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Cassazione civile sez. I, 08/09/2023, n. 26152

Massima

In tema di usucapione di un bene immobile, il possesso ad usucapionem non è interrotto dalla mera dichiarazione di fallimento e dalla sua trascrizione, né è impedito dalle disposizioni degli artt. 42 e 45 della legge fallimentare. L’interruzione del possesso si verifica, infatti, soltanto per effetto di un’azione del curatore volta al recupero del bene mediante lo spossessamento del soggetto usucapente, nelle forme previste dal codice civile.

Supporto alla lettura

USUCAPIONE

L’usucapione è un modo di acquisto a titolo originario della proprietà mediante il possesso continuativo del bene immobile o mobile per un periodo di tempo determinato dalla legge. L’istituto dell’usucapione, disciplinato dagli articoli 1158 e seguenti del codice civile, configura una delle ipotesi di acquisto di un diritto su beni mobili o immobili a titolo originario. Per il suo compimento infatti, a differenza degli acquisti a titolo derivativo, non necessita della collaborazione o del consenso di chi era in precedenza titolare del diritto usucapito. Per l’usucapione sono necessari i seguenti requisiti:

• La prima è l’“animus possidendi” cioè la a volontà di possedere un bene come si fosse titolari del diritto di proprietà o dell’altro diritto corrispondente.

• La seconda è l’“animus rem sibi habendi” cioè la volontà di tenere un bene esercitando i poteri corrispondenti a quelli del titolare del diritto reale.

• La terza è il “corpus possessionis”. Questo è lo stato di fatto che si configura in modo tale da far apparire il possessore quale titolare del diritto reale corrispondente.

Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 5087, depositata il giorno 5 marzo 2014 riconoscono la possibilità di usucapire l’azienda con il possesso continuato ventennale. Secondo la Suprema Corte l’azienda, ai fini della disciplina del possesso e dell’usucapione, quale complesso di beni organizzati per l’esercizio dell’impresa, deve essere considerata come un bene distinto dai singoli beni che la compongono, e quindi suscettibile di essere unitariamente posseduta e, nel concorso degli altri elementi indicati dalla legge, usucapita. Secondo la Corte, se il possesso si esercita sulla cosa, e se si intende il termine “cosa” in senso economico-sociale, si possono considerare “cose” anche beni non corporei, come i beni immateriali (proprietà intellettuale, ad esempio) o complessi di beni organizzati, come ad esempio l’azienda, definita dal codice civile stesso come complesso organizzato di beni per l’esercizio di una impresa.

La Corte esprime una concezione “oggettivata” dell’azienda che, senza cancellare il suo collegamento organizzativo e finalistico con l’attività d’impresa, assume una propria autonomia di “cosa”, possibile oggetto di rapporti giuridici e di diritti. Occorre a tal fine separare l’azienda intesa come cosa, dall’insieme dei singoli beni e dall’esercizio dell’impresa.

I giudici in tal senso adducono quali esempi tipici di dissociazione tra proprietà dell’azienda intesa come “res” e esercizio dell’impresa il caso della successione mortis causa a favore di soggetti non imprenditori, l’affitto e l’usufrutto di azienda.

In tutti questi casi la proprietà della stessa è sganciata dal suo esercizio, in quanto l’azienda è nella disponibilità del proprietario della “cosa” senza che da parte dello stesso vi sia esercizio dell’attività di impresa.

Ambito oggettivo di applicazione

Svolgimento del processo

che:

1. Il Tribunale di Reggio Calabria, con sentenza n. 128/2009, rigettava la domanda presentata dal fallimento di (omissis) Srl perchè (omissis) fosse condannata alla restituzione di un locale adibito a ricovero barche, che la donna deteneva senza titolo, e al pagamento delle somme dovute per l’uso del medesimo; nel contempo accoglieva la domanda riconvenzionale di usucapione proposta dalla convenuta, la quale aveva sostenuto di possedere il bene sin dal (omissis).

2. La Corte distrettuale di Reggio Calabria, a seguito dell’appello presentato dal fallimento, rilevava – fra l’altro e per quanto qui di interesse – che tutti i testi escussi avevano confermato che la (omissis) aveva detenuto il bene, sin dal (omissis), con la volontà di comportarsi come proprietaria e di farsi considerare tale dai terzi.

Osservava, inoltre, che la procedura appellante non aveva fornito alcuna prova circa l’abuso dell’utilizzo esclusivo del posto barca da parte della (omissis) in quanto moglie del costruttore e amministratore della società fallita, nè circa la tolleranza di detto uso esclusivo da parte degli amministratori.

3. Il fallimento di (omissis) Srl ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza di rigetto dell’appello, pubblicata in data 23 ottobre 2019, prospettando due motivi di doglianza, ai quali ha resistito con controricorso (omissis).

