanto di competenza addirittura del Servizio Sanitario Nazionale. Assumono, inoltre, che è la legge a stabilire che l’assistenza infantile per prestazioni mediche, psicologiche e riabilitative o per la protezione del minore sono a carico del Servizio Sanitario Nazionale. Per tali ragioni, le somme sostenute dal Comune per provvedere al collocamento nelle comunità terapeutiche del minore suddetto non dovevano in alcun modo essere poste a loro carico degli odierni ricorrenti, ma, se del caso, quali cure di tipo sanitario, dovevano gravare sul Servizio Sanitario Nazionale o, comunque del Comune di (omissis).

5.1. Una siffatta doglianza si rivela inammissibile.

5.1.1 Invero, come condivisibilmente osservato dal Comune oggi controricorrente, tra le parti è controverso e, come accertato dai Giudici di merito, non è stato provato dai genitori, se, durante il ricovero di (omissis) presso la struttura “(omissis), le prestazioni erogate in favore del minore sono state interamente sanitarie. Soltanto in questo caso le spese relative al ricovero sarebbero state a carico del Servizio Sanitario.

5.1.2. L’inammissibilità della censura deriva dal fatto che, pur denunciando un vizio motivazionale ed uno di violazione di legge, la stessa mira, in realtà, sostanzialmente, ad un nuovo esame nel merito.

5.1.2.1. I ricorrenti, invero, insistono nel sostenere che, per il periodo in cui il figlio (omissis) è stato accolto dalla comunità “(omissis), circostanza incontestata tra le parti, le spese di ricovero devono essere interamente sostenute dal Servizio Sanitario Nazionale, essendo la struttura accreditata dalla Regione Lombardia come comunità terapeutica riabilitativa.

5.1.2.2. Orbene, la normativa di riferimento, il D.P.C.M. 14 febbraio 2001, decreta che il costo del ricovero è a carico del Servizio Sanitario Nazionale solo nel caso in cui è dimostrato che la prestazione è interamente terapeutica.

5.1.2.3. Nella specie, il giudice di prime cure ha esaminato e motivato il rigetto della pretesa della (omissis) e dello (omissis) dichiarando inammissibile l’eccezione relativa alle spese di ricovero di (omissis) perché tardiva e, in ogni caso, infondata nel merito, non avendo i genitori provato il presupposto della natura interamente sanitaria del ricovero del figlio. La corte di appello, a sua volta, nel fare proprie le difese, sul punto, dell’appellato (riportate alla pagina 27 della sentenza impugnata in questa sede), ha condiviso l’assunto di quest’ultimo circa l’omessa contestazione, da parte della (omissis) e dello (omissis), con il proposto gravame, della tardività di detta eccezione e, soprattutto, della mancata dimostrazione della natura esclusivamente terapeutica, e non anche assistenziale, ricevuto dal loro figlio presso la menzionata comunità “(omissis).

5.1.3. Resta solo da dire, dunque, che il ricorso per cassazione non rappresenta uno strumento per accedere ad un terzo grado di giudizio nel quale far valere la supposta ingiustizia della sentenza impugnata, spettando esclusivamente al giudice di merito il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di controllarne l’attendibilità e la concludenza e di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad essi sottesi, dando così liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge (cfr. ex multis, anche nelle rispettive motivazioni, Cass. n. 11299 del 2023; Cass. n. 7993 del 2023; Cass. n. 35041 del 2022; Cass., SU, n. 34476 del 2019; Cass. n. 27686 del 2018; Cass., Sez. U., n. 7931 del 2013; Cass. n. 14233 del 2015; Cass. n. 26860 del 2014). Alteris verbis, il giudizio di legittimità non può essere surrettiziamente trasformato in un nuovo, non consentito, ulteriore grado di merito, nel quale ridiscutere gli esiti istruttori espressi nella decisione impugnata, non condivisi e, per ciò solo, censurati al fine di ottenerne la sostituzione con altri più consoni alle proprie aspettative (cfr. Cass. n. 21381 del 2006, nonché, tra le più recenti, Cass. n. 8758 del 2017; Cass., SU, n. 34476 del 2019; Cass. n. 32026 del 2021; Cass. n. 40493 del 2021; Cass. n. 1822 del 2022; Cass. n. 2195 del 2022; Cass. n. 3250 del 2002; Cass. n. 5490 del 2022; Cass. n. 9352 del 2022; Cass. 13408 del 2022; Cass. n. 15237 del 2022; Cass. n. 21424 del 2022; Cass. n. 30435 del 2022; Cass. n. 35041 del 2022; Cass. n. 35870 del 2022; Cass. n. 1015 del 2023; Cass. n. 7993 del 2023; Cass. n. 11299 del 2023; Cass. n. 13787 del 2023; Cass. n. 14595 del 2023).

