2. La Corte d’appello di Torino, a seguito dell’impugnazione presentata da (omissis), osservava – fra l’altro e per quanto qui di interesse – che le norme che affermano l’unicità dello stato di figlio, ovvero la perfetta uguaglianza fra i figli nati nel matrimonio e quelli nati fuori da esso, sono di applicazione necessaria, ai sensi della L. n. 218 del 1995, art. 33, comma 4, cosicché doveva trovare applicazione la normativa italiana in merito al riconoscimento giudiziale di paternità, in ragione del fatto che tale domanda non era indifferentemente esperibile secondo le regole dell’ordinamento nazionale del minore con riferimento a figli nati all’interno del matrimonio o al di fuori di esso.
Riteneva di non condividere la decisione del primo giudice laddove aveva rilevato che non era stata raggiunta la prova dello stato libero dell’attrice, alla luce della documentazione in atti relativa a due statuizioni assunte dall’autorità giudiziaria del (omissis); aggiungeva, peraltro, che la parte istante non aveva l’onere di provare la propria libertà di stato, atteso che nell’atto integrale di nascita della minore la madre aveva dato atto che la bambina era nata fuori dal matrimonio.
Reputava raggiunta la piena prova della paternità di (omissis) rispetto alla minore (omissis), considerato che l’appellato non si era presentato al C.T.U. per effettuare i prelievi biologici funzionali all’espletamento della consulenza immunogenetica che era stata disposta; rilevava, inoltre, che tale argomento di prova era suffragato da ulteriori elementi istruttori nonché da dichiarazioni dello stesso appellato che potevano assumere valenza confessoria. Dichiarava, pertanto, in riforma della decisione appellata, che (omissis) è il padre della minore (omissis), condannava il medesimo a contribuire al mantenimento della figlia versando alla madre la somma di Euro 500 mensili, oltre al rimborso pro quota delle pregresse spese di mantenimento della minore, nella misura di Euro 200 mensili.
Condannava, infine, l’appellato, ai sensi dell’art. 96 c.p.c., comma 3, al pagamento a favore della controparte della somma di Euro 2.000.
3. (omissis) ha proposto ricorso per la cassazione di questa sentenza, pubblicata in data 5 dicembre 2022, prospettando cinque motivi di doglianza, ai quali hanno resistito con controricorso (omissis)e l’Avv. (omissis), in qualità di curatore speciale della minore (omissis).
La difesa di (omissis) ha depositato memoria ai sensi dell’art. 380-bis.1 c.p.c..
Diritto
CONSIDERATO
che:
4. Il primo motivo di ricorso, sotto la rubrica “nullità ex art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 1, 2 e 3 per violazione o falsa applicazione della L. n. 218 del 1995, art. 33 come modificato e sostituito dal D.Lgs. 28 dicembre 2013, n. 154, art. 101, comma 1, lett. A)”, assume che la decisione impugnata individui erroneamente la normativa applicabile alla minore in quella italiana: poiché la minore era cittadina marocchina, al pari dei genitori, la domanda di riconoscimento giudiziale di paternità della figlia nata fuori dal matrimonio rimaneva regolata, ai sensi della L. n. 218 del 1995, art. 33, comma 2, dalla normativa del Regno del (omissis), che prevede la possibilità di un simile riconoscimento.
Ne’ era possibile fare ricorso al disposto della L. n. 218 del 1995, art. 33, comma 4, il quale sarebbe applicabile – in tesi di parte ricorrente – in via residuale solo dopo che, secondo le norme nazionali di riferimento, sia stata accertata la paternità.
5. Il motivo non è fondato.
La Corte d’appello, dopo aver registrato la tesi difensiva dell’appellato, secondo cui non era possibile dare ingresso al riconoscimento giudiziale della paternità in quanto la filiazione fuori dal matrimonio non era ammissibile secondo il diritto del Regno del (omissis), ha conseguentemente ritenuto che la normativa italiana che afferma l’unicità dello stato di figlio, “ovvero la perfetta uguaglianza fra i figli nati nel matrimonio e quelli fuori di esso” (pag. 12 della sentenza impugnata), fosse di applicazione necessaria nel caso di specie, a mente della L. n. 218 del 1995, art. 33.
