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Cassazione civile sez. I, 01/09/2025, n. 24289

Massima

Il diritto alla quota del Trattamento di Fine Servizio (TFS), spettante all’ex coniuge divorziato ai sensi dell’art. 12-bis della L. n. 898/1970, ha natura patrimoniale. Tale diritto sorge al momento della cessazione del rapporto di lavoro dell’altro coniuge, anche quando questi acceda alla pensione con il regime della “Quota 100”, il quale determina solo un differimento ex lege del momento del pagamento e non della maturazione del diritto stesso.
Di conseguenza, se il coniuge beneficiario dell’assegno divorzile decede dopo la cessazione del rapporto di lavoro dell’ex coniuge obbligato, il suo diritto alla quota del TFS, già entrato nel suo patrimonio, si trasmette agli eredi (iure hereditatis).

Supporto alla lettura

ASSEGNO DIVORZILE

Si definisce assegno divorzile l’obbligo di uno dei due coniugi, a seguito di pronuncia di divorzio, di corrispondere periodicamente all’altro un contributo economico, se questi non ha mezzi adeguati o per ragioni oggettive non se li può procurare.

Tra le principali conseguenze di carattere patrimoniale del divorzio, il riconoscimento del diritto a percepire l’assegno divorzile si realizza in circostanze differenti rispetto a quanto succede per l’assegno di mantenimento.

  1. Assegno di mantenimento: deve garantire al coniuge che ha meno risorse economiche lo stesso tenore di vita che aveva quando la coppia stava ancora insieme, durante la fase di separazione personale antecedente al divorzio, con l’obiettivo di bilanciare la condizione economica dei due soggetti.
  2. Assegno divorzile: viene disposto quando gli effetti del matrimonio sono ufficialmente annullati in seguito al divorzio e, di conseguenza, viene meno la necessità di operare un bilanciamento economico tra i due ex coniugi: chi dei due gode di una condizione economica maggiormente favorevole dovrà garantire all’altro non più il passato tenore di vita, bensì soltanto l’autosufficienza economica, in virtù del ruolo e del contributo fornito dall’ex coniuge alla formazione del patrimonio (economico e personale) della famiglia.

Il diritto a percepire l’assegno divorzile cessa quando il coniuge che lo percepisce passa a nuove nozze. La giurisprudenza più recente in tema di perdita del diritto dell’assegno divorzile, chiarisce come anche in caso di convivenza con il nuovo partner tale diritto venga meno. La convivenza deve tuttavia essere stabile e non temporanea: è sufficiente la prova in ordine ad un periodo di convivenza stabile protrattasi per un arco di tempo rilevante successivo al divorzio.

Ambito oggettivo di applicazione

Svolgimento del processo

Con ricorso del 20/03/2021, B.B. adiva il Tribunale di Messina, premettendo che: era erede legittimo, insieme al fratello D.D., della madre, C.C., nata a M. il (Omissis), ivi deceduta ab intestato il (Omissis); C.C., in data (Omissis), aveva contratto matrimonio con A.A., dal quale si era separata e, poi, divorziata in virtù di sentenza del Tribunale di Messina n. 192/2019, pubblicata il 04/02/2019 e passata in giudicato il 01/09/2019, che aveva previsto in favore della stessa un assegno divorzile della somma di Euro 300,00 mensili; negli anni 2019/2020 A.A. era stato posto in quiescenza, godendo del regime cosiddetto “Quota 100”; pertanto, ai sensi dell’art. 12 bis della L. n. 898 del 1970, C.C. aveva diritto ad ottenere, quale coniuge divorziato, la quota percentuale prevista dalla legge dell’indennità di fine rapporto liquidata a A.A., all’atto della cessazione del rapporto di lavoro; tale diritto aveva natura patrimoniale ed era maturato in capo alla donna a seguito del divorzio, anteriormente al suo decesso, quale elemento attivo del suo patrimonio ereditario, nel quale erano succeduti ab intestato gli unici figli, B.B. e D.D., quali eredi legittimi.

La parte dichiarava, pertanto, di agire nei confronti di A.A., soggetto passivo del rapporto obbligatorio ex art. 12 bis L. n. 898 del 1970, perché il Tribunale adito volesse: 1) ritenere e dichiarare il diritto di C.C. a ottenere il quaranta per cento dell’indennità di fine rapporto e di ogni altro emolumento accessorio, liquidati dall’INPS al coniuge divorziato, riferibile agli anni in cui il rapporto di lavoro è coinciso con il matrimonio (dal 23/06/1984 fino al 01/09/019); 2) ritenere e dichiarare che il diritto di credito vantato dalla defunta C.C. si era trasferito per successione mortis causa ai suoi eredi legittimi; 3) conseguentemente condannare A.A. al pagamento della metà della somma dovuta a C.C. in favore di B.B., erede legittimo dell’avente diritto.

Con comparsa del 24/05/2021 spiegava intervento volontario in giudizio D.D., fratello del ricorrente e figlio di A.A., facendo proprie le domanda già formulate da B.B.

