La sentenza non definitiva veniva impugnata dalla (omissis).
La Corte d’Appello, considerata la circostanza che il (omissis), per effetto della scelta di versare l’importo dovutogli a titolo di TFR in un fondo di previdenza complementare, aveva iniziato a percepire un contributo pensionistico maggiorato, stabiliva un incremento del 50% dell’assegno divorzile posto a carico del (omissis) e a favore della (omissis) da Euro 800,00 mensili (come stabilito con la sentenza di primo grado) ad Euro 1.200,00 mensili.
Nel corso del giudizio, proseguito davanti al Tribunale di Lodi, veniva accertato che il (omissis), a partire dal 01/06/1996 aveva versato nel Fondo Previdenziale Previndai una quota del TFR, facendo, poi, confluire, nello stesso Fondo, tutto l’importo residuo del TFR maturato in azienda prima dell’avvio del giudizio di divorzio.
Il Tribunale di Lodi condannava comunque quest’ultimo a pagare a (omissis), a titolo di quota sul trattamento di fine rapporto, la somma di Euro 98.515,00 oltre interessi legali dalla domanda al saldo.
La Corte d’Appello, adita dal (omissis), nel contradditorio delle parti, riformava la decisione di primo grado, dichiarando la non debenza in capo alla (omissis) delle somme sopra indicate.
Secondo la menzionata Corte, la stessa formulazione dell’art. 12 bis L. n. 898 del 1970 imponeva di limitare l’importo dovuto al titolare dell’assegno divorzile alla somma percepita dall’ex coniuge al momento della cessazione del rapporto di lavoro, evidenziando come la stessa giurisprudenza di legittimità avesse precisato che da tale importo dovevano essere escluse le somme incassate in forma anticipata dal lavoratore durante la convivenza matrimoniale o la separazione personale, in quanto definitivamente entrate nell’esclusiva disponibilità dell’avente diritto.
La stessa Corte rilevava che la riforma previdenziale (D.Lgs. n. 252 del 2005) ha previsto la possibilità per il lavoratore di mantenere il proprio TFR in azienda o di destinarlo ad un qualsiasi fondo di previdenza complementare, precisando che il rapporto tra lavoratore e Fondo di Previdenza Complementare è di natura contrattuale e consente al lavoratore il conseguimento di una prestazione previdenziale integrativa.
In altre parole, il TFR ha natura retributiva, ma il TFR conferito al Fondo Previdenziale dal datore di lavoro assume natura previdenziale. Il TFR, inoltre, viene percepito al momento della cessazione del rapporto di lavoro, mentre le somme erogate dal Fondo Pensionistico vengono erogata al raggiungimento dei requisiti per la percezione della pensione.
La Corte territoriale aggiungeva che la giurisprudenza di merito aveva già affermato che non potevano essere considerate, agli effetti dell’art. 12 bis L. n. 898 del 1970, le somme destinate a un Fondo di Previdenza Complementare (Tribunale di Milano, sentenza del 18/05/2017), poiché detta disposizione riconosce al coniuge divorziato titolare d un assegno divorzile la quota del 40% del TFR “percepito” alla cessazione del rapporto di lavoro, mentre le somme spettanti per la prestazione previdenziale complementare non vengono riscosse in tale momento, ma alla maturazione dei requisiti per la pensione. Tali somme, peraltro, non sono riconosciute come liquidazione, ma come pensione integrativa, sussumibile nella previsione dell’art. 2123 c.c., e non in quella dell’art. 2120 c.c.
Tutto ciò premesso, la Corte rilevava che il (omissis) aveva versato l’intero importo del proprio TFR nel Fondo Previdenziale Previndai, integrando la destinazione iniziale con i versamenti successivamente effettuati, contribuendo, in tal modo, a determinare la propria pensione complementare. Al raggiungimento dei requisiti per la pensione, poi, lo stesso aveva iniziato a percepire, sottoforma di rendita vitalizia, la prestazione pensionistica, che era cosa ben diversa dal trattamento di fine rapporto. La scelta di destinare il TFR ad un fondo pensionistico, per la Corte d’Appello, era avvenuta in modo del tutto legittimo e sulle somme accantonate la (omissis) non poteva vantare alcunché, avendo la destinazione scelta dal legittimo titolare mutato la natura delle somme in parola, da retributiva a previdenziale.
Avverso tale statuizione, (omissis) ha proposto ricorso per cassazione, affidato a un solo motivo di censura.
L’intimato si è difeso con controricorso.
Entrambe le parti hanno depositato memoria difensiva.
Con ordinanza interlocutoria (Cass., Sez. 1, Ordinanza n. 8375 del 30/03/2025), questa Corte ha disposto il rinvio della causa per la trattazione in pubblica udienza, per la natura delle problematiche coinvolte e per l’incidenza delle soluzioni su diversi settori del diritto, oltre che per la diffusa possibilità di applicazione.
Le parti, in vista dell’udienza fissata, hanno depositato ulteriori memorie difensive, cui hanno fatto richiamo in sede di discussione in pubblica udienza.
Il Pubblico Ministero, nella persona del Sostituto Procuratore Generale (omissis), ha concluso in udienza per l’accoglimento del ricorso, non tanto in ragione della natura retributiva o previdenziale del trattamento di previdenza complementare, quanto piuttosto esigenze di bilanciamento dei diritti coinvolti.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Dall’altra, la medesima ricorrente ha lamentato il mancato rilievo attribuito al comportamento tenuto dall’ex marito, che aveva versato nel Fondo Pensionistico tutto il TFR rimasto in azienda un mese prima dell’instaurazione della causa di divorzio, nell’imminenza del pensionamento, e dopo che la moglie, nelle trattative ante causam, aveva già anticipato la sua intenzione di chiedere la quota di sua spettanza. Ad opinione della (omissis), era stato posto in essere un aggiramento degli obblighi derivanti dall’art. 12 bis L. n. 898 del 1970, con abuso del diritto del (omissis), piegato ad uno scopo palesemente antigiuridico, anche in violazione dell’art. 2043 c.c.
2. Il controricorrente ha eccepito l’inammissibilità del motivo di ricorso, in quanto privo dei caratteri di specificità e, comunque, illustrativo di una questione del tutto nuova, nella parte relativa alle ipotizzate finalità aggiratorie della norma in questione.
