Massima

Nell’azione di dichiarazione giudiziale di paternità, il rifiuto ingiustificato del preteso padre di sottoporsi agli accertamenti genetici (test del DNA) costituisce un comportamento processuale liberamente valutabile dal giudice ex art. 116, comma 2, c.p.c., il quale è dotato di un elevato valore indiziario tale da poter, in via autonoma, fondare l’accoglimento della domanda, senza che possa essere invocata la tutela della riservatezza o la violazione degli artt. 13 e 32 Cost., essendo l’uso dei dati finalizzato alla giustizia.

Supporto alla lettura

RICONOSCIMENTO PATERNITA’

La ricerca della paternità naturale su basa sul principio della libertà della prova.

L’art. 269, c. 2, c.c. dispone che la prova della paternità e della maternità può essere data con ogni mezzo. L’unico limite posto dal legislatore è quello contenuto nell’ultimo comma dell’art. 269 c.c., che afferma che la sola dichiarazione della madre e la sola esistenza di rapporti tra la madre e il preteso padre all’epoca del concepimento non costituiscono prova della filiazione.

Generalmente la prova relativa al riconoscimento giudiziale di paternità si ottiene mediante prova ematologica e genetica, ma l’ammissione del test del DNA non è subordinato all’accertamento di un rapporto sessuale tra il presunto padre e la madre (Cassazione n. 11299/2023). Infatti la dichiarazione giudiziale di paternità, in base al principio di libertà della prova, può risultare anche solo da una serie di elementi presuntivi.

Il rifiuto ingiustificato di sottoporsi agli esami ematologici è un comportamento valutabile ai sensi dell’art. 116 c.p.c., anche in assenza di prove di rapporti carnali tra le parti, in quanto è proprio la mancanza di riscontri oggettivi certi e difficilmente acquisibili circa la natura dei rapporti intercorsi e circa l’effettivo concepimento a determinare l’esigenza di desumere argomenti di prova dal comportamento processule dei soggetti coinvolti.

Il convenuto ha sempre la possibilità di fornire prova contraria, dimostrando che la madre ha avuto altri rapporti carnali e la precisa collocazione di questi al tempo del concepimento; tale prova però non sempre è sufficiente, spesso, infatti, è comunque necessario eseguire la prova dei gruppi sanguigni o l’analisi del DNA.

Ambito oggettivo di applicazione

Svolgimento del processo

La Corte d’Appello di Napoli, con sentenza n. 3891/2024, pubblicata il 2/10/2024, ha confermato la sentenza del Tribunale di Napoli che aveva accolto, all’esito dell’istruttoria e del rifiuto del convenuto Avv. (omissis) di sottoporsi ai test genetici, la domanda avanzata nei suoi confronti, con citazione del 2018, da (omissis) per sentire accertare il suo status di figlia dell’avv. (omissis), avendo ella appreso da amici e parenti che verso la fine dell’anno 1972 era intercorsa una relazione tra la madre, (omissis) , e l’avv. (omissis), che aveva, poi, portato ad una gravidanza e alla sua nascita nel 1974.

La Corte d’Appello ha respinto tutti e dieci i motivi del gravame dell’appellante (omissis) (per violazione del divieto di bis in idem, per mancata adeguata partecipazione del PM al processo, per arbitrario mutamento del domicilio eletto dal convenuto, per incompatibilità della Dott.ssa (omissis), della Dott.ssa (omissis) già relatrice del precedente giudizio, del Dott. (omissis) nominato CTU in entrambi i giudizi, per essere stato consentito il tardivo deposito in giudizio dell’atto di nascita della (omissis) in originale, inizialmente esibito solo in copia fotostatica, nonché in punto di piena legittimità del proprio rifiuto a sottoporsi ai test genetici, di contestata validità probatoria delle dichiarazioni rese dai testi ascoltati nel corso dell’istruttoria di primo grado e per difetto di legittimazione attiva della (omissis), avendo ella fornito false generalità al primo giudice, inducendolo, così, in errore, ed erronea interpretazione da parte del giudice di prime cure rispetto all’eccezione di prescrizione – a suo dire mai sollevata – e alle motivazioni reali legate al proprio rifiuto di sottoporsi ai test genetici).