Lo stesso motivo in esame, pur sostenendo in questa sede una tesi del tutto opposta (e cioè che il diritto (omissis) “prevede la possibilità di riconoscimento del figlio nato fuori dal matrimonio”; pag. 15 del ricorso), finisce per riconoscere la fondatezza del rilievo fatto dalla Corte distrettuale a giustificazione dell’applicazione della legge italiana, dato che specifica come il riconoscimento del figlio nato dal matrimonio possa avvenire, secondo la normativa nazionale che chiede di applicare, “come atto volontario potestativo” del padre e non a seguito di un’azione intentata dalla madre a cui il padre si è opposto.
Inoltre, il disposto della L. n. 218 del 2015, art. 33, comma 4, (secondo cui “sono di applicazione necessaria le norme del diritto italiano che sanciscono l’unicità dello stato di figlio”) non è affatto di applicazione residuale, come si evince dal tenore letterale della norma, ma anzi deve essere necessariamente applicato e prevale sulla rimanente disciplina stabilita dalla norma ogni qual volta tali regole portino a individuare come applicabili norme nazionali che prevedano distinzioni nello stato di figlio.
6. Il secondo motivo di ricorso, sotto la rubrica “nullità ex art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3, 4 e 5 per violazione o falsa applicazione delle norme di diritto sostanziale ex art. 269 c.c. in relazione agli artt. 250, 253 e 231 c.c., oltre che per violazione o falsa applicazione delle norme processuali di cui art. 235 e 248 c.c.”, sostiene che la Corte territoriale abbia erroneamente ritenuto che la mancata annotazione nei registri dello stato civile del divorzio asseritamente ottenuto dall’appellante non fosse di ostacolo alla dichiarazione giudiziale di paternità; al contrario, l’assenza di questa annotazione non consentiva di ritenere lo stato libero di (omissis) e imponeva, di conseguenza, l’applicazione della presunzione di cui all’art. 231 c.c..
7. Il motivo è inammissibile.
7.1 Il motivo contiene la contemporanea deduzione di violazioni di disposizioni di legge sostanziale e processuale e, nel contempo, lamenta un’erronea valutazione dei fatti di causa, facendo riferimento a differenti canoni di doglianza fra quelli previsti dall’art. 360 c.p.c., comma 1.
Ora, secondo la giurisprudenza di questa Corte in tema di ricorso per cassazione, è inammissibile la mescolanza e la sovrapposizione di mezzi d’impugnazione eterogenei, facenti riferimento alle diverse ipotesi contemplate dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 e n. 5, non essendo consentita la prospettazione di una medesima questione sotto profili incompatibili, quali quello della violazione di norme di diritto, che suppone accertati gli elementi del fatto in relazione al quale si deve decidere della violazione o falsa applicazione della norma, e del vizio di motivazione, che quegli elementi di fatto intende precisamente rimettere in discussione; infatti, l’esposizione diretta e cumulativa delle questioni concernenti l’apprezzamento delle risultanze acquisite al processo e il merito della causa mira a rimettere al giudice di legittimità il compito di isolare le singole censure teoricamente proponibili, onde ricondurle a uno dei mezzi d’impugnazione enunciati dall’art. 360 c.p.c., per poi ricercare quale o quali disposizioni sarebbero utilizzabili allo scopo, così attribuendo, inammissibilmente, al giudice di legittimità il compito di dare forma e contenuto giuridici alle lagnanze del ricorrente, al fine di decidere successivamente su di esse (Cass. 26874/2018, Cass. 19443/2011).
La sovrapposizione di censure di diritto, sostanziali e processuali, e vizi motivazionali non consente a questa Corte di cogliere con certezza il contenuto delle singole doglianze prospettate, dando luogo a un’impossibile convivenza, in seno al medesimo motivo di ricorso, di critiche caratterizzate da irredimibile eterogeneità.