Il (omissis) ha precisato, in fatto, che sin dal 01/01/1996 aveva aderito al Fondo Previndai, versando una quota contrattualmente definita del suo TFR futuro e una quota contrattualmente definita della sua retribuzione (così destinando al Fondo, con riguardo al periodo 1 gennaio 1996-31 ottobre 2020, l’importo complessivo di Euro 112.695,83) e che, poi, nel marzo 2018, quando ancora non era divorziato, aveva esercitato il diritto, riconosciuto dalla L. 244 del 2007, di versare nel medesimo Fondo l’intero importo di TFR rimasto accantonato in azienda, pari ad ulteriori Euro 143.925,43, ottenendo la necessaria approvazione del datore di lavoro.
Secondo il controricorrente, dunque, il versamento del TFR pregresso da parte del (omissis) era avvenuto in maniera assolutamente lecita, senza alcun intento elusivo in danno della ex moglie, la quale, insieme a lui, si era avvantaggiata della scelta così operata, dal momento che aveva ottenuto un aumento dell’assegno divorzile proprio in considerazione dell’entità della pensione complementare percepita a seguito del pensionamento.
3. Il motivo di ricorso è in parte inammissibile e in parte infondato.
4. Il motivo è inammissibile nella parte in cui è dedotto un comportamento illecito con finalità aggiratorie del disposto dell’art. 12 bis L. n. 898 del 1970.
Dalla lettura della sentenza impugnata non risulta che la questione, che implica la valutazione di elementi di fatto, sia stata posta alla cognizione della Corte territoriale, né la ricorrente ha specificato di averla prospettata nelle precedenti fasi di merito.
Come più volte affermato da questa Corte, qualora con il ricorso per cassazione siano dedotte questioni di cui, come nella specie, non vi sia cenno nella sentenza impugnata, il ricorrente deve, a pena di inammissibilità della censura, allegarne l’avvenuta loro deduzione dinanzi al giudice di merito e, in virtù del principio di autosufficienza, anche indicare in quale specifico atto del giudizio precedente ciò sia avvenuto, in modo tale da consentire alla Corte di controllare ex actis la veridicità di tale asserzione, prima ancora di esaminare il merito della suddetta questione, giacché i motivi di ricorso devono investire questioni già comprese nel thema decidendum del giudizio di appello, essendo preclusa alle parti, in sede di legittimità, la prospettazione di questioni o temi di contestazione nuovi, non trattati nella fase di merito né rilevabili di ufficio (Cass., Sez. L, Ordinanza n. 18018 del 01/07/2024; Cass., Sez. 2, Sentenza n. 20694 del 09/08/2018; Cass., Sez. 6-1, Ordinanza n. 15430 del 13/06/2018).
5. È infondata, invece, l’eccezione di inammissibilità della censura, nella parte in cui è dedotta la violazione dell’art. 12 bis L. n. 898 del 1970 ad opera della Corte d’Appello.
Contrariamente a quanto dedotto dal controricorrente, il motivo è sufficientemente preciso e chiaro nella parte in cui ha censurato la decisione della Corte d’Appello, per avere ritenuto che il versamento nel Fondo dell’intero TFR maturato, prima dell’inizio della causa di divorzio (e poco prima del collocamento in pensione), non comportasse il percepimento dello stesso TFR da parte del lavoratore.
6. La doglianza è tuttavia infondata.
7. Si deve prima di tutto evidenziare che il TFR dei lavoratori è regolato, per il settore privato, dall’art. 2120 c.c., prevedendosi che “in ogni caso di cessazione del rapporto di lavoro subordinato”, e, quindi, indipendentemente dalle motivazioni che l’hanno determinato, “il prestatore di lavoro ha diritto ad un trattamento di fine rapporto”.
Secondo una concezione oramai consolidata in giurisprudenza, il TFR ha natura retributiva (Cass., Sez. L, Ordinanza n. 6333 del 05/03/2019) costituendo un elemento della retribuzione il cui pagamento viene differito al momento della cessazione del rapporto di lavoro. Esso matura durante lo svolgimento del rapporto ed è costituito dalla somma degli accantonamenti annui di una quota della retribuzione rivalutata periodicamente.
Analoga natura retributiva hanno anche le indennità di fine rapporto erogate nel settore pubblico, ridotte al paradigma comune della retribuzione differita, nell’ambito di un percorso di tendenziale assimilazione alle regole dettate nel settore privato dall’art. 2120 c.c., ricordato anche dalla Corte costituzionale, nella sentenza n. 159 del 25 giugno 2019 (v. in motivazione Cass., Sez. L, Sentenza n. 25621 del 25/09/2024).
In effetti, come evidenziato dalle Sezioni Unite di questa Corte (Cass., Sez. U, Sentenza n. 6229 del 07/03/2024), la modalità di calcolo del trattamento di fine rapporto, introdotta dal testo novellato dell’art. 2120 c.c., basata non più sull’ultima retribuzione del prestatore ma sui compensi a quest’ultimo tempo per tempo erogati, e periodicamente rivalutati, consente di affermare che il trattamento in questione costituisce un compenso ancorato allo sviluppo economico che ha avuto la carriera del lavoratore. Al trattamento di fine rapporto è così comunemente riconosciuta la natura di retribuzione differita. Le qualificazioni in passato associate alla vecchia indennità di anzianità – come quella di prestazione previdenziale, o di premio di fedeltà – hanno perduto ogni attualità. La stessa giurisprudenza di legittimità è ferma, oggi, nell’annettere al trattamento di fine rapporto carattere retributivo e sinallagmatico e nel definire, appunto, lo stesso come istituto di retribuzione differita, che matura anno per anno attraverso il meccanismo dell’accantonamento e della rivalutazione (così Cass., Sez. 6-1, Ordinanza n. 164 del 08/01/2016; Cass., Sez. 6-1, Ordinanza n. 11479 del 14/05/2013; Cass., Sez. L, Sentenza n. 16549 del 05/08/2005; v. da ultimo Cass., Sez. L, Ordinanza n. 10082 del 16/04/2025).
Il TFR maturato costituisce, dunque, a tutti gli effetti, un credito del lavoratore certo e liquido, di cui la cessazione del rapporto di lavoro determina l’esigibilità (Cass., Sez. L, Ordinanza n. 10082 del 16/04/2025; Cass., Sez. 2, Sentenza n. 524 del 11/01/2023; Cass., Sez. 1, Ordinanza n. 5376 del 27/02/2020; Cass., Sez. L, Sentenza n. 2827 del 06/02/2018; Cass., Sez. L, Sentenza n. 16845 del 07/07/2017; Cass., Sez. L, Sentenza n. 11579 del 23/05/2014).