La Corte territoriale ha, in particolare, ritenuto che: a) il (omissis), nella persona della Dott.ssa (omissis), aveva rassegnato le proprie conclusioni, chiedendo l’accoglimento della domanda e dando prova di aver preso piena conoscenza degli atti processuali, non rilevando le conclusioni, di segno opposto, rese dal P.M. nel primo giudizio, in quanto espressamente riferite solo a quel giudizio e comunque non vincolanti ai fini della decisione; b) le riferite incompatibilità della Dott.ssa (omissis), della Dott.ssa (omissis) e del CTU, discusse con il terzo motivo di appello, non potevano ritenersi vizi deducibili in sede di impugnazione come motivi di nullità della sentenza, potendo farsi valere solo con apposita istanza di ricusazione nello specifico grado di giudizio, mentre la sentenza era stata firmata dal Presidente del Collegio giudicante, legittimamente costituito anche senza la presenza de Presidente di Sezione; c) quanto alla valenza probatoria/indiziaria del rifiuto dell’appellante di sottoporsi ai test genetici, secondo consolidato orientamento del giudice di legittimità, tale rifiuto costituisce un comportamento valutabile dal giudice ex art. 116 comma 2 c.p.c., di così elevato valore indiziario da consentire, esso solo, di ritenere fondata la domanda; d) quanto all’illegittima escussione dei testimoni e alla non validità probatoria delle dichiarazioni rese dagli stessi, l’appellante non aveva mosso precise censure o indicato rilevanti incongruenze tra le stesse, il Tribunale aveva congruamente motivato sull’attendibilità dei testi e non era tenuto ad acquisire le dichiarazioni dei testi nella forma dell’esame incrociato, sul modello penalistico; e) quanto alla carenza di legittimazione attiva della (omissis) e alla falsità delle generalità rese, il motivo era infondato, essendo evidente che la stessa era nata a (omissis) e non a (omissis) – come asserito dall’appellante – tenuto conto dell’attenta lettura dell’atto di nascita, oltreché del codice fiscale con cui la stessa era registrata, e che l’indirizzo di residenza fornito doveva ritenersi corretto; f) la produzione successiva, a dire dell’appellante tardiva, della copia conforme all’originale dell’atto di nascita era stata necessitata dalle contestazioni mosse dal difensore del (omissis) alla copia fotostatica tempestivamente depositata; g) in ordine (nono motivo) alla circostanza che il Tribunale di Napoli non avrebbe dovuto pronunciarsi sulla domanda della (omissis), già oggetto di altro giudizio conclusosi con sentenza n. 1502/2018 del medesimo Tribunale che aveva dichiarato inammissibile la domanda, e alla conseguente violazione del principio del ne bis in idem, correttamente il Tribunale aveva distinto tra pronuncia “in rito” e decisione nel merito, rilevando che, nella fattispecie, la sentenza n. 1502/2018 emessa dal Tribunale di Napoli aveva dichiarato inammissibile la domanda di accertamento della paternità avanzata dalla (omissis) per il mancato deposito del fascicolo di parte attrice e dell’atto di nascita della stessa e quindi si trattava di una pronuncia “in rito”, in quanto non si era entrati nel merito della domanda, essendosi solo affermato che, in assenza dell’atto di nascita, non potevano essere affrontare questioni preliminari, quali ad esempio la preesistenza di un eventuale status di figlio legittimo, con conseguente giudicato solo formale, inidoneo a produrre, né sul piano oggettivo né sul piano soggettivo, gli effetti del giudicato sostanziale ex art. 2909 c.c. e che non precludeva, pertanto, la riproposizione della domanda in altro giudizio; h) l’ottavo motivo di appello, relativo alla erronea interpretazione del giudice di prime cure quanto all’eccezione di decadenza e non di prescrizione sollevata dall’avv. (omissis), era completamente inconsistente, non potendosi accordare rilevanza al fatto che nell’atto di nascita si legga “paternità sconosciuta” o ” (omissis)” – il medesimo cognome della madre – né al fatto che l’azione era stata già proposta e dichiarata inammissibile.

Avverso la suddetta pronuncia, notificata il 28/10/2022, l’Avv.to (omissis) propone ricorso per cassazione, notificato il 22/11/2024, affidato a dieci motivi, nei confronti di (omissis) (che resiste con controricorso).

Il ricorrente ha depositato memoria.