Con memoria del 18/06/2021 si costituiva in giudizio l’odierno ricorrente, A.A., contestando la domanda formulata dal figlio B.B., e in seguito fatta propria dal fratello D.D., perché priva di fondamento in fatto ed in diritto.

In particolare, A.A. eccepiva il difetto di legittimazione attiva dei figli rispetto ad una domanda di pertinenza esclusiva del coniuge divorziato, avente ad oggetto un diritto che, benché avente contenuto patrimoniale, è indissolubilmente collegato ad uno status personalissimo e intrasmissibile iure hereditatis; deduceva, sotto altro profilo, che l’art. 12 bis L. n. 898 del 1970 riconosce il diritto del coniuge divorziato ad una quota del TFR “percepita” dall’altro coniuge, laddove nel caso di specie il lavoratore non aveva ancora percepito il proprio trattamento di fine servizio.

La parte precisava che era stato posto in quiescenza con deliberazione n. 2120/D4 del 27/08/2020 dell’A.S.P. Messina, a partire dal 01/10/2019, avendo usufruito del trattamento pensionistico previsto dal D.L. n. 4 del 2019, conv. con modif. in L. n. 26 del 2019 (c.d. “Quota 100”), aggiungendo che la maturazione del diritto al pagamento dei TFS/TFR con il pensionamento “Quota 100” non tiene conto della data di collocamento a riposo dell’interessato, bensì decorre dal momento in cui il dipendente raggiunge il requisito dell’anzianità contributiva o quello dell’età anagrafica e che egli non aveva ancora conseguito, al momento della proposizione del ricorso da parte del figlio, né il requisito dell’anzianità contributiva né quello dell’età anagrafica, che avrebbe raggiunto in data 31/07/2021.

Secondo A.A., l’unica legittimata all’azione, C.C., non aveva mai esercitato in vita (né avrebbe potuto) la domanda ex art. 12 bis L. n. 898 del 1970 e la stessa non poteva essere esercitata per la prima volta dall’erede, sia in quanto diritto accessorio al diritto personalissimo all’assegno di divorzio, non più sussistente al momento del ricorso per l’intervenuto decesso della madre, sia per il difetto dei presupposti di legge, dal momento che il TFS non era ancora stato percepito neanche dallo stesso lavoratore. Maggiormente infondata doveva ritenersi la domanda di riconoscimento di una quota sugli incentivi all’esodo, o altri benefici previdenziali, che, in quanto aventi natura risarcitoria, e non assistenziale, non potevano essere reclamati dal coniuge beneficiario dell’assegno divorzile.

Con decreto del 30/07/2021 la Corte d’Appello di Messina, a scioglimento della riserva assunta alla prima udienza del 13/07/2021, chiedeva informazioni all’INPS in ordine alle date di maturazione dei requisiti in capo a A.A. per il pensionamento e del diritto a percepire il TFR (indicando in caso di già avvenuta liquidazione, la somma netta liquidata).

L’INPS provvedeva al deposito delle informazioni richieste e il giudizio seguiva il suo corso, sino a quando, con la sentenza n. 1/2021, pubblicata il 04/01/2022, il Tribunale di Messina rigettava le domande dei due figli di C.C. e A.A..

Il Tribunale evidenziava che quest’ultimo era stato posto in quiescenza a decorrere dall’01/10/2019 in applicazione del D.L. n. 4 del 2019 (cosiddetta “Quota 100”), in forza del quale i lavoratori della pubblica amministrazione che accedono alla pensione utilizzando questa misura conseguiranno il diritto a percepire il TFS nella prima delle due seguenti ipotesi: o 12 mesi dopo il raggiungimento dei 67 anni o 24 mesi dopo il raggiungimento dei 41 anni e 10 mesi di contributi necessari alle donne per l’accesso alla pensione anticipata, e dei 42 anni e 10 mesi di contributi per gli uomini. Poiché nessuna di queste due ipotesi si era verificata prima del decesso della C.C., dal momento che A.A. aveva compiuto 67 anni di età il 31/07/2021 e avrebbe maturato il requisito contributo in data 30/12/2021 (atteso che alla data del 30/09/2019 aveva maturato, ai fini della pensione, un servizio 40 anni e 7 mesi), secondo il Tribunale, alla data del decesso della C.C. (avvenuto il 12/09/2020) non si era verificata alcuna delle ipotesi sopra richiamate e, pertanto, la stessa non aveva ancora maturato il diritto di ricevere la quota di TFS dell’ex coniuge e, conseguentemente, nessun diritto aveva trasmesso agli eredi. Il Tribunale rigettava anche la domanda riferita agli incentivi all’esodo, perché mai conseguiti da A.A.

Con atto del 17/03/2022, B.B. impugnava la sentenza del Tribunale di Messina, premettendo che il diritto al TFS era sorto in capo al A.A. al momento della sua collocazione in quiescenza, benché a quella data il diritto non fosse ancora liquido ed esigibile, e che, specularmente, il diritto di C.C., quale coniuge titolare divorziato non passato a nuove nozze e titolare del diritto di assegno divorzile, era sorto nello stesso momento in cui il Fisichella era stato posto in quiescenza, benché lo stesso diritto fosse poi divenuto determinato ed esigibile in epoca successiva alla morte della stessa C.C.. Secondo il reclamante il diritto alla quota di TFS si era trasferito iure hereditatis ai figli della C.C., unici eredi legittimi della stessa.