Il TFR maturato è, in sintesi, quello già determinato, anche se non ancora erogabile prima della cessazione del rapporto di lavoro. Esso si distingue concettualmente dal TFR maturando, il quale, rispetto a momento in cui è considerato, costituisce in credito futuro, che maturerà a seguito dell’esecuzione delle prestazioni lavorative non ancora poste in essere.
8. Com’è noto, l’articolo 12 bis L. n. 898 del 1970 prevede che “Il coniuge nei cui confronti sia stata pronunciata sentenza di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio ha diritto, se non passato a nuove nozze e in quanto sia titolare di assegno ai sensi dell’articolo 5, ad una percentuale dell’indennità di fine rapporto percepita dall’altro coniuge all’atto della cessazione del rapporto di lavoro anche se l’indennità viene a maturare dopo la sentenza.”
8.1. È consolidato l’orientamento secondo il quale il diritto previsto dalla norma appena richiamata non è azionabile nei confronti del datore di lavoro dell’ex coniuge obbligato al pagamento dell’assegno divorzile, ma solo nei confronti di quest’ultimo, in presenza dei presupposti di legge.
Il richiedente la quota del trattamento di fine rapporto deve, poi, essere titolare di un assegno divorzile – o deve avere presentato domanda di attribuzione dell’assegno in sede di divorzio (poi seguita dall’accoglimento della stessa) – al momento in cui l’ex coniuge abbia maturato il diritto alla corresponsione di tale trattamento (cfr. da ultimo Cass., Sez. 1, Ordinanza n. 4499 del 19/02/2021).
La ratio della norma è, infatti, quella di correlare il diritto alla quota del trattamento di fine rapporto alla percezione dell’assegno divorzile (tra le tante, v. Cass., Sez. 1, Sentenza n. 12175 del 06/06/2011).
Come evidenziato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 23/1991, che ha dichiarato infondate plurime questioni di legittimità costituzionale della norma, “Con la riforma della disciplina del divorzio del 1970, il legislatore del 1987 ha mirato a “rimuovere effetti di segno negativo e a ripristinare una situazione di uguaglianza tra i soggetti del rapporto matrimoniale nella misura in cui ciò è possibile dopo la dissoluzione del vincolo coniugale” (cfr. la Relazione al disegno di legge presentata al Senato): ha cioè avuto tra i suoi obiettivi quello di dare una più ampia e sistematica tutela al soggetto economicamente più debole con l’approntamento di incisivi strumenti giuridici a garanzia di posizioni economicamente pregiudicate dagli effetti della cessazione del matrimonio. Di qui l’apprestamento di una serie di misure, che vanno dalla fissazione di criteri più articolati e precisi per la determinazione dell’assegno divorzile, al suo adeguamento automatico e alla più intensa tutela sul terreno esecutivo e su quello penale rispetto ai rischi di inadempienza; dalla nuova disciplina del trattamento pensionistico di reversibilità alla attribuzione di una quota percentuale dell’indennità di liquidazione spettante al divorziato… Nel nuovo istituto dell’attribuzione all’ ex coniuge di una quota dell’indennità di fine rapporto convergono, secondo l’opinione prevalente, sia profili assistenzialistici, evidenziati dal fatto che essa presuppone la spettanza dell’assegno divorzile; sia, e soprattutto – come la citata Relazione sottolinea – criteri di carattere compensativo, rapportati al contributo personale ed economico dato dall’ ex-coniuge alla formazione del patrimonio di ciascuno e di quello comune.”
Anche le Sezioni Unite di questa Corte hanno di recente ribadito che, alla base della disposizione normativa in esame, si rinvengono profili assistenziali, evidenziati dal fatto che la disposizione stessa presuppone la spettanza dell’assegno divorzile, ma anche criteri di carattere compensativo, predeterminati dalla legge (v. da ultimo, in motivazione, Cass., Sez. U, Sentenza n. 6229 del 07/03/2024).
Attraverso l’istituto in esame, dunque, è conseguito il risultato di attuare una partecipazione, sia pure posticipata, dell’ex coniuge titolare di assegno divorzile alle fortune economiche dell’altro ex coniuge, costruite insieme finché il matrimonio è durato.
8.2. Ovviamente, in applicazione dell’art. 12 bis L. n. 898 del 1970, la sussistenza delle condizioni previste dalla legge per l’ottenimento della quota del trattamento di fine rapporto spettante all’ex coniuge obbligato va verificata al momento in cui è esigibile, per quest’ultimo, il diritto all’ottenimento del menzionato trattamento nei confronti del datore di lavoro e, dunque, come sopra evidenziato, al momento in cui cessa il rapporto di lavoro (v. tra le tante Cass., Sez. L, Sentenza n. 2827 del 06/02/2018 e Cass., Sez. 1, Ordinanza n. 5376 del 27/02/2020; cfr. Cass., Sez. 1, Sentenza n. 34050 del 12/11/2021).
8.3. Come stabilito dalla norma appena richiamata, tuttavia, solo la percezione di tale trattamento rende esigibile la quota di spettanza dell’ex coniuge, essendo previsto il diritto di quest’ultimo “ad una percentuale dell’indennità di fine rapporto percepita dall’altro coniuge”.
Pertanto, il diritto alla quota del trattamento di fine rapporto da parte dell’ex coniuge titolare dell’assegno di divorzio, anche se sorge quando l’altro ex coniuge cessa il rapporto di lavoro, è esigibile solo se quest’ultimo percepisce il relativo trattamento (cfr. Cass., Sez. 1, Sentenza n. 27233 del 14/11/2008 e Cass., Sez. 1, Sentenza n. 5719 del 23/03/2004).
Non è, però, necessario che, al momento della proposizione della domanda ex art. 12 bis L. n. 898 del 1970, l’importo su cui calcolare la quota di trattamento di fine rapporto sia stato già incassato dall’ex coniuge che ha cessato il rapporto di lavoro, essendo sufficiente che sia stato percepito al momento della decisione. Come avviene in tutti i casi in cui è promosso un giudizio teso all’accertamento di un credito, infatti, la sentenza che decide la causa deve accogliere la domanda del creditore quante volte abbia a riscontrare che i fatti costitutivi del diritto fatto valere, pur se non sussistenti al momento della proposizione della domanda, sussistono in quello successivo della decisione (Cass., Sez. 1, Ordinanza n. 24403 del 08/08/2022; più in generale, Cass., Sez. 1, Ordinanza n. 15224 del 16/07/2020).