Motivi della decisione

1. Il ricorrente lamenta: a) con il primo motivo, la violazione o falsa applicazione delle norme di diritto – errores in iudicando – nullità assoluta della sentenza impugnata n. 3891/24 – e per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio ex art. 360 nr.3,4 e 5 c.p.c., artt. 9, secondo comma, 50 bis, 69, 70 co.2 C.p.c.., 71, 72, 158, 161 c.p.c.., 2909 C.c., in relazione agli artt. 324111 della Costituzione ed alla Legge 10.12.2012, n. 219D.Lgs. 28.12.2013, n. 154Corte Cost. 10.02.2006, n. 50Cass., Sez. 2, n. 18439 del 28.06.2023, per essere al Collegio della Corte d’Appello sfuggita la comunicazione del Procuratore Aggiunto, “scritta di Suo pugno, sulla copertina del fascicolo dell’Ufficio inviato al G.I.”, di non avere mai avuto conoscenza dell’evolversi del giudizio giunto ormai alle sue conclusioni per la decisione; b) con il secondo motivo, ex art. 360 nr. 3 c.p.c., violazione o falsa applicazione delle norme di diritto – errores in iudicando – nullità assoluta della sentenza impugnata n. 3891/24 – artt. 161166288 c.p.c., in relazione agli artt. 324111 della costituzione ed agli artt. 368595 c.p..2043, 2059, 2908 2909 cc; c) con il terzo motivo, violazione o falsa applicazione delle norme di diritto – errores in iudicando – nullità assoluta della sentenza impugnata – artt. 61112132141161191288 c.p.c., in relazione agli artt. 324111 della costituzione ed all’art. 50, nr. 1, 2, 3 del Regolamento Interno dell’Ecc.mo C.S.M., artt. 1843 bis dell’Ordinamento Giudiziario, ex art. 360, n. 3, 4 c.p.c.., in punto di incompatibilità della dr.ssa (omissis), della dr.ssa (omissis) e del Ctu dr. (omissis), del G.O.T. Avv. (omissis) nel giudizio avente RG 26410 / 2014, essendo al G.O.T. inibito dal Legislatore, ex art. 43 bis dell’O.G.; d) con il quarto motivo, la violazione ed erronea o falsa applicazione degli artt. 112, 116, 279 2co. n. 4 c.p.c.; art. 13 Cost., in relazione agli artt. 324111 della Costituzione ed agli artt. 2692697 c.c., artt. 4, 24 lettera f, 29, 90 D.Lgs. 196/2003Regolamento UE 679/2016, Autorizzazioni generali del Garante per la protezione dei dati personali n. 08/2016; L.397 del 07.12.2000artt. 2223 L. 675 / 1996, in punto di riunione di tre dei dieci motivi di ricorso; e) con il quinto motivo, violazione o falsa applicazione delle norme di diritto – errores in iudicando – nullità della sentenza impugnata n. 3891/2024 – artt. 112, 116, 244, ex art. 132, 2co., n. 4 c.p.c., 2697 cc, 194 c.p.p.. in relazione agli artt. 324111 della costituzione e dell’art. 372 c.p. – in relazione agli artt. 324111 cost. – “per essersi qualificata la Corte d’Appello di Napoli giudice di legittimità e non di merito”, ex art. 360 comma 1, n. 3 e 4 c.p.c., in punto di ammissione di tre testimoni in appello; f) con il sesto motivo, violazione o falsa applicazione delle norme di diritto – errores in iudicando – nullità della sentenza impugnata n. 3891/2024 artt. 112, 116, 125, 163 3co. n. 2, 164 1 comma, in relazione agli artt. 31424111 della Costituzione ed agli artt. 34, 132, 163, 183 6co. nn. 2-3; 269, 288C.p.c., 2697, 2908 cc. ex artt.3,4,5, in punto di carenza di legittimazione attiva della (omissis); g) con il settimo motivo, violazione e/o falsa applicazione delle norme di diritto – errores in iudicando – nullità parziale della impugnata sentenza – artt.112, 152, 153, 183 VI co. nr. 2, 3 c.p.c.. in relazione agli artt. 324111 Cost.e degli artt. 156163 n. 2 c.p.c., ex art. 360, n. 3,4,5 c.p.c., ” Sulla nullità dell’atto di nascita parte 1Serie A con possibili visibili abrasioni e/o cancellature sfuggite sia al Tribunale che alla Corte di Merito Napoletana”; h) con l’ottavo motivo, violazione e/o falsa applicazione delle norme di diritto – errores in iudicando – nullità parziale della impugnata sentenza – artt. 112, c.p.c., 244, 245, 253, 270 c.c., in relazione agli artt. 324111 della Costituzione, 2909 c.c.; i) con il nono motivo, violazione o falsa applicazione delle norme di diritto – errores in iudicando – nullità parziale della sentenza impugnata ex art. 360 nn. 3,4C.p.c. – art. 112, 183 VI co.nr.2, 3 C.p.c.; 269, 2909 C.c.; in relazione agli artt. 324111 della Costituzione e degli artt. 156324 C.p.c.; Libro I- Disposizioni Generali – Capo III – artt.61, 62, 63 e 64 che, al comma 2; l) con il decimo motivo, violazione ed erronea o falsa applicazione delle norme di diritto – ex art. 360 n. 3 c.p.c. art. 112, 183 VI co.nr.2, 3 c.p.c.; da art. 191 art. 200 C.p.c.., 269, c.c.; in relazione agli artt. 230 C.p.c.., 3, 24, 111 della Costituzione, contestando che il “presente Motivo, è dimostrato alla pari del quarto e quinto motivo, non doveva essere oggetto di riunione con tali due Motivi, per dimostrata diversità delle trattate ipotesi di Legittimità”.

2. In memoria, il ricorrente invoca l’inammissibilità del controricorso per inosservanza del D.M. Giustizia n. 110/2023, Regolamento per la definizione dei criteri di redazione, dei limiti e degli schemi informatici degli atti giudiziari con la strutturazione dei campi necessari per l’inserimento delle informazioni nei registri del processo, ai sensi dell’articolo 46 delle disposizioni per l’attuazione del codice di procedura civile, stante l’omessa numerazione dell’atto e la violazione dei margini verticali di ogni pagina.

La doglianza è del tutto infondata.

