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Cassazione civile sez. I, 04/03/2005, n. 4795

Massima

La sentenza di divorzio, che investe il matrimonio-rapporto e ha causa petendi e petitum diversi da quelli della domanda di nullità matrimoniale, non preclude la delibabilità della sentenza dei Tribunali ecclesiastici che abbia dichiarato la nullità del matrimonio concordatario.

Supporto alla lettura

CAUSE DI INVALIDITA’ DEL MATRIMONIO CIVILE

L’invalidità del matrimonio civile consegue al mancato rispetto dei requisiti specifici previsti dalla legge, tale difetto comporta la dichiarazione di nullità o annullamento del matrimonio da parte dell’autorità giudiziaria.

Disciplinate dagli artt. 117-129 bis c.c., si dividono in cause di nullità cause di annullabilità.

Il matrimonio è nullo quando manca un requisito essenziale. La nullità può essere fatta valere da chiunque vi abbia interesse, e si verifica nel caso di:

  • matrimonio tra persone già coniugate (bigamia);
  • matrimonio tra parenti in linea diretta o tra fratelli e sorelle;
  • matrimonio contratto tra persone una delle quali è stata condannata per omicidio o tentato omicidio del coniuge dell’altra.

L’annullabilità si verifica quando il matrimonio è valido ma presenta vizi che ne permettono l’annullamento su richiesta di una delle parti, le cause principali sono:

  • incapacità del coniuge al momento del matrimonio (art. 120 c.c.):
    • minore età senza autorizzazione;
    • interdizione per infermità mentale.
  • errore sull’identità o sulle qualità essenziali del coniuge (art. 122 c.c.):
    • es. se un coniuge ignora che l’altro sia sterile o abbia commesso reati gravi;
  • matrimonio contratto per timore (art. 122 c.c.):
    • se un coniuge si sposa per una minaccia grave.

L’azione per far dichiarare nullo o annullabile un matrimonio viene presentata dinanzi al tribunale ordinario; quella di nullità assoluta può essere promossa da chiunque abbia interesse, senza limiti di tempo; quella di annullabilità deve essere promossa entro un termine specifico (generalmente 1 anno dalla scoperta del vizio). Se il tribunale accoglie la domanda, il matrimonio viene dichiarato nullo con efficacia retroattiva (ex tunc), come se non fosse mai stato celebrato.

Le principali conseguenze della dichiarazione di invalidità del matrimonio sono:

  • perdita della qualità di coniuge (riacquisto della libertà di stato);
  • cessazione degli obblighi coniugali (i coniugi cessano di avere diritti e doveri reciproci);
  • effetti sui figli: i figli nati da un matrimonio nullo conservano lo stato di figli legittimi (art. 128 c.c.);
  • perdita dei benefici economici (cessazione dei diritti ereditari, cessazione della eventuale comunione coniugale, nullità delle donazioni fatte nell’ambito del matrimonio);
  • perdita del rapporto di affinità con i parenti dell’ex coniuge.

Il matrimonio celebrato in chiesa e poi trascritto nei registri civili, secondo le regole del matrimonio concordatario, può essere dichiarato nullo per mancanza dei presupposti previsti dal diritto canonico per la validità del sacramento matrimoniale. L’invalidità del matrimonio concordatario si definisce come nullità dello stesso, infatti il Tribunale ecclesiastico non “annulla” il matrimonio ma si limita a verificare l’eventuale nullità del matrimonio sin dall’origine. L’accertamento della nullità è effettuata dal Tribunale Ecclesiastico, competente in base alle regole del diritto canonico.

Ambito oggettivo di applicazione

Svolgimento del processo

Con citazione 27.11.2000 (omissis) conveniva avanti alla Corte d’appello di Milano il coniugo (omissis) per sentir dichiarare efficace nell’ordinamento italiano la sentenza emessa il 28.7.1999 dal Tribunale Ecclesiastico Regionale Umbro, confermata dal Tribunale Ecclesiastico Regionale Etrusco e dichiarata esecutiva dal Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica con decreto 9.10.2000, con cui era stata dichiarata la nullità del matrimonio concordatario contratto dai coniugi in Mortasa (PV) il 27.12.1965. Con sentenza 16.11.2001 la Corte d’appello di Milano dichiarava efficace nell’ordinamento italiano la sentenza del Tribunale Ecclesiastico Regionale Umbro, disattendendo le contrarie conclusioni dal Procuratore Generale che aveva argomentato dall’asserita efficacia preclusiva della sentenza con cui il Tribunale di Perugia aveva dichiarato la cessazione degli effetti civili del matrimonio contratto dalle parti con rito concordatario, sentenza pronunciata nel marzo 1991 e passata in giudicato ancor prima dell’instaurazione del giudizio canonico di nullità. Affermava in particolare la Corte di merito che la sentenza di divorzio non preclude la delibabilità della sentenza ecclesiastica che abbia dichiarato la nullità del matrimonio concordatario, a condizione che nell’ambito del giudizio divorzile non sia stato espressamente statuito in ordine alla validità del matrimonio medesimo, perchè l’espansibilità del giudicato non può giungere a comprendere questioni cose quella relativa alla nullità del matrimonio che, al più, sono state oggetto di un accertamento meramente incidentale, tenuto conto del fatto che quelle afferenti allo stato delle persone sono suscettibili di passaggio in giudicato solo ove scaturiscano da un accertamento svolto in via principale. In proposito la Corte d’appello ha richiamato il principio per cui, ai fini ora detti, le statuizioni incidenti sullo status delle persone non possono essere adottate incidenter tantum, ma debbono essere necessariamente assunte con accertamento suscettibile di avere efficacia di giudicato, ex art. 34 c.p.c..