Con memoria del 02/05/2022 si costituiva in giudizio A.A., contestando l’impugnazione spiegata ex adverso, perché priva di fondamento in fatto ed in diritto, eccependo in particolare: l’inesistenza del diritto, la mancata percezione dell’indennità di fine rapporto all’atto del decesso della C.C., l’inammissibilità dell’azione ex art. 12 bis L. 898/1970, l’intrasmissibilità mortis causa del diritto alla quota dell’indennità di fine rapporto, il difetto di legittimazione attiva dei figli e, in subordine, nel merito, la non debenza degli eventuali incentivi di pensionamento anticipato.

Dopo un rinvio interlocutorio per acquisire il parere del Procuratore Generale, disposta la regolarizzazione del contraddittorio nei confronti di D.D., già intervenuto in primo grado, il quale, a seguito della disposta notifica del ricorso introduttivo, si costituiva con comparsa depositata il 06/06/2023 chiedendo che, in caso di accoglimento dell’impugnazione, gli effetti della decisione fossero estesi anche a lui, quale erede legittimo di C.C.

Con la sentenza n. 8/2024, pubblicata il 06/06/2024 e notificata a A.A. il 27/06/2024, in accoglimento del gravame e in riforma della sentenza impugnata, la Corte d’Appello dichiarava il diritto di C.C. (deceduta il 12/09/2020), quale coniuge divorziato di A.A., al 40% del trattamento di fine servizio conseguito dal predetto, riferito al periodo di durata del matrimonio, secondo quanto specificato in parte motiva e, per l’effetto, condannava quest’ultimo alla corresponsione della complessiva somma di Euro 13.416,84, da suddividere tra gli eredi di C.C. pro quota ereditaria, rigettando per il resto l’impugnazione.

In primo luogo, la Corte d’Appello evidenziava la natura di retribuzione differita dei trattamenti di fine servizio “comunque denominati”, i quali rappresentano il frutto dell’attività lavorativa prestata e costituiscono parte integrante del patrimonio del beneficiario, con la funzione precipua di “accompagnare il lavoratore nella delicata fase dell’uscita dalla vita lavorativa attiva” onde consentirgli di superare le “difficoltà economiche che possono insorgere nel momento in cui viene meno la retribuzione”.

In questa prospettiva, la Corte d’Appello affermava che il diritto all’indennità di fine servizio, ontologicamente assimilabile alla retribuzione, e partecipe della sua natura geneticamente agganciata al rapporto di lavoro, accompagnandosi a tutta la durata dello svolgimento dell’attività lavorativa, all’atto della cessazione di quest’ultima è già giunto a piena e completa maturazione quale “frutto dell’attività lavorativa” e come tale entra immediatamente a fare parte integrante del patrimonio del beneficiario. Il diritto all’indennità di fine servizio, per la Corte di merito, è da considerare sempre esistente, ove esiste un rapporto di lavoro (sia esso privato o pubblico), e giunge a piena “maturazione” al momento della cessazione di quest’ultimo, a prescindere dal fatto che la sua erogazione venga poi per legge differita ad un momento successivo. Ne è prova, ad opinione della Corte, il fatto che l’indennità spetta ex lege al lavoratore subordinato (privato o pubblico) non solo al momento dell’ordinaria cessazione del rapporto di lavoro, ma anche qualora egli muoia durante lo svolgimento del rapporto medesimo, in tal caso dovendosi liquidare in favore dei successori (cfr. art. 2122 c. c., dettata per il lavoro privato), oltre alla sua stessa modalità di calcolo, che pone alla base la retribuzione percepita dal lavoratore alla cessazione dal servizio, la quale viene rapportata al numero degli anni utili ai fini del calcolo.

In tale ottica, la Corte d’Appello riteneva che l’art. 23, comma 1, D.L. n. 4 del 2019, conv. con modif. in L. n. 26 del 2019, avesse previsto, per coloro che accedevano al trattamento pensionistico cd. “Quota 100”, semplicemente una posticipazione del momento in cui il trattamento di fine servizio può di fatto essere percepito dal titolare del diritto, prevista per bilanciare il pensionamento anticipato, e non, invece, di un rinvio del momento di maturazione del diritto medesimo.

Sulla scorta dei principi enunciati, la menzionata Corte affermava che A.A., posto in quiescenza in data 01/10/2019 (dato di fatto pacifico e documentato in atti), a partire da tale momento aveva acquisito definitivamente nel proprio patrimonio il diritto al trattamento di fine servizio, salva l’effettiva erogazione dell’emolumento medesimo, spostata per legge più avanti nel tempo. Corollario logico-giuridico era che, essendo ancora in vita, a quella data, C.C., deceduta il 12/09/2020, ed essendo quest’ultima titolare di assegno divorzile senza essere passata a nuove nozze, sussistevano oggettivamente tutti i requisiti di cui all’art. 12 bis L. n. 898 del 1970 per riconoscere alla donna (e conseguentemente ai suoi eredi) il diritto ad una percentuale del trattamento anzidetto secondo quanto prevede la citata norma.