8.4. Questa Corte ha anche precisato che la quota spettante all’ex coniuge va quantificata sulla scorta del TFR netto corrisposto, e non sul lordo, poiché altrimenti l’obbligato sarebbe tenuto a corrispondere una quota in relazione ad un importo dallo stesso non percepito, siccome gravato dal carico fiscale (Cass, Sez. 6-1, n. 24421 del 29/10/2013).
8.5. Occorre tenere presente che il disposto dell’art. 12 bis L. n. 898 del 1970 – nella parte in cui attribuisce al coniuge titolare dell’assegno divorzile che non sia passato a nuove nozze il diritto ad una quota dell’indennità di fine rapporto dell’altro coniuge “anche quando tale indennità sia maturata prima della sentenza di divorzio” – va interpretato nel senso che il diritto alla quota sorge soltanto se l’indennità spettante all’altro coniuge diviene esigibile, e viene percepita, al momento della proposizione della domanda introduttiva del giudizio di divorzio o dopo tale momento, ma non anche quando essa diviene esigibile prima, e cioè durante la vita matrimoniale o in costanza di separazione dei coniugi.
Tale principio, espresso da Cass., Sez. 1, Sentenza n. 5553 del 07/06/1999, è stato ribadito dalla giurisprudenza successiva (Cass., Sez. 1, Sentenza n. 12995 del 23/10/2001; Cass., Sez. 1, Sentenza n. 13425 del 13/09/2002; Cass., Sez. 1, Sentenza n. 14997 del 08/10/2003; Cass., Sez. 1, Sentenza n. 19309 del 17/12/2003; Cass., Sez. 1, Sentenza n. 25520 del 16/12/2010; Cass., Sez. 6-1, Ordinanza n. 14129 del 20/06/2014; Cass., Sez. 6-1, Ordinanza n. 7239 del 22/03/2018; Cass., Sez. 1, n. 17154 del 15/06/2023).
La S.C. ha, in particolare, ritenuto che è consentito interpretare l’art.12 bis L. n. 898 del 1970 nel senso che il diritto alla quota dell’indennità di fine rapporto di lavoro sorge anche se il diritto all’indennità di fine rapporto sorge per il lavoratore prima della sentenza di divorzio, ma l’insorgenza del diritto deve essere collocata in un momento in cui la sentenza può produrre i suoi effetti, ovvero, al più presto, al momento della proposizione della domanda. Da ciò consegue che, se l’indennità di fine rapporto diventa esigibile per il lavoratore prima di tale momento, essa non dà diritto ad alcuna quota, perché vengono in rilievo, nel rispetto dei canoni fissati dall’ordinamento, i diversi principi che regolano la situazione esistente al momento in cui sorge il diritto e, segnatamente, quello della piena disponibilità delle attribuzioni patrimoniali da parte del destinatario dello stesso, quale coniuge ancora unito in matrimonio o solo separato, ma non divorziato (v. in particolare Cass., Sez. 1, Sentenza n. 5553 del 07/06/1999 e Cass., Sez. 1, Sentenza n. 19427 del 18/12/2003).
Anche la Corte costituzionale ha avallato tale orientamento, quando ha dichiarato inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 12 bis L. n. 898 del 1970, in riferimento agli artt. 3,29, comma 2 e 38, comma 1, Cost., nella parte in cui, secondo l’interpretazione fornita dalla giurisprudenza di merito e di legittimità, non è applicabile al caso di maturazione del diritto all’indennità nelle more tra il passaggio in giudicato della sentenza di separazione (o l’emissione del decreto di omologazione della separazione consensuale) e la proposizione della domanda di divorzio (Corte cost., Ordinanza n. 463 del 19/11/2002).
In tale pronuncia, la Corte costituzionale ha evidenziato che l’art. 12 bis L. n. 898 del 1970 presuppone, per la determinazione sia dell’an che del quantum debeatur, la configurabilità del credito al momento della percezione della indennità di fine rapporto da parte del coniuge obbligato, con la conseguenza che l’estensione al coniuge separato della misura patrimoniale in questione avrebbe comportato l’adozione di una pronuncia di tipo additivo, volta ad introdurre, in mancanza di una soluzione costituzionalmente obbligata, un istituto del tutto diverso, con evidente e indebita intromissione nella sfera di attribuzioni riservata alla discrezionalità del legislatore.
8.6. Lo stesso principio è stato enunciato con riferimento alle anticipazioni di TFR erogate all’ex coniuge prima dell’entrata in vigore della L. n. 74 del 1987, che ha introdotto l’art. 12 bis L. n. 898 del 1970, anche se il rapporto di lavoro dell’ex coniuge obbligato è poi cessato quando la norma è entrata in vigore.
Questa Corte ha ritenuto che, in questi casi, l’ex coniuge titolare dell’assegno di divorzio non ha diritto di conseguire la quota sull’anticipazione ricevuta dall’altro ex coniuge, poiché l’anticipo, una volta erogato, entra nel patrimonio del lavoratore, così determinandosi la definitiva acquisizione del relativo diritto, su cui non può incidere l’eventuale mutamento della legislazione in materia (Cass., Sez. 1, Sentenza n. 19427 del 18/12/2003; v. anche Cass., Sez. 1, Sentenza n. 7249 del 27/06/1995).
8.7. La giurisprudenza di legittimità ha escluso l’operatività dell’art. 12 bis L. n. 898 del 1970 anche con riguardo ad acconti o anticipazioni del TFR, percepiti dall’ex coniuge prima della domanda di divorzio.
Com’è noto, al lavoratore è riconosciuto il diritto di chiedere – per una sola volta nel corso del rapporto di lavoro – un’anticipazione del trattamento al quale avrebbe diritto in caso di risoluzione del rapporto alla data in cui viene formulata la relativa domanda (art. 2120 c.c.). Per poter richiedere l’anticipazione – che differisce dall’eventuale acconto chiesto prima delle liquidazione integrale del TFR dopo la cessazione del rapporto di lavoro – è necessario che ricorrano alcune specifiche condizioni soggettive e oggettive, ma la legge consente che previsioni di miglior favore siano contenute nei contratti collettivi o nei patti individuali. Le somme così anticipate vanno, poi, naturalmente detratte dal TFR complessivamente spettante in sede di liquidazione finale.