Ha proposto ricorso il Procuratore Generale presso la Corte d’appello di Milano con unico motivo. (omissis) e (omissis) non hanno svolto attività difensiva.

Motivi della decisione

Con l’unico motivo di ricorso il P.G. presso la Corte d’appello di Milano deduce violazione della legge 28.3.1985, n. 121, che ha dato esecuzione all’Accordo di revisione del Concordato tra lo Stato e la S. Sede del 18.2.1984, ih relazione agli artt. 64 l. 218/85 e 324 c.p.c..

Osserva il P.G. che la sentenza impugnata ha prestato adesione al consolidato orientamento giurisprudenziale di questa Corte, in forza del quale, passata in giudicato la sentenza Che ha dichiarato la cassazione degli effetti civili del matrimonio, è delibatile la sentenza ecclesiastica che abbia dichiarato la nullità del matrimonio concordatario, quando nel giudizio divorzile non sia stato espressamente statuito in ordine alla validità del matrimonio, perchè l’espansibilità del giudicato non può giungere a comprendere questioni come quella relativa alla nullità del matrimonio che siano state oggetto di un accertamento meramente incidentale.

Osserva il ricorrente che il sistema di delibazione menzionato nell’art. 6, comma 2, dell’Accordo tra Stato e Chiesa del 1984 e subordinato alle condizioni previste dall’art. 64 della legge 218/95, in quanto l’art. 8 richiama le “altro condizioni richieste dalla legislazione italiana per la dichiarazione di efficacia delle sentenze straniere”. Secondo il ricorrente l’omessa contestazione nel giudizio di divorzio della validità del matrimonio comportar in ragione del fatto che il giudicato copre il dedotto ed il deducibile, l’impossibilità che tra le medesime parti ai instauri successivamente un procedimento di delibazione della sentenza ecclesiastica potenzialmente idoneo a rimettere in discussione quell’accertamento. Ad avviso del P.G. le circostanze poste in rilievo dalla sentenza impugnata e cioè la diversità per petitum e causa petendi del giudizio di divorzio e del giudizio di delibazione ed il fatto che il giudizio di divorzio s’instaura sulla base di “predeterminate condizioni proprie del diritto italiano, cui resta estranea ogni considerazione officiosa sulla validità del vincolo” non sarebbero risolutive. Se è vero, infatti, che il giudizio di divorzio riguarda il matrimonio-rapporto, mentre il giudizio di delibazione si riferisce al matrimonio-atto di cui si dichiara l’invalidità ex tunc, tale diversità non inciderebbe sul principio del giudicato implicito. Questo infatti estende i suoi effetti non soltanto alla decisione relativa al bene della vita richiesto dall’attore, ma anche a quella, implicita, relativa alla validità ed efficacia del rapporto. Anche il richiamo della sentenza impugnata all’art. 34 c.p.c. non sarebbe risolutivo, perchè la questione relativa alla validità ed esistenza del vincolo matrimoniale non potrebbe dirsi “distinta ed indipendente” dal fatto costitutivo dedotto nel giudizio di divorzio. Non rientrerebbe pertanto tra le questioni pregiudiziali in senso tecnico cui l’art. 34 fa riferimento.

E ancora, osserva il ricorrente, se l’esistenza di un valido matrimonio rileva come presupposto indispensabile per l’accoglimento o il rigetto della domanda di divorzio e se ancora la questione della validità del vincolo incide su uno status e come tale deve essere decisa con efficacia di giudicato, dovrebbe concludersi che la questione pregiudiziale ex art. 34 c.p.c. è introdotta automaticamente da un’eccezione di nullità ovvero che, anche in mancanza di domanda di parte, sarebbe la legge stessa ad imporre che l’accertamento sul punto avvenga non incidentalmente, ma con efficacia di giudicato.

Infine la circostanza che i coniugi nel giudizio di divorzio vertito avanti al Tribunale di Perugia non avessero contestato l’esistenza e validità del vincolo matrimoniale, comporterebbe preclusione a rimettere in discussione nel giudizio avanti al Tribunale ecclesiastico la validità del vincolo. Tra la sentenza di divorzio e quella di nullità intercorrerebbe un rapporto di contrarietà che impedirebbe la delibazione ai sensi dell’art. 64 l. 218/95.