Nessun rilievo aveva, per la Corte territoriale, il fatto che il trattamento di fine rapporto non fosse stato ancora materialmente percepito dall’avente diritto, né fosse esigibile, al momento della morte della C.C., dato che il diritto del coniuge divorziato alla percezione della quota prevista dal citato art. 12 bis era sorto con la maturazione del diritto all’indennità e cioè con la cessazione del rapporto di lavoro, intervenuta dopo la proposizione della domanda di divorzio. La sussistenza delle condizioni previste dalla legge -ossia la titolarità dell’assegno divorzile e il mancato passaggio a nuove nozze – deve infatti essere verificata al momento in cui matura per l’altro ex coniuge il diritto alla corresponsione del trattamento di fine rapporto stesso, in tale data divenendo attuale (e, quindi, azionabile in giudizio) il diritto ad ottenere la quota di cui all’art. 12 bis L. cit.

Poiché, pertanto, in data 01/08/2021 era stata liquidata la somma (netta) di Euro 34.698,73 a titolo di TFS da parte dell’INPS, per la Corte d’Appello, sussistevano i presupposti per liquidare agli eredi le somme di spettanza della C.C.

Avverso tale statuizione, A.A. ha proposto ricorso per cassazione, affidato a cinque motivi di doglianza.

Gli intimati si sono difesi con controricorso.

Il ricorrente ha depositato memoria difensiva.

Motivi della decisione

1. Con il primo motivo di ricorso è dedotta la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 81 c.p.c., sul presupposto che B.B. e D.D. abbiano agito in giudizio per un diritto che, nella stessa prospettazione di parte, non faceva capo ad essi ricorrenti, ma a C.C., madre e dante causa, deceduta oltre sei mesi prima dell’instaurazione del giudizio.

Con il secondo motivo di ricorso è dedotta la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 12 bis L. n. 898 del 1970, norma avente ad oggetto la tutela di un diritto accessorio ad uno status personalissimo e come tale intrasmissibile iure hereditatis che, invece, la sentenza impugnata ha riconosciuto per la prima volta in capo agli eredi, in epoca successiva al decesso dell’avente diritto e in assenza di un precedente esercizio dell’azione da parte dell’unico titolare.

Con il terzo motivo di ricorso è dedotta la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 12 bis L. n. 898 del 1970, o in subordine la nullità del procedimento e/o della sentenza, per avere la Corte d’Appello di Messina accolto la domanda, in assenza di una condizione dell’azione espressamente richiesta e postulata dalla norma, data dalla titolarità attuale del diritto all’assegno divorzile, poiché la domanda è stata proposta per la prima volta dagli eredi, successivamente alla morte di C.C., in un momento in cui, per effetto del decesso del titolare, era venuto meno lo stesso diritto all’assegno.

Con il quarto motivo di ricorso è dedotta la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 23 D.L. n. 4 del 2019, per la illegittima individuazione, ad opera della corte territoriale, del momento in cui sorge il diritto all’indennità di fine rapporto in capo al lavoratore pensionatosi aderendo alla cd. “Quota 100”, poiché la norma è cristallina nell’individuare il momento in cui sorge il diritto all’indennità non già nella cessazione del rapporto di lavoro, come in tutte le ipotesi di pensione ordinaria, ma nel momento in cui il lavoratore avrebbe raggiunto gli ordinari requisiti di accesso al sistema pensionistico (per età o contributi).

Con il quinto motivo di ricorso è dedotta la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 12 bis L. n. 898 del 1970, o in subordine la nullità del procedimento e/o della sentenza, per avere accolto la domanda in difetto della condizione di esigibilità del credito richiesta dalla norma, poiché nel caso di pensionamento “Quota 100”, per quanto dedotto con il precedente motivo di ricorso, il diritto al trattamento di fine servizio matura in capo al lavoratore non già al momento della cessazione (anticipata) del rapporto di lavoro ma al raggiungimento dell’età pensionabile o del montante contributivo.

2. Il primo motivo è infondato.

Dalla stessa lettura del ricorso si evince con chiarezza che B.B. e D.D. hanno agito in qualità di eredi della madre, C.C., sicché non hanno fatto valere un diritto altrui ma un diritto che hanno dedotto essere proprio in conseguenza della successione mortis causa intervenuta prima della promozione del giudizio.

3. Il quarto e il quinto motivo di ricorso vanno esaminati unitariamente e con priorità, perché richiedono il corretto inquadramento della disciplina introdotta dal D.L. n. 4 del 2019, conv. con modif. in L. n. 26 del 2019,

relativa alla pensione anticipata “Quota 100”, che è decisiva per la soluzione di tutte le questioni sollevate.

Entrambi i motivi si rivelano infondati per i motivi di seguito evidenziati.