In argomento, la Corte di legittimità ha richiamato l’orientamento appena illustrato, secondo cui non si deve tenere conto, ai fini dell’operatività dell’art. 12 bis L. n. 898 del 1970, del TFR percepito dal coniuge durante la convivenza matrimoniale o la separazione personale, per essere quelle somme entrate nell’esclusiva disponibilità dell’avente diritto prima dell’insorgenza del diritto all’assegno divorzile.
In altre parole, il fatto che, in presenza di determinate condizioni, il lavoratore possa chiedere, in costanza di rapporto, le anticipazioni sul TFR già maturato, non consente di superare il fatto che l’art. 12 bis L. n. 898 del 1970 attribuisce all’ex coniuge divorziato il diritto alla corresponsione della quota di TFR solo sugli importi corrisposti dopo la sentenza di divorzio (Cass., Sez. 6-1, Ordinanza n. 24421 del 29/10/2013), ovvero, in base all’orientamento giurisprudenziale sopra menzionato, dopo la formulazione della domanda di divorzio (v. supra e Cass., Sez. 1, Sentenza n. 5553 del 07/06/1999; Cass., Sez. 1, Sentenza n. 12995 del 23/10/2001; Cass., Sez. 1, Sentenza n. 13425 del 13/09/2002; Cass., Sez. 1, Sentenza n. 14997 del 08/10/2003; Cass., Sez. 1, Sentenza n. 19309 del 17/12/2003; Cass., Sez. 1, Sentenza n. 25520 del 16/12/2010; Cass., Sez. 6-1, Ordinanza n. 14129 del 20/06/2014; Cass., Sez. 6-1, Ordinanza n. 7239 del 22/03/2018; Cass., Sez. 1, n. 17154 del 15/06/2023).
8.8. Ovviamente, la riscossione dell’indennità di fine rapporto (o di acconti o di anticipazioni sulla stessa) durante la convivenza matrimoniale o in costanza di separazione, anche se non fa sorgere un diritto ai sensi dell’art. 12 bis L. cit. su tali somme, può comunque incidere sulla condizione economica del coniuge tenuto a corrispondere l’assegno ed anche legittimare una modifica delle condizioni della separazione (Cass., Sez. 1, Sentenza n. 14459 del 29/07/2004; Sez. 1, Sentenza n. 19046 del 29/09/2005).
9. La disciplina delle forme pensionistiche complementari, collocate nell’alveo dell’art. 38 Cost., al pari della previdenza obbligatoria (secondo la teoria della “funzionalizzazione della previdenza complementare”: cfr. Corte cost. n. 421/1995 e n. 393/2000), trova il suo attuale referente normativo nel D.Lgs. n. 252 del 2005, emanato in attuazione della legge-delega n. 243 del 2004 (“Norme in materia pensionistica e deleghe al Governo nel settore della previdenza pubblica, per il sostegno alla previdenza complementare e all’occupazione stabile e per il riordino degli enti di previdenza ed assistenza obbligatoria”), che ha operato una riforma organica del settore, nella prospettiva di una complessiva armonizzazione e razionalizzazione, informandolo al principio di autonomia (ancorché “funzionalizzata”).
In particolare, l’art. 1, comma 2, D.Lgs. 252 del 2005 prevede che “l’adesione alle forme pensionistiche complementari… è libera e volontaria” mentre il successivo art. 3, comma 1, dispone che “le fonti istitutive delle forme pensionistiche complementari”, nella loro modulazione negoziale collettiva e regolamentare, “stabiliscono le modalità di partecipazione, garantendo la libertà di adesione individuale”.
Il finanziamento delle forme pensionistiche complementari è attuabile mediante il versamento di contributi a carico del lavoratore, del datore di lavoro o del committente e attraverso il conferimento del TFR maturando (art. 8, comma 1, D.Lgs. n. 252 del 2005), che comporta l’adesione alle forme pensionistiche complementari, in modalità espressa o tacita, ai sensi dell’art. 8, comma 7, lett. a), b), D.Lgs. cit.
La possibilità di conferire al Fondo anche il TFR già maturato e accantonato, entro determinati limiti, è stata introdotta dalla L. n. 244 del 2007 (“legge finanziaria” per il 2008), che ha modificato l’art. 23, comma 7 bis, D.Lgs. n. 252 del 2005, stabilendo quanto segue: “Nel caso di conferimento alla forma pensionistica complementare di quote di TFR maturate entro il 31 dicembre 2006 resta ferma, in occasione dell’erogazione delle prestazioni, l’applicazione delle disposizioni del comma 5. A tal fine le somme versate concorrono a incrementare convenzionalmente la posizione individuale in corrispondenza dei periodi di formazione del TFR conferito. Con provvedimento del direttore dell’Agenzia delle entrate sono stabiliti i criteri e le modalità per lo scambio delle informazioni tra le forme pensionistiche e i datori di lavoro presso i quali sono maturate le quote di TFR. Le disposizioni del presente comma si applicano per i conferimenti effettuati a partire dal 1 gennaio 2007”.
È, dunque, espressamente prevista la possibilità di conferire nel Fondo il TFR pregresso accantonato in azienda per i periodi precedenti all’iscrizione nel Fondo, o anche per i periodi successivi, ma in relazione alla parte residua rispetto a quella già versata ai fini della previdenza complementare, nei limiti sopra indicati, ovviamente secondo le previsioni pattizie e con l’accordo con il datore di lavoro.
L’importo versato viene, poi, investito secondo la scelta di comparto effettuata dal lavoratore ed entra a far parte a tutti gli effetti della posizione individuale di previdenza complementare, liquidabile secondo le disposizioni applicabili.
Le contribuzioni e i conferimenti vengono, infatti, gestiti secondo le modalità previste dall’art. 6 D.Lgs. cit., in modo tale da costituire la provvista delle prestazioni di previdenza complementare erogate a norma del successivo art. 11 dello stesso D.Lgs. (in particolare, versamento in unica soluzione o mediante rendita periodica).