La violazione delle specifiche tecniche sulla forma e sullo schema informatico degli atti di parte, nonché dei criteri e dei limiti di redazione degli stessi, non comporta la loro invalidità, fermo restando che siffatta violazione può essere valutata dal giudice ai fini della decisione sulle spese di lite. Anche questa Corte, con una recente pronuncia (Cass., Sez. II, Ord., 16 marzo 2023, n. 7600), ha ribadito l’assenza, nel processo civile, di una specifica sanzione per la mancata sinteticità degli atti di parte. In tal senso ha chiarito che “in tema di ricorso per cassazione, il mancato rispetto del dovere di chiarezza e sinteticità espositiva degli atti processuali espone il ricorrente al rischio di una declaratoria di inammissibilità dell’impugnazione, non già per l’irragionevole estensione del ricorso (la quale non è normativamente sanzionata), ma in quanto pregiudica l’intellegibilità delle questioni, rendendo oscura l’esposizione dei fatti di causa e confuse le censure mosse alla sentenza gravata, ridondando nella violazione delle prescrizioni di cui ai nn. 3 e 4 dell’art. 366 c.p.c.” (cfr. altresì Cass., Sez. 5, Ord. n. 8009 del 2019Cass., Sez. U, Ordinanza n. 37552 del 30/11/2021Cass. civ., Sez. Unite, Ord., 30/11/2021, n. 37552Cass., Sez. 3, Sentenza n. 4300 del 13/02/2023).

Questa Corte, di recente, (Cass. n. 32405 del 13/12/2024) ha chiarito che “anche i recenti interventi normativi” si collocano sulla medesima falsariga delle disposizioni già vigenti.

Si è ricordato che, nel decreto n. 28521 del 6 novembre 2024, col quale la Prima Presidente della Corte di cassazione ha dichiarato l’inammissibilità del rinvio pregiudiziale, promosso dalla Corte d’Appello di Roma ai fini della valutazione “sulla correttezza della opzione ermeneutica che, assumendo come parametro di riferimento quello stabilito nel D.M. sopracitato (d.m. Giustizia del 7/8/2023, n. 110, “Regolamento per la definizione dei criteri di redazione, dei limiti e degli schemi informatici degli atti giudiziari con la strutturazione dei campi necessari per l’inserimento delle informazioni nei registri del processo, ai sensi dell’articolo 46 delle disposizioni per l’attuazione del codice di procedura civile” – pur non applicabile ratione temporis alla fattispecie in esame -), ritiene la violazione del canone di sinteticità sanzionabile con l’inammissibilità del ricorso”, si sia evidenziato come la giurisprudenza di legittimità in tema di requisiti di specificità degli atti difensivi (Cass. 27199 del 2017; 27199 – recte, 36481 – del 2022), invocata dal Tribunale remittente, affermi un principio del tutto contrastante con l’opzione ermeneutica sostenuta nel rinvio pregiudiziale, in quanto “l’indicazione dei punti necessari ai fini dell’ammissibilità dell’atto d’impugnazione deve essere chiara e comprensibile, ma non necessariamente contenere un progetto di decisione alternativa o formule sacramentali”, in coerenza con l’orientamento costante della giurisprudenza di legittimità, tendenzialmente conservativo della validità ed efficacia degli atti di parte, quando si possa da essi cogliere, leggendoli, il fondo delle censure e delle questioni agitate.

Peraltro, in linea con quanto stabilito nell’art. 1, comma 17, lett. e), della legge delega n. 206 del 2021, l’art. 46 disp. att. c.p.c. espressamente ha, invece, ribadito che la violazione delle specifiche tecniche sulla forma e sullo schema informatico degli atti di parte, nonché dei criteri e dei limiti di redazione degli stessi, non comporta la loro invalidità, fermo restando che siffatta violazione può essere valutata dal giudice ai fini della decisione sulle spese di lite.

Allo stato, dunque – e ciò costituisce un punto fermo dell’intero impianto della novella del 2021 -, la mancanza di sinteticità degli atti di parte, come pure la lamentata mancata numerazione delle pagine o il mancato rispetto dei limiti dei margini verticali, nel controricorso, non è specificamente sanzionata, nel processo civile, sotto il profilo della validità e/o della inammissibilità degli atti.

3. La prima censura è in parte infondata, in parte inammissibile.

La Corte territoriale ha affermato che era stata assicurata la corretta partecipazione del Pubblico Ministero al giudizio dinanzi al Tribunale nel rispetto degli artt. 70 e 71 c.p.c. , avendo il P.M., nella persona della Dott.ssa (omissis), rassegnato le proprie conclusioni, chiedendo l’accoglimento della domanda e dando prova di aver preso piena conoscenza degli atti processuali (“sono richiamate le dichiarazioni rese dai testi escussi oltreché il manifestato rifiuto del (omissis) di sottoporsi al test del DNA, circostanze che non le sarebbero state note se non avesse avuto disponibilità degli stessi”), mentre alcuna validità poteva ricondursi alle conclusioni, di segno opposto, rese dal P.M. nel primo giudizio (avviato nel 2014), la cui domanda era stata dichiarata inammissibile, in quanto, per il mancato deposito del fascicolo di parte attrice, non risultava da alcun atto la filiazione naturale, perciò non accertabile quale requisito di ammissibilità dell’azione ai sensi dell’art 253 c.c., poiché tali conclusioni erano espressamente riferite a quel giudizio e comunque non vincolanti ai fini della decisione.