3.1. Com’è noto, il trattamento di fine rapporto (TFR) è regolato per il settore privato dall’art. 2120 c.c., prevedendosi che “in ogni caso di cessazione del rapporto di lavoro subordinato”, e, quindi, indipendentemente dalle motivazioni che l’hanno determinato, “il prestatore di lavoro ha diritto ad un trattamento di fine rapporto”.

Il successivo art. 2122 c.c. stabilisce, poi, che ove la cessazione del rapporto di lavoro sia dovuta alla morte del prestatore di lavoro, l’indennità in questione deve essere corrisposta al coniuge e ai figli, ovvero, se viventi a carico, ai parenti entro il terzo grado e agli affini entro il secondo grado.

Secondo una concezione oramai consolidata in giurisprudenza, il TFR ha natura retributiva (Cass., Sez. L, Ordinanza n. 6333 del 05/03/2019) costituendo un elemento della retribuzione il cui pagamento viene differito al momento della cessazione del rapporto di lavoro. Esso matura durante lo svolgimento del rapporto ed è costituito dalla somma degli accantonamenti annui di una quota della retribuzione rivalutata periodicamente.

Come evidenziato dalle Sezioni Unite di questa Corte (Cass., Sez. U, Sentenza n. 6229 del 07/03/2024), la modalità di calcolo del trattamento di fine rapporto, introdotta dal testo novellato dell’art. 2120 c.c., basata non più sull’ultima retribuzione del prestatore ma sui compensi a quest’ultimo tempo per tempo erogati, e periodicamente rivalutati, consente di affermare che il trattamento in questione costituisce un compenso ancorato allo sviluppo economico che ha avuto la carriera del lavoratore. Al trattamento di fine rapporto è così comunemente riconosciuta la natura di retribuzione differita. Le qualificazioni in passato associate alla vecchia indennità di anzianità – come quella di prestazione previdenziale, o di premio di fedeltà – hanno perduto, dunque, di ogni attualità. La giurisprudenza di legittimità è ferma, oggi, nell’annettere al trattamento di fine rapporto carattere retributivo e sinallagmatico e nel definire, appunto, lo stesso come istituto di retribuzione differita, che matura anno per anno attraverso il meccanismo dell’accantonamento e della rivalutazione (così Cass., Sez. 6-1, Ordinanza n. 164 del 08/01/2016; Cass., Sez. 6-1, Ordinanza n. 11479 del 14/05/2013; Cass., Sez. L, Sentenza n. 16549 del 05/08/2005; v. da ultimo Cass., Sez. L, Ordinanza n. 10082 del 16/04/2025).

La stessa natura retributiva ha il trattamento di fine rapporto erogato nel settore pubblico (TFS), oggetto del presente giudizio, ridotto al paradigma comune della retribuzione differita, nell’ambito di un percorso di tendenziale assimilazione alle regole dettate nel settore privato dall’art. 2120 c.c., ricordato anche dalla Corte costituzionale, nella sentenza n. 159 del 25 giugno 2019 (v. in motivazione Cass., Sez. L, Sentenza n. 25621 del 25/09/2024).

Il TFR/TFS maturato costituisce, dunque, a tutti gli effetti, un credito del lavoratore, che sorge, e può essere azionato, al momento della cessazione del rapporto di lavoro (Cass., Sez. L., Ordinanza n. 13690 del 16/05/2024; Cass., Sez. L, Sentenza n. 2827 del 06/02/2018; Sez. L, Sentenza n. 11579 del 23/05/2014; Cass., Sez. L, Sentenza n. 3894 del 18/02/2010).

3.2. Com’è noto, l’articolo 12 bis L. n. 898 del 1970 prevede che “Il coniuge nei cui confronti sia stata pronunciata sentenza di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio ha diritto, se non passato a nuove nozze e in quanto sia titolare di assegno ai sensi dell’articolo 5, ad una percentuale dell’indennità di fine rapporto percepita dall’altro coniuge all’atto della cessazione del rapporto di lavoro anche se l’indennità viene a maturare dopo la sentenza.”

Si deve subito precisare che il datore di lavoro dell’ex coniuge tenuto al pagamento dell’assegno divorzile non è direttamente obbligato a pagare questa quota, ma è l’ex coniuge che deve corrispondere detto importo, in presenza dei presupposti di legge.

Il richiedente la quota del trattamento di fine rapporto deve, poi, essere titolare di un assegno divorzile – o deve avere presentato domanda di attribuzione dell’assegno in sede di divorzio (poi seguita dall’accoglimento della stessa) – al momento in cui l’ex coniuge abbia maturato il diritto alla corresponsione di tale trattamento (cfr. da ultimo Cass., Sez. 1, Ordinanza n. 4499 del 19/02/2021).

La ratio della norma è, infatti, quella di correlare il diritto alla quota del trattamento di fine rapporto alla percezione dell’assegno divorzile (tra le tante, v. Cass., Sez. 1, Sentenza n. 12175 del 06/06/2011).