7.2 Peraltro, la Corte di merito, dopo aver ricordato che il tribunale aveva rigettato la domanda non reputando raggiunta la prova dello stato libero dell’attrice, ha ritenuto di non condividere in fatto tale decisione, giacché (omissis) aveva prodotto un primo atto di divorzio pronunciato dal Tribunale di (omissis) il (omissis) e un atto di divorzio giudiziario prima della consumazione pronunciato dalla Corte d’appello della stessa città in data (omissis).
Inoltre, reputava dirimente osservare che l’appellante non aveva l’onere di provare la propria libertà di stato, posto che nell’atto integrale di nascita della minore la madre aveva dichiarato che la bambina era nata fuori dal matrimonio.
La decisione impugnata si fonda, perciò, su un doppio ordine di ragioni, tra loro distinte ed autonome (l’una tesa a rivedere in fatto gli accertamenti del primo giudice, l’altra volta a contestare la rilevanza, in diritto, delle contestazioni dell’appellato), ciascuna delle quali è logicamente e giuridicamente sufficiente a sorreggerla.
La mancata contestazione della prima argomentazione rende inammissibile la censura in esame.
Infatti, ove una sentenza sia sorretta da una pluralità di ragioni, distinte ed autonome, ciascuna delle quali giuridicamente e logicamente sufficiente a giustificare la decisione adottata, l’omessa impugnazione di una di esse rende inammissibile, per difetto di interesse, la censura relativa alle altre, la quale, essendo divenuta definitiva l’autonoma motivazione non impugnata, in nessun caso potrebbe produrre l’annullamento della sentenza (cfr., per tutte, Cass. 9752/2017).
8. Il terzo motivo, sotto la rubrica “nullità ex art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3, 4 e 5 per violazione o falsa applicazione della L. n. 218 del 1995, art. 33 come modificato e sostituito dal D.Lgs. 28 dicembre 2013, n. 154, art. 101, comma 1, lett. A) in combinato disposto all’art. 116 c.p.c. oltre che per violazione o falsa applicazione dell’art. 2697 e 2712 c.c.”, assume che la Corte territoriale avrebbe dovuto procedere applicando la normativa nazionale del ricorrente rispetto al suo diritto di sottoporsi o meno all’indagine genetica; l’appellato, peraltro, non si era mai sottratto a tale indagine, essendosi limitato a sostenere che preventivamente dovevano essere provati i presupposti della stessa e la relazione intervenuta fra le parti, stante la sua ferma contestazione delle allegazioni avversarie.
La Corte distrettuale, quindi, avrebbe erroneamente applicato l’art. 116 c.p.c. sulla base del falso presupposto del rifiuto del S. di sottoporsi a una indagine genetica.
Oltre a ciò, i giudici distrettuali avrebbero fatto conseguire la prova della paternità valorizzando le produzioni avverse in violazione dell’art. 2712 c.c., senza tener conto del formale disconoscimento compiuto delle foto e dei messaggi prodotti.
9. Il motivo è inammissibile, anche ai sensi dell’art. 360-bis c.p.c., n. 1).
9.1 Gli argomenti illustrati al punto 7.1 valgono a rilevare l’inammissibilità anche del mezzo in esame, che è stato formulato negli stessi termini del precedente.
9.2 La Corte distrettuale ha ritenuto che il rifiuto dell’appellato di sottoporsi all’indagine immunogenetica fosse giustificato da ragioni meramente pretestuose e dilatorie ed assumesse, ai sensi dell’art. 116 c.p.c., comma 2, un valore indiziario così elevato da consentire, esso solo, di ritenere fondata la domanda.
Ha aggiunto che tale argomento di prova era comunque suffragato da ulteriori elementi istruttori.