Tale motivazione risulta del tutto corretta e congrua, anche considerato che, in relazione alla partecipazione del PM nei procedimenti civili, è ritenuta sufficiente una pura e semplice comunicazione al pubblico ministero dell’esistenza del processo in modo da metterlo in condizioni di intervenire, con conseguente irrilevanza del fatto che poi detto intervento non sia avvenuta e non siano state rassegnate neppure le conclusioni (Cass. civ., 2 ottobre 2013, n. 22567Cass. civ., 24 maggio 2005, n. 10894).

Nelle azioni tipiche di stato trova applicazione l’art. 70 c.p.c., comma 1, n. 3, che attribuisce all’organo in questione la qualità di parte necessaria nelle cause riguardanti lo stato e la capacità delle persone, prescrivendone l’intervento a pena di nullità rilevabile d’ufficio. Potere di intervento, non potere di azione o di impugnazione in quanto, in tema di controversie di stato, l’iniziativa spetta ai soli soggetti privati che abbiano un interesse individuale qualificato (concreto, attuale e legittimo) sul piano del diritto sostanziale, di carattere patrimoniale o morale, all’essere o al non essere dello status, del rapporto o dell’atto dedotto in giudizio, e concludendo quindi che, in mancanza di una deroga esplicita, trova applicazione la regola generale prevista dall’art. 70 c.p.p., comma 1, n. 3 (cfr. Cass. n. 2515 del 1994 e Cass. n. 4201 del 1989, entrambe richiamate, in motivazione, dalla più recente Cass., SU, n. 12193 del 2019Cass. n. 3252 del 2022).

Nella specie, peraltro, il PM ha rassegnato le proprie conclusioni, chiedendo l’accoglimento della domanda e dando prova di aver preso piena conoscenza degli atti processuali.

Inammissibili le ulteriori doglianze, concernenti questioni di fatto e non di diritto.

4. Il secondo motivo è del tutto inammissibile in quanto, al di là della mera elencazione di norme e principi, non risultano specificati i vizi posti in essere dalla Corte di Appello, che ha ritenuto ormai superati, attraverso la correzione dell’errore materiale, e non concretizzati, i paventati rischi del ricorrente.

La Corte d’Appello ha infatti osservato che, in ordine all’asserito mutamento arbitrario del domicilio eletto dal convenuto, si era già provveduto con correzione di errore materiale da parte del Tribunale, nel provvedimento del 14/12/2022, e che comunque il paventato rischio dell’erronea notifica della sentenza e dell’eventuale tardività dell’atto di appello proposto non si era concretizzato, “essendo ad oggi la sentenza comunicata dalla Cancelleria presso il domicilio telematico indicato a mezzo pec”.

5. Il terzo motivo, con il quale si censura la sentenza impugnata laddove la Corte territoriale, oltre ad asserire una solo “pretesa incompatibilità” con la dottoressa (omissis), Giudice del primo giudizio, avrebbe “glissato” sulle questioni poste in relazione alla composizione del Collegio giudicante, del quale avrebbe fatto parte la Dott.ssa (omissis), componente dell'”altro giudizio”, definito in rito, è infondato.

La Corte d’Appello ha rilevato che le riferite incompatibilità della Dott.ssa (omissis), della Dott.ssa (omissis) e del CTU, discusse con il terzo motivo di appello, non potevano ritenersi vizi deducibili in sede di impugnazione come motivi di nullità della sentenza, dovendo farsi valere solo con apposita istanza di ricusazione nello specifico grado di giudizio.

Anche a volere estendere l’ambito di obbligo di astensione del Giudice si verserebbe in una delle ipotesi di cui all’art. 51 c.p.c. e, pur se così fosse, tale circostanza non può costituire motivo di nullità della sentenza, ma solo motivo di ricusazione ai sensi dell’art. 52 c.p.c.

L’omesso esercizio del potere di ricusazione del giudice, entro i termini previsti, preclude alla parte di far valere, in sede di impugnazione, la nullità della sentenza pronunciata dal giudice che abbia violato l’obbligo di astensione.

In Cass. n. 27924/2018 si è ribadito che “non è deducibile come motivo di nullità di una sentenza d’appello la circostanza che uno dei componenti del collegio che l’ha pronunciata avesse in precedenza conosciuto dei medesimi fatti in sede di reclamo contro l’ordinanza di rigetto della richiesta di provvedimento d’urgenza “ante causam”, poiché l’avere conosciuto della stessa causa in un altro grado deve essere ritualmente fatto valere come motivo di ricusazione del giudice, a norma degli artt. 51, comma 1, n. 4, e 52 c.p.c. e, d’altra parte, l’avere trattato della controversia in sede di procedimento cautelare “ante causam” neanche costituisce, secondo la giurisprudenza costituzionale (sentenza n. 326/1997 e ordinanza n. 193/1998), un’ipotesi sufficientemente assimilabile, sotto il profilo dell’incompatibilità, alla trattazione della causa in un altro grado di giudizio”.