Come evidenziato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 23/1991, che ha dichiarato infondate plurime questioni di legittimità costituzionale della norma, “Con la riforma della disciplina del divorzio del 1970, il legislatore del 1987 ha mirato a “rimuovere effetti di segno negativo e a ripristinare una situazione di uguaglianza tra i soggetti del rapporto matrimoniale nella misura in cui ciò è possibile dopo la dissoluzione del vincolo coniugale” (cfr. la Relazione al disegno di legge presentata al Senato): ha cioè avuto tra i suoi obiettivi quello di dare una più ampia e sistematica tutela al soggetto economicamente più debole con l’approntamento di incisivi strumenti giuridici a garanzia di posizioni economicamente pregiudicate dagli effetti della cessazione del matrimonio. Di qui l’apprestamento di una serie di misure, che vanno dalla fissazione di criteri più articolati e precisi per la determinazione dell’assegno divorzile, al suo adeguamento automatico e alla più intensa tutela sul terreno esecutivo e su quello penale rispetto ai rischi di inadempienza; dalla nuova disciplina del trattamento pensionistico di reversibilità alla attribuzione di una quota percentuale dell’indennità di liquidazione spettante al divorziato… Nel nuovo istituto dell’attribuzione all’ ex coniuge di una quota dell’indennità di fine rapporto convergono, secondo l’opinione prevalente, sia profili assistenzialistici, evidenziati dal fatto che essa presuppone la spettanza dell’assegno divorzile; sia, e soprattutto – come la citata Relazione sottolinea – criteri di carattere compensativo, rapportati al contributo personale ed economico dato dall’ ex-coniuge alla formazione del patrimonio di ciascuno e di quello comune” (Corte cost., Sentenza n. 23 del 24/01/1991).

Anche le Sezioni Unite di questa Corte hanno di recente ribadito che, alla base della disposizione normativa in esame, si rinvengono profili assistenziali, evidenziati dal fatto che la disposizione stessa presuppone la spettanza dell’assegno divorzile, ma anche criteri di carattere compensativo, predeterminati dalla legge (v. da ultimo, in motivazione, Cass., Sez. U, Sentenza n. 6229 del 07/03/2024).

Attraverso l’istituto in esame, dunque, è conseguito il risultato di attuare una partecipazione, sia pure posticipata, dell’ex coniuge titolare di assegno divorzile alle fortune economiche dell’altro ex coniuge, costruite insieme finché il matrimonio è durato.

Ovviamente, in applicazione dell’art. 12 bis L. n. 898 del 1970, la sussistenza delle condizioni previste dalla legge per l’ottenimento della quota del trattamento di fine rapporto spettante all’ex coniuge obbligato va verificata al momento in cui sorge, per quest’ultimo, il diritto all’ottenimento del menzionato trattamento nei confronti del datore di lavoro e, dunque, come sopra evidenziato, al momento in cui cessa il rapporto di lavoro (v. tra le tante Cass., Sez. L, Sentenza n. 2827 del 06/02/2018 e Cass., Sez. 1, Ordinanza n. 5376 del 27/02/2020; cfr. Cass., Sez. 1, Sentenza n. 34050 del 12/11/2021).

Sul punto è chiara Cass., Sez. 1, Sentenza n. 285 del 10/01/2005, ove è precisato che l’art. 12 bis L. n. 898 del 1970, introdotto dall’art. 16 L. n. 74 del 1987, a norma del quale l’ex coniuge titolare di assegno divorzile ha diritto, se non passato a nuove nozze, a una percentuale dell’indennità di fine rapporto spettante all’altro coniuge all’atto della cessazione del rapporto di lavoro, trova applicazione anche nella ipotesi di decesso dell’obbligato in costanza di rapporto, in quanto essa riguarda tutti i casi in cui il trattamento di fine rapporto sia comunque spettante al lavoratore, anche se non ancora percepito, senza che rilevi, in contrario, la circostanza che l’art. 2122 c.c. non indichi, tra gli aventi diritto alla indennità di fine rapporto (coniuge, figli, e, se vivevano a carico del prestatore di lavoro, i parenti entro il terzo grado e gli affini entro il secondo grado), l’ex coniuge (v. anche Cass., Sez. 1, Sentenza n. 12426 del 20/09/2000).

Anche Cass., Sez. 1, Sentenza n. 2466 del 10/02/2004 ha evidenziato che, ai fini del riconoscimento della quota dell’indennità di fine rapporto spettante, ai sensi dell’art. 12 bis L. n. 898 del 1970, all’ex coniuge, la sussistenza delle condizioni previste dalla legge va verificata al momento in cui sorge per l’altro il diritto alla corresponsione del trattamento di fine rapporto stesso, che, come sopra evidenziato, coincide con il momento della cessazione del rapporto di lavoro.

Come stabilito dall’art. 12 bis L. n. 898 del 1970, tuttavia, è la percezione di tale trattamento a rendere esigibile la quota di spettanza dell’ex coniuge, essendo previsto il diritto di quest’ultimo “ad una percentuale dell’indennità di fine rapporto percepita dall’altro coniuge”.