9.3 Fatto richiamo a quanto detto in precedenza in ordine all’applicazione della normativa italiana alla fattispecie in esame, occorre ricordare come la fondatezza della tesi secondo cui è necessario verificare, prima di procedere all’accertamento tecnico, la reale natura del legame intervenuto fra le parti sia stata smentita, da tempo, dalla costante giurisprudenza di questa Corte, che ha chiarito come nei giudizi volti alla dichiarazione giudiziale di paternità naturale l’ammissione degli accertamenti immuno-ematologici non è subordinata all’esito della prova storica dell’esistenza di un rapporto sessuale tra il presunto padre e la madre; infatti, il principio della libertà di prova, sancito, in materia, dall’art. 269 c.c., comma 2, non tollera surrettizie limitazioni, né mediante la fissazione di una gerarchia assiologica tra i mezzi istruttori idonei a dimostrare quella paternità, né, conseguentemente, mediante l’imposizione, al giudice, di una sorta di “ordine cronologico” nella loro ammissione ed assunzione, avendo, per converso, tutti i mezzi di prova pari valore per espressa disposizione di legge e risolvendosi una diversa interpretazione in un sostanziale impedimento all’esercizio del diritto di azione in relazione alla tutela di diritti fondamentali attinenti allo status (si vedano in questo senso, per tutte, Cass. 14976/2007, Cass. 19583/2013, Cass. 3479/2016, Cass. 16128/2019).
Va dunque escluso che nei suddetti giudizi sia necessario fornire alcuna prova o principio di prova in ordine all’esistenza di una relazione tra la madre ed il presunto padre antecedentemente all’ammissione della C.T.U. avente ad oggetto l’esame del DNA.
Ne discende che una simile pretesa probatoria, essendo del tutto infondata, non poteva giustificare il rifiuto dell’odierno ricorrente di sottoporsi alle indagini ematologiche disposte dal primo giudice, come giustamente ha rilevato la Corte distrettuale; la sentenza impugnata, perciò, ha fatto corretta applicazione dell’orientamento consolidato di questa Corte (Cass. 7092/2022, Cass. 3479/2016, Cass. 6025/2015, Cass. 12971/2014, Cass. 11223/2014) secondo cui il rifiuto ingiustificato di sottoporsi agli esami ematologici costituisce un comportamento valutabile da parte del giudice ai sensi dell’art. 116 c.p.c., anche in assenza di prove di rapporti sessuali tra le parti, in quanto è proprio la mancanza di riscontri oggettivi certi e difficilmente acquisibili circa la natura dei rapporti intercorsi e circa l’effettivo concepimento a determinare l’esigenza di desumere argomenti di prova dal comportamento processuale dei soggetti coinvolti.
Per questo motivo è possibile trarre la dimostrazione della fondatezza della domanda anche soltanto dal rifiuto ingiustificato a sottoporsi all’esame ematologico del presunto padre, posto in opportuna correlazione con le dichiarazioni della madre, e il rifiuto di sottoporsi ad indagini ematologiche costituisce un comportamento valutabile da parte del giudice, ex art. 116 c.p.c., comma 2, di così elevato valore indiziario da poter anche da solo consentire la dimostrazione della fondatezza della domanda (Cass. 18626/2017, Cass. 26914/2017, Cass. 28886/2019).
9.4 Il (corretto) rilievo da parte della Corte distrettuale del fatto che il rifiuto dell’appellato avesse valore indiziario tale da consentire, esso solo, di ritenere fondata la domanda comporta l’inammissibilità delle critiche rivolte alle ulteriori argomentazioni offerte dai giudici distrettuali a suffragio della loro decisione, per difetto di interesse.
Infatti, in presenza di una pluralità di ragioni, tra loro distinte e autonome, singolarmente idonee a sorreggere la decisione sul piano logico e giuridico, la ritenuta infondatezza delle censure mosse ad una delle rationes decidendi rende inammissibili, per sopravvenuto difetto di interesse, le censure relative alle altre ragioni esplicitamente fatte oggetto di doglianza, in quanto queste ultime non potrebbero comunque condurre, stante l’intervenuta definitività delle altre, alla cassazione della decisione stessa (Cass. 11493/2018, Cass. 2108/2012).