Se il ricorrente avesse inteso esporre rimostranze sulla composizione del collegio, ciò andava fatto nelle opportune sedi e non certo in appello.

Anche infondata è la doglianza circa la nomina dello stesso consulente tecnico del precedente giudizio, di per sé non costituente motivo di nullità della sentenza.

Al sottoparagrafo C) del medesimo motivo di gravame, l’appellante lamentava la nullità della sentenza di primo grado in virtù del fatto che il Giudice dott.ssa (omissis) aveva sottoscritto la sentenza impugnata quale Presidente del Collegio, mentre, in base all’organigramma della Sezione, il Presidente di Sezione era altro magistrato.

La Corte territoriale ha correttamente rilevato che ” l’organigramma della Sezione è cosa ben diversa dalla composizione dei Collegi decidenti, che possono legittimamente costituirsi anche senza la presenza del Presidente di Sezione”. La sentenza rispettava quindi i requisiti di sottoscrizione di cui all’art. 132 c.p.c. (sottoscrizione del Giudice estensore e del Presidente del Collegio), essendo ben chiara la sottoscrizione della Dott.ssa (omissis) quale Presidente del collegio, non comprendendosi il rilievo della mancata sottoscrizione di altro magistrato, il quale non era effettivo presidente del collegio, bensì Presidente di sezione.

6. Il quarto motivo, con il quale si censura la decisione della Corte di appello per avere ritenuto conforme al dettato normativo e giurisprudenziale il valore probatorio-indiziario conferito al rifiuto di sottoporsi all’indagine ematologica, è inammissibile ex art. 360 bis n. 1 c.p.c., avendo la decisione impugnata provveduto secondo principi di diritto consolidati di questo giudice di legittimità

Vero che la parte ha facoltà di sottrarsi ai prelievi ematologici necessari, ma il relativo rifiuto può essere valutato dal giudice come elemento di convincimento (Cass. n. 6025/2015Cass. nn. 16128 e 28886/2019 ha ritenuto il rifiuto del preteso padre di sottoporsi ad indagini ematologiche un comportamento valutabile dal giudice, ex art. 116 c.p.c., di così elevato valore indiziario da potere da solo fondare la domanda; Cass.n. 4221/2021CC nn. 6929 e 11299/2023).

È stata inoltre ritenuta manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 269, c. 2, c.c., in riferimento all’art. 32 Cost., nella parte in cui consente che dal rifiuto del consenso ai prelievi ematici possano trarsi argomenti di prova contrari alla parte (Cass. n. 4221/2021). Già in Cass. 14458/2018 si era affermato che “è manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale – per violazione degli artt. 13152430 e 32 Cost. – del combinato disposto dell’art. 269 c.c. e artt. 116 e 118 c.p.c., ove interpretato nel senso della possibilità di dedurre argomenti di prova dal rifiuto del preteso padre di sottoporsi a prelievi ematici al fine dell’espletamento dell’esame del DNA. Invero, dall’art. 269 c.c. non deriva una restrizione della libertà personale, avendo il soggetto piena facoltà di determinazione in merito all’assoggettamento o meno ai prelievi, mentre il trarre argomenti di prova dai comportamenti della parte costituisce applicazione del principio della libera valutazione della prova da parte del giudice, senza che ne resti pregiudicato il diritto di difesa, e, inoltre, il rifiuto aprioristico della parte di sottoporsi ai prelievi non può ritenersi giustificato nemmeno con esigenze di tutela della riservatezza, tenuto conto sia del fatto che l’uso dei dati nell’ambito del giudizio non può che essere rivolto a fini di giustizia, sia del fatto che il sanitario chiamato dal giudice a compiere l’accertamento è tenuto tanto al segreto professionale che al rispetto della L. 31 dicembre 1996, n. 675“.

Il riferimento a Cass. n. 21014 del 2013, avente ad oggetto richiesta al Garante Privacy in tema di trattamento di dati genetici senza consenso, non è conferente. Anche in tale sentenza, con riferimento ad una controversia riguardante il trattamento di dati genetici, ottenuti mediante prelievo di mozziconi di sigaretta da parte di una agenzia investigativa e sottoposti, senza il consenso del titolare, al prelievo di campioni biologici ed accertamento del DNA, questa Corte, dopo avere affermato che ” È illecito il prelievo e l’eventuale trattamento di dati genetici altrui, per finalità non sanitarie, ma predittive in ordine ad un’azione di disconoscimento della paternità, mediante l’accertamento preventivo della consanguineità tra le parti interessate, qualora sia avvenuto senza il consenso dell’interessato, e senza l’autorizzazione del garante della privacy”, ha ribadito che “Nell’azione di disconoscimento di paternità rivolta verso S.M.P. l’indagine sul DNA poteva essere espletata nel corso del Giudizio. L’eventuale rifiuto ingiustificato dell’interessato a sottoporvisi avrebbe costituito un comportamento processuale d’indubbio rilievo probatorio, valutabile ex art. 116 cod. proc. civ.”.