6. Il settimo motivo di ricorso lamenta la “Violazione e falsa applicazione della (omissis) n. 184 del 1983, art. 5, in particolare per quanto riguarda il minore (omissis) in affido familiare, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3″. Posto che (omissis), il più piccolo dei fratelli, si trova in affidamento familiare, si rimarca che la (omissis) n. 184 del 1983, all’art. 5, n. 1, stabilisce che “l’affidatario deve accogliere presso di sé il minore e provvedere al suo mantenimento”. Secondo i ricorrenti, pertanto, con riguardo alle spese sostenute per l’affidamento di L., il Comune di (omissis) nemmeno può basarsi su quell’obbligo generale al mantenimento dei figli di cui già si è detto nei precedenti motivi.

6.1. Questa doglianza è inammissibile, atteso che non è stata specificamente contestata l’altra ratio decidendi, sul punto, della sentenza oggi impugnata, concernente la tardività dell’analoga eccezione sollevata dagli appellanti/odierni ricorrenti innanzi alla corte distrettuale (cfr. pag. 29 della citata sentenza, laddove, dopo essersi condivise le argomentazioni contrapposte dall’appellato a ciascun motivo di gravame, si aggiunge che “…, però, con riferimento a (omissis), che si trova in affidamento familiare, (omissis) e (omissis) non avevano legittimazione passiva in primo grado a partire dalla data in cui il minore era stato inserito nella famiglia affidataria, nondimeno non hanno formulato tale eccezione nel primo grado. Nel secondo grado la loro difesa sul punto è ora inammissibile”).

6.2. Deve trovare applicazione, pertanto, il principio secondo cui, ove la corrispondente motivazione della sentenza sia sorretta da una pluralità di ragioni, distinte ed autonome, ciascuna delle quali giuridicamente e logicamente sufficiente a giustificare la decisione adottata sul punto, l’omessa impugnazione di una di esse rende inammissibile, per difetto di interesse, la censura relativa alle altre, la quale, essendo divenuta definitiva l’autonoma motivazione non impugnata, non potrebbe produrre in alcun caso l’annullamento, in parte qua, della sentenza (cfr., ex multis, anche nelle rispettive motivazioni, Cass. n. 4355 del 2023; Cass. n. 4738 del 2022; Cass. n. 22697 del 2021; Cass., SU, n. 10012 del 2021; Cass. n. 3194 del 2021; Cass. n. 15075 del 2018; Cass. n. 18641 del 2017; Cass. n. 15350 del 2017).

7. L’ottavo motivo di ricorso, recante “Violazione e falsa applicazione del D.P.C.M. 5 dicembre 2013, n. 159, art. 3, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3”, deduce che la compartecipazione alle spese, per le prestazioni di tipo socio-assistenziale, deve avvenire secondo i criteri previsti dalla nuova disciplina ISEE di cui al D.P.C.M. 5 dicembre 2013, n. 159, ove si utilizza, come parametro di riferimento per il calcolo della percentuale di compartecipazione, il reddito del nucleo familiare del soggetto che accede al servizio e non certo i soggetti tenuti agli alimenti. Il nucleo familiare viene individuato proprio dall’art. 3, comma 4, del menzionato D.P.C.M., che stabilisce: “Il minore in affidamento e collocato presso comunità è considerato nucleo familiare a sé stante”. Gli utenti per il collocamento in comunità familiare, terapeutica ed in affido familiare sono i minori stessi, e la compartecipazione alle relative spese deve essere calcolata in base al loro nucleo familiare così come individuato dall’art. 3 appena descritto. Perciò, se proprio gli oneri sostenuti dal Comune di (omissis) per il collocamento dei minori devono essere considerati alla stregua di prestazioni socio-assistenziali per cui è previsto un criterio di compartecipazione alle spese sulla base dell’indicatore ISEE del nucleo familiare, allora bisogna tenere conto, secondo i ricorrenti, dell’indicatore ISEE del nucleo familiare di ciascun minore a sé stante e non quello degli odierni ricorrenti.