10. Il quarto motivo di ricorso, sotto la rubrica “nullità ex art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3, 4 e 5 per violazione o falsa applicazione dell’art. 316 bis e 2697 c.c.”, assume che la Corte territoriale abbia erroneamente determinato l’importo dell’assegno di mantenimento per la minore (nella misura mensile di Euro 500 dalla domanda e di Euro 200 rispetto al regresso) valorizzando in maniera arbitraria, in assenza di documentazione reddituale e senza che la controparte avesse assolto l’onere probatorio che su di lei incombeva, circostanze che non costituivano indici di ricchezza, quali lo svolgimento di un’attività imprenditoriale ed il fatto che l’appellato avesse a proprio carico una moglie e un altro figlio.
11. Il motivo è inammissibile.
11.1 Gli argomenti illustrati al punto 7.1 valgono a rilevare l’inammissibilità anche del mezzo in esame, che è stato formulato negli stessi termini del precedente.
11.2 D’altro canto, la Corte d’appello, una volta constatato che ambedue i genitori non avevano ottemperato all’ordine di produrre le rispettive dichiarazioni dei redditi degli ultimi tre anni, ha ritenuto che la somma richiesta dalla madre fosse conforme alle esigenze della minore, tenuto conto della condotta processuale delle parti, dello svolgimento da parte del (omissis) di un’attività di impresa e delle circostanze allegate dalla (omissis) (condizione di disoccupazione ed avvenuta ammissione al gratuito patrocinio).
In questo modo i giudici distrettuali, nella preoccupazione di determinare l’obbligo di mantenimento della bambina in proporzione alle rispettive sostanze dei genitori, come previsto dall’art. 316-bis c.c., hanno tratto argomenti di prova dal contegno tenuto dalle parti nel processo, ai sensi dell’art. 116 c.p.c., comma 2, valorizzando, nel contempo, le rispettive indicazioni sulle proprie condizioni di occupazione.
Ora, rientra nelle facoltà rimesse al potere del giudice di merito anche quella di desumere argomenti di prova dal comportamento processuale delle parti e una simile valutazione, essendo rimessa alla prudenza del giudicante, non soggiace a sindacato di legittimità, se esente da giuridici, logici o motivazionali (Cass. 1721/1970).
Il motivo in esame, lungi dall’evidenziare alcuna reale criticità in punto di diritto in capo alla decisione impugnata, esprime un mero dissenso rispetto all’apprezzamento del contegno tenuto dalle parti, che, essendo frutto di una determinazione discrezionale del giudice di merito, non è sindacabile da questa Corte.
12. Il quinto motivo di ricorso, sotto la rubrica “nullità ex art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3, 4 e 5 per violazione o falsa applicazione dell’art. 96 c.p.c., comma 3”, sostiene che la Corte territoriale abbia erroneamente condannato il ricorrente ex art. 96 c.p.c., comma 3, sul presupposto che egli avesse appesantito il giudizio con abuso dello strumento processuale, dato che aveva formulato eccezioni processuali del tutto infondate in diritto e formulato tesi in aperto contrasto a norme di legge.
Simili rilievi non solo contrasterebbero – a dire del ricorrente – con la legittima richiesta di applicazione della legge nazionale marocchina, ma avrebbero carattere punitivo rispetto a un’attività difensiva che, seppur non condivisa dal giudicante, non può rappresentare di per sé un abuso dello strumento processuale.
13. Il motivo è inammissibile.
Gli argomenti illustrati al punto 7.1 valgono, infatti, a rilevare l’inammissibilità anche del mezzo in esame, che è stato formulato negli stessi termini del precedente.
14. Per tutto quanto sopra esposto, il ricorso deve essere respinto. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo. Il procedimento è esente dal versamento del contributo unificato, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 10, comma 2, di modo che non trova applicazione il disposto dell’art. 13, comma 1-quater medesimo decreto.
Così deciso in Roma, il 26 settembre 2023.
Depositato in Cancelleria il 13 ottobre 2023