Anzi, il rifiuto aprioristico della parte di sottoporsi ad esami ematologici non può neppure ritenersi giustificato con il mero richiamo a possibili violazioni del D.Lgs. n. 196/2003, sulla tutela della riservatezza, tenuto conto sia del fatto che l’uso dei dati nell’ambito del giudizio non può che essere rivolto a fini di giustizia sia del fatto che il sanitario, chiamato da giudice, è tenuto tanto al segreto professionale che al rispetto della legge anzidetta (Cass. n. 14458/2018).

7. Il quinto motivo, in punto di illegittima violazione di alcune disposizioni da parte della Corte di Appello, che si sarebbe “arrogata” il diritto di decidere quale giudice di legittimità e non di merito, è inammissibile per difetto di specificità.

La Corte d’Appello, in ordine all’illegittima escussione dei testimoni e alla non validità probatoria delle dichiarazioni rese dagli stessi, ha osservato che il (omissis) non aveva mosso precise censure o indicato rilevanti incongruenze tra le stesse e che il primo giudice aveva, del resto, adeguatamente motivato in sentenza sia sull’indifferenza dei testi ai fatti di causa sia sull’attendibilità delle dichiarazioni rese non era tenuto ad acquisire le dichiarazioni dei testi nella forma dell’esame incrociato, come pure il (omissis) avrebbe voluto, essendo quest’ultimo un aspetto caratteristico del procedimento penale e non di quello civile.

Senza alcuna confutazione in ordine al suddetto capo di decisione, il ricorrente ritiene illegittima la valutazione delle risultanze probatorie da parte del giudice di merito.

8. Il sesto motivo censura il rigetto del sesto motivo di appello ed è inammissibile.

La Corte territoriale, quanto alla carenza di legittimazione attiva della (omissis) e alla asserite falsità delle generalità rese, ha ritenuto il motivo infondato, “essendo di tutta evidenza che la stessa è nata a (omissis) e non a (omissis) – come asserito dall’appellante – tenuto conto dell’attenta lettura dell’atto di nascita oltreché del codice fiscale con cui la stessa è registrata”, mentre, quanto all’indirizzo di residenza, ha rilevato che “la Via (omissis) si trova tanto in (omissis) quanto a (omissis) e che non vi è ragione alcuna per dubitare del fatto che l’indirizzo di residenza fornito dalla (omissis) sia quello corretto, considerato anche che a radicare la competenza del giudice adito nei giudizi di riconoscimento della paternità non è la residenza della parte attrice, ma prevale il cd. foro del convenuto ex art. 18 c.p.c.”.

9. Il settimo motivo è del pari inammissibile.

L’eccezione di tardività della produzione della copia conforme all’originale dell’atto di nascita da parte della (omissis) è stata ritenuta infondata, in quanto essa è stata necessitata dalle contestazioni mosse dal difensore del (omissis) alla copia fotostatica tempestivamente depositata e il deposito dell’atto, nella forma della copia conforme, è stato necessario per dare prova della veridicità dell’atto, in copia semplice, tempestivamente depositato.

Il ricorrente non si confronta con tale complessivo ragionamento.

Nè è dato comprendere se il ricorrente si dolga della mancata adesione al motivo di gravame afferente una presunta tardività nella produzione dell’atto di nascita o alla deduzione di un atto manomesso in quanto contenente abrasioni o altro.

10. L’ottavo motivo è inammissibile.

Il ricorrente sostiene che “poiché la (omissis) aveva dichiarato essere figlia di paternità “sconosciuta””, la stessa avrebbe dovuto, prima di iniziare il primo giudizio nel 2014, “proporre azione di disconoscimento della paternità sconosciuta dichiarata nel primo atto di citazione” perché la paternità le era stata resa nota “dalla madre (omissis) nel 2014 ancora vivente”.

Ma la Corte d’Appello ha ritenuto l’ottavo motivo di appello inconsistente, “non potendosi accordare rilevanza al fatto che nell’atto di nascita si legga “paternità sconosciuta” o ” (omissis)” – il medesimo cognome della madre – né al fatto che, l’azione era stata già proposta e dichiarata inammissibile”.

In effetti, la sussistenza di uno stato di figlio di padre sconosciuto non è sussumibile nell’ipotesi di figlio riconosciuto tale da legittimare l’azione di disconoscimento della paternità.

11. Il nono motivo con il quale il ricorrente si duole del mancato accoglimento dell’asserita eccezione di violazione del principio del ne bis in idem, stante il passaggio in giudicato sostanziale della sentenza n. 1502/18, è inammissibile.

La Corte d’Appello ha chiarito che la sentenza del 2018 del Tribunale di Napoli aveva dichiarato inammissibile la domanda di accertamento della paternità avanzata dalla (omissis) per il mancato deposito del fascicolo di parte attrice e dell’atto di nascita della stessa, senza quindi entrare nel merito o accertare l’insussistenza del diritto della odierna appellata a vedersi riconosciuta come figlia dal (omissis), essendosi il Tribunale limitato ad affermare che, in assenza dell’atto di nascita, non potevano essere affrontare questioni preliminari, quali ad esempio la preesistenza di un eventuale status di figlio legittimo.