Il ricorso non è fondato.

Va premesso che questa Corte, a Sezioni Unite, con sentenza 13 febbraio 1993, n. 1824, ha affermato il principio secondo il quale, a seguito dell’accordo di revisione del concordato lateranense stipulato il 18 febbraio 1984, ratificato e reso esecutivo con legge 25 marzo 1985, n. 121, è stata abolita la riserva di giurisdizione in favore dei Tribunali ecclesiastici sulle cause di nullità dei matrimoni concordatari, in precedenza stabilita dall’art. 34, comma 4, del concordato del 1929, con la conseguente concorrenza della giurisdizione dei giudici italiani. L’interpretazione delle Sezioni Unite è stata recepita da questa sezione nelle sentenze 18 aprile 1997, n. 3345, 19 novembre 1999, n. 12867 e 16 novembre 1999, n. 12671.

Ancora va osservato che l’affermazione, contenuta nella pronuncia n. 3345 del 1997 di questa Corte, cui il P.G. ricorrente ha fatto ampio riferimento, secondo la quale la cognizione della domanda di divorzio presuppone in ogni caso l’accertamento della esistenza e validità del matrimonio, è da considerare superata dal successivo orientamento espresso da questa Suprema Corte nella sentenza n. 4202 del 2001, nella quale si è posto in luce che la domanda di divorzio ha causa petendi e petitum diversi da quelli della domanda di nullità del matrimonio e che ove nel giudizio di divorzio la parti non introducano esplicitamente questioni sull’esistenza a validità dal vincolo – che darebbero luogo a statuizioni incidenti sullo status delle parsone, e quindi da decidere necessariamente, ai sensi dell’art. 34 c.p.c., con efficacia di giudicato – l’esistenza e la validità del matrimonio costituiscono un presupposto della pronuncia di divorzio, ma non formano oggetto di specifico accertamento suscettibile di determinare la formazione del giudicato (v. altresì, circa i criteri per l’accertamento della identità dei due giudizi di nullità, Cass. 1999 n. 12671).

Per questa ragione la sentenza di divorzio – che ha causa petendi e petitum diversi da quelli della sentenza di nullità del matrimonio, investendo il matrimonio-rapporto e non l’atto con cui è stato costituito il vincolo tra 1 coniugi – ove nel relativo giudizio non si sia espressamente statuito in ordine alla validità del matrimonio (con il conseguente insorgere delle problematiche posta dalla statuizione contenuta nell’art. 8, comma 2, lett. c dell’Accordo del 18 febbraio 1984 tra lo Stato italiano a la S. Sede), non impedisce la delibabilità della sentenza dei Tribunali eclesiastici che abbia dichiarato la nullità dal matrimonio concordatario, in coerenza con gli impegni concordatari assunti dallo Stato italiano e nei limiti di essi (conf. Sez. 1^, 25.6.2003, n. 10055, rv. 564532).

E’ poi opportuno ricordare che questa Corte ha affermato il principio per cui, una volta che nel giudizio con il quale sia stata chiesta la cessazione degli effetti civili del matrimonio concordatario venga accertata la spettanza, ad una delle parti, dell’assegno di divorzio, ed una volta che su di essa si sia formato il giudicato, la relativa statuizione si rende intangibile ai sensi dell’art. 2909 c.c. anche nel caso in cui successivamente ad essa sopravvenga la delibazione di una sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio (Sez. 1^, 23/03/2001, n. 4202, rv. 545091). Invero gli impegni assunti dallo Stato italiano con l’accordo del 18 febbraio 1984, si sostanziano, nella materia de qua, secondo la lettera e la ratio dell’art. 8, nell’obbligo per lo stato di dichiarare efficaci “le sentenze di nullità, di matrimonio pronunciate dai Tribunali ecclesiastici”, mentre resta rimessa alla competenza sostanziale dello Stato italiano la disciplina dei rapporti patrimoniali fra i coniugi derivanti dai conseguiti effetti civili dei matrimoni concordatari, come si evince dal disposto dell’art. 8, comma 1, che essenzialmente rimanda in proposito alle disposizioni del codice civile. Ne deriva che nessun principio concordatario, a proposito dalla sopravvenienza – rispetto alla attribuzione con sentenza passata in giudicato di un assegno di divorzio – della delibazione di una sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio, osta alla piena operatività dell’art. 2909 cod. civ. in forza del quale, una volta accertata in un giudizio fra le parti la spettanza di un determinato diritto, con, sentenza passata in giudicato, tale spettanza non può essere rimessa in discussione al di fuori degli eccezionali e tassativi casi di revocazione previsti dall’art. 395 c.p.c. fra le stesse parti.

Le altre parti del giudizio non hanno svolto attività difensiva, sì che non occorre pronunciare sulle spese.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Nulla per le spese.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile, il 10 gennaio 2005.

Depositato in Cancelleria il 4 marzo 2005

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