Ai sensi dell’art. 6, comma 9, D.Lgs. n. 22 del 2005, “I fondi pensione sono titolari dei valori e delle disponibilità conferiti in gestione, restando peraltro in facoltà degli stessi di concludere, in tema di titolarità, diversi accordi con i gestori a ciò abilitati nel caso di gestione accompagnata dalla garanzia di restituzione del capitale. I valori e le disponibilità affidati ai gestori di cui al comma 1 secondo le modalità ed i criteri stabiliti nelle convenzioni costituiscono in ogni caso patrimonio separato ed autonomo, devono essere contabilizzati a valori correnti e non possono essere distratti dal fine al quale sono stati destinati, né formare oggetto di esecuzione sia da parte dei creditori dei soggetti gestori, sia da parte di rappresentanti dei creditori stessi, né possono essere coinvolti nelle procedure concorsuali che riguardano il gestore. Il fondo pensione è legittimato a proporre la domanda di rivendicazione di cui all’articolo 103 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267…”.
Anche l’art. 11, comma 10, D.Lgs. cit. ribadisce che “Ferma restando l’intangibilità delle posizioni individuali costituite presso le forme pensionistiche complementari nella fase di accumulo, le prestazioni pensionistiche in capitale e rendita, e le anticipazioni di cui al comma 7, lettera a), sono sottoposti agli stessi limiti…”.
In sintesi, una volta effettuati i conferimenti, le somme destinate al Fondo vanno a comporre un patrimonio “segregato”, che viene investito, fino a che, in presenza dei presupposti di legge, non si verificano i presupposti per l’ottenimento della prestazione di previdenza complementare spettante (rendita capitale o periodica, anche in via anticipata ove consentita).
10. Devono senza dubbio essere distinte le vicende relative al TFR maturando o maturato, anche se conferito nel Fondo di Previdenza Complementare, da quelle riguardanti la prestazione previdenziale integrativa conseguita dal lavoratore dopo la cessazione del rapporto di lavoro.
In proposito, le Sezioni Unite di questa Corte, sia pure con riferimento al periodo precedente la riforma introdotta dal D.Lgs. n. 124 del 1993 – nell’affermare che i versamenti del datore di lavoro nei fondi di previdenza complementare non rientrano nella base di calcolo delle indennità collegate alla cessazione del rapporto di lavoro, perché hanno natura previdenziale, e non retributiva – hanno precisato quanto segue: “24. Per quanto concerne i fondi di previdenza integrativa, i versamenti datoriali non sono preordinati all’immediato vantaggio del lavoratore, ma proprio in coerenza con la loro funzione vengono accantonati (e quindi mai direttamente corrisposti) per garantire la funzione del trattamento integrativo in caso di cessazione del rapporto di lavoro, ovvero in caso di sopravvenuta invalidità secondo le condizioni previste dal relativo statuto. L’obbligo del datore di lavoro di effettuare tali versamenti nasce, a ben vedere, da un ulteriore rapporto contrattuale, distinto dal rapporto di lavoro subordinato, finalizzato a garantire, in presenza delle condizioni prescritte, il conseguimento di una pensione integrativa rispetto a quella obbligatoria, pensione integrativa che costituisce certamente un ulteriore beneficio per il lavoratore; esso tuttavia non modifica i diritti e gli obblighi nascenti da rapporto di lavoro e non incide sulle modalità di erogazione delle indennità di fine rapporto. In sostanza il beneficio derivante al lavoratore dal rapporto di previdenza integrativa non è costituito dai versamenti effettuati dal datore di lavoro, ma dalla pensione che, anche sulla base di tali versamenti, lo stesso potrà percepire. 25. Decisivo a questo proposito appare il rilievo che la contribuzione datoriale non entra direttamente nel patrimonio del lavoratore interessato, il quale può solo pretendere che tale contribuzione venga versata al soggetto indicato nello statuto; ed infatti il lavoratore non riceve tale contribuzione alla cessazione de rapporto, essendo solo il destinatario di un’aspettativa al trattamento pensionistico integrativo, aspettativa che si concreterà esclusivamente ove maturino determinati requisiti e condizioni previsti dallo statuto del fondo. Se è vero che il rapporto di previdenza integrativa ha come necessario presupposto l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato, è anche vero che l’obbligo del versamento del contributo a carico del datore di lavoro non si pone nei confronti del lavoratore bensì nei confronti dei fondo che è poi onerato della erogazione della relativa prestazione…” (Cass., Sez. U, Sentenza n. 4684 del 09/03/2015; v. anche Cass., Sez. L, Sentenza n. 12367 del 17/05/2017; Cass., Sez. L, Sentenza n. 14758 del 14/06/2017; Cass., Sez. U, Sentenza n. 16084 del 09/06/2021).
Più di recente, questa Corte ha approfondito tale ricostruzione, riferendola, in generale, ai conferimenti di TFR in Fondi di Previdenza Complementare.
Il Giudice di legittimità ha, in particolare, evidenziato che il lavoratore, nell’aderire al Fondo, si obbliga ad eseguire le contribuzioni pattuite e/o a conferire il TFR futuro (ma, come sopra precisato, entro certi limiti, può concordare anche il conferimento del TFR già maturato), e, per quanto riguarda il conferimento del TFR, in assenza di una diversa pattuizione, il esso viene disposto dal lavoratore ed eseguito dal datore lavoratore, perché possa essere investito e impiegato, insieme ai proventi della gestione, per l’erogazione delle prestazioni di previdenza complementare (cfr. Cass., Sez. L, Sentenza n. 18477 del 28/06/2023; conf. Cass., Sez. L, n. 19510 del 10/07/2023).
Il rapporto di lavoro e quello previdenziale, derivante dall’adesione al Fondo, restano distinti. Tuttavia, dal punto di vista della convenzione di previdenza complementare, il rapporto di lavoro costituisce il rapporto di provvista, che consente di effettuare il conferimento previsto e pattuito, ai fini dell’ottenimento della prestazione previdenziale integrativa. Nell’ottica della disciplina lavoristica, invece, il versamento del TFR nel Fondo, una volta eseguito, costituisce un fatto estintivo dell’obbligo del datore di lavoro di erogare detto TFR al momento della cessazione del rapporto, tant’è che, come precisato dalle Sezioni Unite di questa Corte, l’importo versato dal datore di lavoro nel Fondi di Previdenza Complementare, oltre a non essere più comprese nel TFR spettante al lavoratore, non rientra neppure nella base di calcolo delle indennità collegate alla cessazione del rapporto di lavoro (Cass., Sez. U, Sentenza n. 4684 del 09/03/2015).