Parte ricorrente ha depositato memoria ai sensi dell’art. 380-bis.1c.p.c..

Motivi della decisione

che:

4. Il primo motivo di ricorso lamenta, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio e discusso fra le parti, costituito dal fatto che il marito di (omissis) era stato amministratore unico della compagine fallita sin dal 1982, anno in cui avrebbe avuto inizio, secondo la tesi della controparte, il possesso dell’immobile.

Questa circostanza, ove considerata, sarebbe valsa a dimostrare che l’occupazione stabile e continuativa del bene non integrava un possesso uti domina, in ragione del rapporto affettivo che legava gli interessati e della tolleranza che aveva giustificato la detenzione.

5. Il motivo non è fondato.

Invero, la Corte di merito non ha affatto ignorato il fatto che il marito dell’appellata fosse amministratore della società poi fallita, ma ha apprezzato tale circostanza, reputandola irrilevante, poichè la procedura appellante non aveva dato prova che il potere di fatto sulla cosa avesse avuto inizio con l’abuso da parte della (omissis), quale moglie del costruttore e amministratore della società fallita, dell’utilizzo esclusivo del posto barca.

Nessun omesso esame può quindi essere predicato di una circostanza che, invece, è stata presa in considerazione all’interno della sentenza impugnata e ritenuta inidonea a giustificare il convincimento che l’esercizio del possesso fosse riconducibile a mera tolleranza della società proprietaria.

6. Il secondo motivo di ricorso denuncia la violazione e la falsa degli artt. 42 45 l. fall., perchè la Corte distrettuale doveva rilevare d’ufficio l’improcedibilità della domanda avversaria, in quanto il possesso ad usucapionem è opponibile al fallimento solo se la fattispecie acquisitiva si sia del tutto perfezionata anteriormente all’apertura della procedura.

Una simile evenienza non ricorreva nel caso di specie, dato che il possesso era stato fatto risalire al (Omissis), mentre la sentenza dichiarativa di fallimento era stata pronunciata nell’anno 2001.

7. Il motivo è inammissibile.

Il ricorrente assume che nessuna usucapione poteva essere fatta valere avverso il fallimento, in mancanza del perfezionamento della fattispecie acquisitiva prima della dichiarazione di fallimento.

La sentenza impugnata non fa il minimo cenno a una simile questione, che dalla lettura decisione non risulta fosse stata posta dall’appellante; nè dalla narrativa del ricorso per cassazione, come pure dallo svolgimento dei motivi, risulta che la procedura fallimentare, nel corso del giudizio di merito, avesse allegato che non le era opponibile alcuna usucapione.

Sicchè trova applicazione il principio secondo cui, qualora con il ricorso per cassazione siano prospettate questioni comportanti accertamenti in fatto (come nel caso di specie, in cui trattava di verificare se il periodo utile per l’usucapione fosse o meno maturato prima della dichiarazione di insolvenza) di cui non vi sia cenno nella sentenza impugnata, è onere della parte ricorrente, al fine di evitarne una statuizione di inammissibilità per novità della censura, non solo allegare l’avvenuta loro deduzione innanzi al giudice di merito, ma anche, in ossequio al principio di autosufficienza del ricorso stesso, indicare in quale specifico atto del giudizio precedente lo abbia fatto, onde dar modo alla Suprema Corte di controllare ex actis la veridicità di tale asserzione prima di esaminare il merito della suddetta questione (si vedano in questo senso, per tutte, Cass. 6089/2018, Cass. 23675/2013).

Questa Corte, peraltro, ha già avuto modo di chiarire che, in tema di usucapione di un bene immobile, il possesso ad usucapionem è una situazione fattuale che non viene interrotta dall’apertura della procedura concorsuale, nè è impedita dal disposto degli artt. 42 45 l. fall.(Cass. 17230/2022); dunque, la pronunzia della sentenza dichiarativa del fallimento e la sua trascrizione ex art. 88 l. fall. sono inidonee ad interrompere il tempo per l’acquisto del diritto di proprietà, conseguendo l’interruzione del possesso solo all’azione del curatore tesa al recupero del bene mediante spossessamento del soggetto usucapente, nelle forme e nei modi prescritti dagliartt. 1165 1167 c.c. (Cass. 15137/2021).

8. In virtù delle ragioni sopra illustrate il ricorso deve essere respinto.

Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al rimborso delle spese del giudizio di cassazione, che liquida in Euro 5.200, di cui Euro 200 per esborsi, oltre accessori come per legge e contributo spese generali nella misura del 15%.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228art. 1, comma 17, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis ove dovuto.

Così deciso in Roma, il 27 giugno 2023.

Depositato in Cancelleria il 8 settembre 2023

Allegati

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