7.1. Questa doglianza si rivela inammissibile nella misura in cui la corte territoriale, facendo proprie le argomentazioni dell’appellato, ha ritenuto fondata, conseguentemente l’eccezione di inammissibilità, per novità, della corrispondente eccezione sollevata in appello, per la prima volta, dagli odierni ricorrenti (cfr. pag. 21 della sentenza impugnata, punto 19, nonché pag. 29). Altrettanto dicasi con riferimento a quanto ivi sancito circa il difetto di giurisdizione del Giudice Ordinario a sindacare la normativa ISEE.

7.1.1. Queste rationes decidendi, infatti, non sono state adeguatamente e specificamente contestate in questa sede, sicché deve trovare applicazione anche qui il principio già riportato al precedente p. 6.2.

8. Il nono motivo di ricorso, infine, rubricato “Sulla violazione e falsa applicazione dell’art. 1988 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3”, lamenta che, diversamente da quanto affermato nella sentenza impugnata e dal Comune di (omissis), mai è stato riconosciuto, dagli odierni ricorrenti, alcun importo a titolo di compartecipazione alle spese per il collocamento dei figli minori, in quanto le richieste di pagamento ad essi pervenute sono state sempre respinte e contestate.

9. Pure questa doglianza si rivela inammissibile.

9.1. Essa, invero, oltre ad evidenti profili di carenza di autosufficienza (nemmeno riportando il contenuto dei documenti cui fa riferimento, così da non consentire q questa Corte di valutarne la decisività), pur denunciando un vizio motivazionale ed uno di violazione di legge, mira, in realtà, sostanzialmente, ad un nuovo esame nel merito, dimenticando, tuttavia, che “E’ inammissibile il ricorso per cassazione che, sotto l’apparente deduzione del vizio di violazione o falsa applicazione di legge, di mancanza assoluta di motivazione e di omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio miri, in realtà, ad una rivalutazione dei fatti storici operata dal giudice di merito” (cfr. Cass., SU, n. 34476 del 2019; Cass. n. 5987 del 2021).

9. In conclusione, dunque, l’odierno ricorso di (omissis) ed (omissis) deve essere respinto, restando a loro carico, in via solidale, le spese di questo giudizio di legittimità sostenute dal controricorrente Comune di (omissis), atteso il principio di soccombenza, altresì dandosi atto, giusta quanto precisato da Cass., SU, n. 4315 del 2020, rv. 657198-06, che, malgrado il tenore della pronuncia adottata, non è dovuto il pagamento di un’ulteriore somma, a titolo di contributo unificato, posto che, ai sensi del D.P.R. n. 115, art. 10, comma 2, non è soggetto al contributo unificato il processo comunque riguardante la prole.

10. Va, disposta, infine, per l’ipotesi di diffusione del presente provvedimento, l’omissione delle generalità e degli altri dati identificativi a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso di (omissis) ed (omissis) e li condanna, in solido tra loro, al pagamento delle spese di questo giudizio di legittimità sostenute dal controricorrente Comune di (omissis), che si liquidano in Euro 3.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15%, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge.Dispone per l’ipotesi di diffusione del presente provvedimento, l’omissione delle generalità e degli altri dati identificativi a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 6 giugno 2023.

Depositato in Cancelleria il 20 giugno 2023

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