Come precisato da questa Corte, però, il TFR oggetto di conferimento resta un credito avente natura retributiva fino a quando il datore di lavoro non dà esecuzione alla disposizione impartita dal lavoratore di consegnarlo al Fondo, assumendo solo in tale momento natura previdenziale, quando cioè passa nella disponibilità del Fondo, che lo investe nei termini concordati, in vista dell’erogazione delle prestazioni di previdenza complementare, con la conseguenza che, se tale versamento non è effettuato, il credito al TFR mantiene la sua natura di retribuzione differita esigibile dal lavoratore nei confronti del datore di lavoro (v. in motivazione Cass., Sez. L, Sentenza n. 18477 del 28/06/2023; conf. Cass., Sez. L, n. 19510 del 10/07/2023).
Sulla scorta di tale ricostruzione, questa stessa Corte ha ritenuto che il generico riferimento al “conferimento” del TFR maturando alle forme pensionistiche complementari, contenuto nell’art. 8, comma 1, D.Lgs. n. 252 del 2005, lascia alle parti, nell’esercizio della loro autonomia negoziale, la possibilità di configurare il rapporto sia come delegazione di pagamento ex art. 1268 c.c., sia come cessione di credito futuro ex art. 1260 c.c., precisando che, in caso di fallimento del datore di lavoro, la legittimazione ad insinuarsi al passivo per le quote di TFR maturate e accantonate ma non versate al Fondo di previdenza complementare spetta, in via ordinaria, al lavoratore, in conseguenza dello scioglimento del rapporto di mandato sottostante alla delegazione di pagamento conferita al datore di lavoro. Tale legittimazione viene meno solo se dall’istruttoria emerge che è intervenuta una cessione del credito in favore del Fondo di previdenza complementare, nel qual caso è quest’ultimo il soggetto legittimato all’insinuazione al passivo ai sensi dell’art. 93 L.Fall. Ovviamente, l’onere della prova circa la natura negoziale del conferimento grava sulla curatela fallimentare, la quale deve dimostrare specificamente se si tratti di delegazione o di cessione. In assenza di tale prova, l’espressione “conferimento” deve essere interpretata come delegazione di pagamento, con conseguente legittimazione attiva del lavoratore all’insinuazione al passivo per il recupero delle quote di TFR non versate (v. da ultimo Cass., Sez. L, Ordinanza n. 28984 dell’11/11/2024; Cass., Sez. 1, Sentenza n. 16266 dell’08/06/2023; Cass., Sez. L, Sentenza n. 18477 del 28/06/2023).
Ovviamente, se, invece, il versamento viene effettuato, il lavoratore si avvantaggia di tale dazione, perché grazie ad essa acquista, per effetto dell’adesione al Fondo, e in presenza dei presupposti di legge e contrattuali, il diritto la prestazione di previdenza complementare che ha scelto, ma perde il diritto di percepire dal datore di lavoro il TFR, in riferimento agli importi versati nel Fondo, dato che il datore di lavoro, eseguendo il menzionato versamento, estingue il corrispondente debito al pagamento di quel TFR nei confronti del lavoratore.
11. In tale quadro, risulta evidente che il diritto alla quota dell’indennità di fine rapporto prevista dall’art. 12 bis L. n. 898 del 1970 non può essere esteso alla prestazione di previdenza complementare, erogata a seguito della cessazione del rapporto di lavoro e alla ricorrenza degli altri presupposti di legge e di contratto, anche quando viene corrisposta in forma capitale una tantum, poiché si tratta di un credito del tutto diverso, vantato nei confronti di un soggetto diverso e in virtù di un titolo negoziale diverso, che prevede condizioni del tutto diverse.
Non appare utilmente invocabile Cass., Sez. 6-1, Ordinanza n. 12882 del 22/05/2017, pur relativa ad una fattispecie in cui la Corte d’Appello, in riforma della pronuncia di primo grado, aveva accolto la domanda dell’ex coniuge divorziato, titolare l’assegno di divorzio, volta all’attribuzione della quota pari al 40% di quanto attribuito all’ex coniuge dal Fondo Pensionistico Complementare dei dipendenti U.B.I. (Unione Banche Italiane) in seguito all’accantonamento rateale del TFR, relativamente al periodo coincidente con il matrimonio.
In effetti, la statuizione si fonda, prima di tutto, su valutazioni pregiudiziali di difetto di specificità della censura e di non corretta censura della ratio sottesa alla decisione impugnata, cui sono aggiunte valutazioni in ordine alla correttezza della decisione che evidentemente costituiscono argomentazioni ad abundantiam.
Rileva considerare la radicale differenza tra la prestazione di previdenza complementare rispetto al trattamento di fine rapporto, che impedisce l’applicazione estensiva o analogica della previsione di cui all’art. 12 bis L. n. 898 del 1970.
Il TFR deriva, infatti, dal rapporto di lavoro ed è esigibile nei confronti del datore di lavoro, assumendo, come sopra evidenziato, natura di retribuzione differita.
Il trattamento di previdenza complementare ha titolo nell’accordo che ha portato all’adesione al Fondo ed è esigibile nei confronti di quest’ultimo, avendo, appunto, carattere previdenziale, svincolato da ogni nesso di corrispettività diretta con la prestazione di lavoro.
12. Nella specie, comunque, la materia del contendere è limitata alla spettanza o meno all’ex coniuge titolare di assegno divorzile della quota di TFR maturato, conferito in unica soluzione prima dell’introduzione del giudizio di divorzio.
Non assume rilievo, cioè, la prestazione previdenziale successivamente erogata, essendo la materia del contendere incentrata sulla rilevanza giuridica dell’atto di disposizione del lavoratore, che si è avvalso della facoltà di conferire nel Fondo il TFR già maturato, ma non conferito nel Fondo di Previdenza Complementare.
13. Come sopra evidenziato, la disposizione con cui il lavoratore attribuisce al datore di lavoro il compito di conferire il TFR costituisce una modalità di conferimento nel Fondo. Una volta che il datore di lavoro ha adempiuto a tale incarico secondo le indicazioni del lavoratore, le somme versate nel Fondo non fanno più parte del TFR da liquidare a quest’ultimo al momento della cessazione del rapporto di lavoro. Il lavoratore, però, per effetto del menzionato conferimento, acquista il diritto alle prestazioni di previdenza complementare, sempre che sussistano gli altri requisiti di legge e di contratto.