In sintesi, il diritto alla quota dell’indennità di fine rapporto, che sorge quando sorge il diritto a tale trattamento da parte dell’altro coniuge, diviene esigibile al momento in cui quest’ultimo percepisce il relativo trattamento.

Non è, dunque, necessario che l’importo su cui calcolare la quota di spettanza sia già incassato al momento della proposizione della relativa domanda, essendo sufficiente che sia esistente al momento della decisione.

Come avviene in tutti i casi in cui è promosso un giudizio teso all’accertamento di un credito, infatti, la sentenza che decide la causa deve accogliere la domanda del creditore quante volte abbia a riscontrare che i fatti costitutivi del diritto fatto valere, pur se non sussistenti al momento della proposizione della domanda, sussistono in quello successivo della decisione (Cass., Sez. 1, Ordinanza n. 24403 del 08/08/2022).

Resta, ovviamente, fermo che la percezione del TFR/TFS da parte dell’ex coniuge titolare di assegno divorzile deve intervenire dopo la proposizione della domanda di divorzio (Cass., Sez. 1, n. 17154 del 15/06/2023), non potendo considerarsi le somme percepite durante la convivenza matrimoniale o nel corso della separazione dei coniugi (Cass., Sez. 1, Ordinanza n. 24421 del 29/10/2013).

3.3. I principi appena enunciati devono essere adattati alla peculiare fattispecie oggetto del presente giudizio, poiché A.A. ha cessato il rapporto di lavoro presso la A.S.P. di Messina usufruendo della forma di pensionamento anticipato introdotta in via sperimentale per determinati lavoratori dal D.L. n. 4 del 2019, conv. con modif. in L. n. 26 del 2019 (cd. “Quota 100”).

L’obiettivo di tale previsione è stato quello di offrire flessibilità al pensionamento, consentendo ai menzionati lavoratori di collocarsi in pensione prima della maturazione dei requisiti ordinari per la pensione di vecchiaia, con una diminuzione delle entrate conseguente solo al mancato accantonamento dei contributi negli anni di lavoro non effettuati, senza nessuna penalità.

In particolare, l’art. 14 D.L. n. 4 del 2019, conv. con modif. in L. n. 26 del 2019, nel testo vigente al tempo della cessazione del rapporto di lavoro di A.A. (01/10/2019), stabilisce quanto segue: “1. In via sperimentale per il triennio 2019-2021, gli iscritti all’assicurazione generale obbligatoria e alle forme esclusive e sostitutive della medesima, gestite dall’INPS, nonché alla gestione separata di cui all’articolo 2, comma 26, della legge 8 agosto 1995, n. 335, possono conseguire il diritto alla pensione anticipata al raggiungimento di un’età anagrafica di almeno 62 anni e di un’anzianità contributiva minima di 38 anni, di seguito definita “pensione quota 100″. Il diritto conseguito entro il 31 dicembre 2021 può essere esercitato anche successivamente alla predetta data, ferme restando le disposizioni del presente articolo…omissis…”.

Nella presente controversia assume rilievo fondamentale il disposto dell’art. 23, commi 1 e 2, D.L. n. 4 del 2019, conv. con modif. in L. n. 26 del 2019, sempre nel testo vigente ratione temporis, il quale prevede quanto segue: “1. Ferma restando la normativa vigente in materia di liquidazione dell’indennità di fine servizio comunque denominata, di cui all’articolo 12 del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122, i lavoratori dipendenti delle amministrazioni pubbliche di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, nonché il personale degli enti pubblici di ricerca, cui è liquidata la pensione quota 100 ai sensi dell’articolo 14, conseguono il riconoscimento dell’indennità di fine servizio comunque denominata al momento in cui tale diritto maturerebbe a seguito del raggiungimento dei requisiti di accesso al sistema pensionistico, ai sensi dell’articolo 24 del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214, tenuto anche conto di quanto disposto dal comma 12 del medesimo articolo relativamente agli adeguamenti dei requisiti pensionistici alla speranza di vita. 2. Sulla base di apposite certificazioni rilasciate dall’ente responsabile per l’erogazione del trattamento di fine servizio, comunque denominato, i soggetti di cui al comma 1 nonché i soggetti che accedono, o che hanno avuto accesso prima della data di entrata in vigore del presente decreto, al trattamento di pensione ai sensi dell’articolo 24 del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214, possono presentare richiesta di finanziamento di una somma pari all’importo, nella misura massima di cui al comma 5 del presente articolo, dell’indennità di fine servizio maturata, alle banche o agli intermediari finanziari che aderiscono a un apposito accordo quadro da stipulare, entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, tra il Ministro del lavoro e delle politiche sociali, il Ministro dell’economia e delle finanze, il Ministro per la pubblica amministrazione e l’Associazione bancaria italiana, sentito l’INPS…..”

La legge, dunque, stabilisce un differimento del momento in cui è erogato il TFS ai dipendenti pubblici, che hanno cessato il rapporto di lavoro avvalendosi della disciplina prevista dall’art. 14 D.L. cit., poiché l’erogazione non è dovuta al momento della cessazione del servizio, ma quando il lavoratore raggiunge i requisiti che sarebbero stati necessari per percepire la pensione di vecchiaia o la pensione anticipata, in base alla disciplina ordinaria (anche se i lavoratori possono chiedere un anticipo di parte delle somme dovute tramite un finanziamento agevolato previsto dalla norma appena riportata).