Quindi, la pronuncia di inammissibilità di cui alla sentenza n. 1502/2018 del Tribunale di Napoli doveva intendersi come pronuncia in rito che, secondo la giurisprudenza di legittimità consolidata e più recente, dà luogo ad un giudicato meramente formale, con effetti circoscritti al solo rapporto processuale nel cui ambito è emanata, talché non è idonea a produrre, né sul piano oggettivo né sul piano soggettivo, gli effetti del giudicato sostanziale ex art. 2909 c.c. e non preclude, pertanto, la riproposizione della domanda in altro giudizio (ex multis Cass. Sez. 3, Ordinanza n. 20636 del 24/07/2024).

In effetti, secondo il consolidato orientamento di questa Corte, la pronuncia di inammissibilità, quale decisione di mero rito, dà luogo ad un giudicato meramente formale, con effetti circoscritti al solo rapporto processuale nel cui ambito è emanata, talché non è idonea a produrre, né sul piano oggettivo né sul piano soggettivo, gli effetti del giudicato sostanziale ex art. 2909 cod. civ. e non preclude pertanto la riproposizione della domanda in altro giudizio (ex multis, Cass., Sez. 3, 16/12/2014, n. 26377Cass, Sez. lav., 16/04/2019, n. 10641Cass., Sez. 1, 22/10/2020, n. 23130Cass., Sez. 3, 19/05/2021, n. 13603Cass., Sez. Un. , 17/11/2021, n. 35110).

Pertanto, nel presente giudizio, sia il Tribunale (in primo grado) che la Corte d’Appello (in secondo grado), investiti nuovamente della cognizione su tale domanda, ove non avessero ritenuto sussistere ulteriori ragioni di rito ostative alla delibazione del merito, avevano il potere-dovere di procedere a tale delibazione, accogliendo o rigettando la domanda medesima, ma non potevano considerarne precluso l’esame sulla base di una non richiesta (e non consentita) interpretazione estensiva del dictum della sentenza emessa nel giudizio precedente e passata in giudicato ma con giudicato meramente formale e non sostanziale.

Nella specie, la domanda di dichiarazione giudiziale di paternità, nel 2018, era stata dichiarata inammissibile solo a causa del mancato deposito del fascicolo di parte attrice e dell’atto di nascita della stessa attrice (omissis).

Si trattava di una sentenza di contenuto processuale, che non era entrata nel merito della fondatezza della domanda, tale da non consumare l’azione, e così da consentire all’originaria attrice di promuovere un nuovo giudizio uguale al precedente, avuto riguardo agli elementi di identificazione della domanda.

12. Il decimo motivo è inammissibile.

In sede di gravame – precisamente con il decimo motivo – il (omissis) si doleva della circostanza che il Giudice istruttore in primo grado avesse mal interpretato i motivi del diniego a sottoporsi al test del DNA, poiché egli aveva motivato “in un fiume di pagine” i veri motivi (afferenti alla legge europea n. 679/2016), laddove invece il Giudice aveva preso atto della sola “giustificazione” secondo cui il convenuto riponesse poca fiducia in alcuni CTU, avendo egli avuto – in prima persona – esperienze negative con taluni appartenenti alla categoria.

Il ricorrente lamenta che tal motivo non doveva essere oggetto di riunione con altri due motivi (quarto e quinto), “per dimostrata diversità delle trattate ipotesi di Legittimità”, in quanto anche tale motivo aveva “una sua autonomia giuridica che involge oltre che un aspetto specifico dell’Istituto giuridico in capo all’Ausiliario del Magistrato”.

Ma la Corte territoriale ha ben motivato le ragioni della trattazione unitaria di motivi, stante, in ogni caso, “l’irrilevanza delle ragioni che avrebbero indotto il (omissis) al rifiuto di sottoporsi ai test genetici e all’erronea interpretazione che dello stesso avrebbe fatto il giudice di prime cure, poiché non è della legittimità del rifiuto o dei motivi ad esso legati che si discute, ma del valore probatorio che secondo la giurisprudenza di legittimità, ormai costante, va ad esso attribuito”.

E tale ratio decidendi non è neppure attinta dal motivo.

13. Per tutto quanto sopra esposto, va respinto il ricorso.

Le spese, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.

In caso di diffusione, devono essere omesse le generalità delle parti e dei soggetti menzionati nella decisione, a norma dell’art. 52 D.Lgs. n. 196 del 2003.

P.Q.M.

La Corte respinge il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità che liquida in Euro 4.000,00 per compensi e Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali, nella misura del 15% dei compensi, ed accessori di legge.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del D.P.R. 30.5.2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, L. 24 dicembre 2012, n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.

Dispone che, in caso di diffusione della presente decisione, siano omesse le generalità delle parti e dei soggetti menzionati, a norma dell’art. 52 D.Lgs. n. 196 del 2003.

Così deciso, a Roma, nella camera di consiglio dell’11 settembre 2025.

Depositato in Cancelleria il 15 ottobre 2025.

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