14. Qualora il versamento del TFR nel Fondo sia eseguito da parte del datore di lavoro, ai fini dell’operatività dell’art. 12 bis L. n. 898 del 1970, non rileva accertare se l’adesione al Fondo abbia previsto come criterio operativo una delegazione di pagamento ovvero una cessione del credito, perché, come sopra evidenziato, con l’esecuzione del versamento da parte del datore di lavoro, i corrispondenti importi vengono destinati alla previdenza complementare e quest’ultimo non può più vantare alcun credito nei confronti del datore di lavoro avente ad oggetto il TFR conferito.
In tal modo, il lavoratore compie un atto dispositivo del suo credito al TFR, consentito dal sistema normativo vigente, anche se tale credito è ancora futuro (TFR maturando) o non è ancora esigibile (TFR maturato, ma in pendenza di rapporto di lavoro), e, una volta che il versamento è effettuato, viene meno l’obbligo del datore di lavoro di corrispondere al lavoratore il TFR che ha versato.
Si tratta di un atto negoziale che, anche se non comporta la percezione delle corrispondenti somme da parte del lavoratore, dal punto di vista del rapporto di lavoro, produce gli stessi effetti della percezione di anticipazioni sul TFR in costanza di rapporto di lavoro, perché, si ribadisce, il TFR versato al fondo non è più dovuto dal datore di lavoro al lavoratore.
Ciò significa che, in base a quanto sopra evidenziato in ordine alle sorti delle anticipazioni del TFR erogate prima della proposizione della domanda di divorzio, anche in questo caso, se il menzionato conferimento del TFR nel fondo è anteriore all’introduzione del giudizio di divorzio, il coniuge avente diritto all’assegno divorzile successivamente riconosciuto non può vantare alcun diritto sul TFR versato.
15. Nel caso di specie si verifica proprio tale evenienza, perché è incontestato tra le parti che il versamento del TFR già maturato sia stato effettuato prima che il Fo.Fl. proponesse la domanda di divorzio, presentata nel mese di maggio 2018.
Nel ricorso per cassazione, la stessa ricorrente ha dedotto quanto segue: “Solo mediante ordine di esibizione alla ex datrice di lavoro ed al Fondo Previdenziale si è appreso che il TFR era stato versato in unica soluzione nell’Aprile 2018…” (p. 5 del ricorso per cassazione).
Il versamento è stato compiuto, dunque, quando i coniugi erano ancora separati e, come sopra evidenziato, anche il possibile effetto retroattivo delle statuizioni economiche conseguenti alla pronuncia di divorzio non potranno mai riguardare il periodo antecedente alla relativa domanda.
Non sussistono, dunque, i presupposti per ritenere operante il disposto dell’art. 12 bis L. n. 898 del 1970, perché al momento del conferimento del TFR maturato non era neppure stato avviato il giudizio di divorzio.
16. Ovviamente ciò non significa che la percezione delle prestazioni di previdenza complementare, ad esempio mediante l’erogazione di una rendita periodica, non possa essere considerata ai fini della quantificazione dell’assegno di divorzio, tenuto conto che i vantaggi derivanti da tale prestazione di previdenza complementare derivino dal conferimento al Fondo Previdenziale di TFR maturato durante lo svolgimento del rapporto di matrimonio.
17. Nel caso di specie, peraltro, tale valutazione risulta essere stata effettuata, perché la ricorrente ha ottenuto dalla Corte d’Appello, a seguito dell’impugnazione della decisione non definitiva del Tribunale sulla determinazione dell’assegno divorzile, l’aumento di tale assegno nella misura del 50%, proprio in considerazione delle maggiori entrate ottenute dal Fo.Fl. per effetto dell’erogazione della prestazione di previdenza complementare (p. 2 della sentenza impugnata).
18. Allo stesso modo, ove la prestazione di previdenza complementare sopravvenga alla definizione del procedimento in cui è determinato l’assegno divorzile, tale evenienza può essere valutata, in presenza degli altri presupposti di legge, ai fini di una modifica delle condizioni di divorzio, con un aumento dell’assegno divorzile.
19. Come più volte precisato da questa Corte, infatti, nella determinazione dell’assegno divorzile, ed anche nella sua eventuale modifica, occorre tenere conto degli eventuali miglioramenti della situazione economica del coniuge nei cui confronti grava l’obbligo di corresponsione dell’assegno, qualora costituiscano sviluppi naturali e prevedibili dell’attività svolta durante il matrimonio (Cass., Sez. 1, Sentenza n. 5132 del 05/03/2014; Cass., Sez. 1, Sentenza n. 19446 del 06/10/2005; Sez. 1, Sentenza n. 1487 del 28/01/2004).
20. In conclusione, il ricorso deve essere respinto in applicazione del seguente principio:
“In tema di divorzio, il disposto dell’art. 12 bis L. n. 898 del 1970, nella parte in cui attribuisce al coniuge titolare dell’assegno divorzile che non sia passato a nuove nozze il diritto ad una quota dell’indennità di fine rapporto dell’altro coniuge, non si applica agli atti di disposizione del TFR consentiti dall’ordinamento, quali sono i conferimenti in un Fondo di Previdenza Complementare del TFR già maturato, ove siano eseguiti prima della proposizione della domanda di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio, fermo restando che le eventuali prestazioni di previdenza complementare successivamente conseguite per effetto di tali conferimenti, in presenza degli altri requisiti di legge, possono incidere sulla quantificazione o sulla modifica dell’assegno divorzile.”
21. L’assenza di significativi precedenti di legittimità sulla questione giustifica l’integrale compensazione delle spese di lite.
22. In applicazione dell’art. 13, comma 1 quater, D.P.R. n. 115 del 2002, si deve dare atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello richiesto per l’impugnazione proposta, se dovuto.
23. In caso di diffusione della presente ordinanza devono essere omesse le generalità delle parti e dei soggetti in essa menzionati, a norma dell’art. 52 D.Lgs. n. 196 del 2003.
P.Q.M.
La Corte
rigetta il ricorso;
compensa interamente tra le parti le spese di lite;
dà atto, in applicazione dell’art. 13, comma 1 quater, D.P.R. n. 115 del 2002, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello richiesto per l’impugnazione proposta, se dovuto;
dispone che in caso di diffusione della presente ordinanza siano omesse le generalità delle parti e dei soggetti in essa menzionati, a norma dell’art. 52 D.Lgs. n. 196 del 2003.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Prima Sezione civile della Corte suprema di Cassazione, il 4 giugno 2025 e, in sede di riconvocazione, il 17 luglio 2025.
Depositato in Cancelleria il 18 luglio 2025.