3.4. La disciplina contenuta nell’art. 14 D.L. cit. è stata esaminata dalla Corte costituzionale (Corte cost., Sentenza n. 234 del 04/10/2022), la quale – dichiarando infondata la questione di legittimità costituzionale sollevata, riferita alla dedotta disparità di trattamento derivante dal divieto di cumulo della pensione con i redditi da lavoro dipendente o autonomo – ha delineato la ratio dell’istituto, evidenziando l’eccezionalità della misura che ha consentito il ritiro dal lavoro all’età di 62 anni con un’anzianità contributiva di almeno 38 anni, senza penalizzazioni nel calcolo della rendita, rimarcando più volte la volontà del legislatore di attribuire ai lavoratori menzionati, a fronte di alcune limitazioni, regole più favorevoli rispetto al sistema ordinario, che assicurino l’effettiva uscita dal mercato del lavoro, anche al fine di creare nuova occupazione e favorire il ricambio generazionale, all’interno di un sistema previdenziale comunque sostenibile.

3.5. Tra le menzionate limitazioni si colloca la previsione dell’art. 23 D.L. cit., che prevede un differimento ex lege del pagamento del TFS per i dipendenti pubblici.

La disposizione è incentrata sull’individuazione del tempo dell’adempimento, stabilendo – in deroga alla regola generale sopra evidenziata, secondo la quale il diritto al TFR o al TFS sorge al momento della cessazione del rapporto di lavoro – che i lavoratori che si avvalgono di tale forma di pensione anticipata “conseguono il riconoscimento dell’indennità di fine servizio comunque denominata al momento in cui tale diritto maturerebbe a seguito del raggiungimento dei requisiti di accesso al sistema pensionistico”.

Viene individuato un momento per il riconoscimento del TFS successivo alla cessazione del rapporto di lavoro, riferito al tempo in cui detto credito sarebbe maturato in base alla disciplina comune di accesso al sistema pensionistico.

Lo stesso legislatore presuppone che il menzionato credito al TFS viene ad esistenza prima di quando viene pagato, per due evidenti ragioni: in primo luogo, la norma stabilisce che esso viene “riconosciuto”, così presupponendo una precedente insorgenza e una previa maturazione del relativo diritto; in secondo luogo, è accordata al pensionato la facoltà di richiedere il finanziamento di una somma pari all’importo dell’indennità di fine servizio “già maturata”, alle banche o agli intermediari finanziari che aderiscono a un apposito accordo quadro da stipulare, entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del D.L., tra il Ministro del lavoro e delle politiche sociali, il Ministro dell’economia e delle finanze, il Ministro per la pubblica amministrazione e l’Associazione bancaria italiana, sentito l’INPS.

La legge, dunque, stabilisce semplicemente un differimento del momento in cui è erogato il TFS ai dipendenti pubblici, che hanno cessato il rapporto di lavoro avvalendosi della disciplina prevista dall’art. 14 D.L. cit., poiché l’erogazione non è dovuta al momento della cessazione del servizio, ma quando il lavoratore raggiunge i requisiti che sarebbero stati necessari per percepire la pensione di vecchiaia o la pensione anticipata, in base alla disciplina ordinaria.

In effetti, in base alle norme eccezionali e sperimentali in esame, il lavoratore pubblico ha il vantaggio di potersi collocare in pensione anticipata secondo il meccanismo della “Quota 100”, senza subire alcuna perdita economica, se non quella legata al numero minore di anni lavorati, ma non può ottenere il pagamento del TFS, che pure matura con la cessazione del rapporto di lavoro, prima del tempo in cui avrebbe potuto conseguirlo se si fosse collocato in pensione in base alla disciplina ordinaria.

In conclusione, le disposizioni in esame ma non incidono sull’insorgenza del diritto al TFS, essendo solo differito ex lege il momento in cui è previsto il pagamento, e dunque può essere azionato il relativo credito, in quell’ottica propria della disciplina eccezionale introdotta, volta a favorire la fuoriuscita anticipata e il ricambio generazionale nel mondo del lavoro con disposizioni che mirano a non incidere significativamente sul bilancio e la contabilità pubblica.

3.4. In conseguenza di tali osservazioni, deve ritenersi infondato il quarto motivo di ricorso, ove il ricorrente ha dedotto che la ex moglie è deceduta quando il suo diritto alla quota del TFS non era ancora sorto, perché la donna è morta dopo che l’ex marito ha cessato il rapporto di servizio e, dunque, aveva già acquisito il diritto al TFS, anche se non poteva ancora esigerne il pagamento.

Come sopra evidenziato, infatti, anche in caso di pensione anticipata “Quota 100”, il diritto al TFS sorge con la cessazione del rapporto di lavoro, ma la sua erogazione è differita al momento del raggiungimento dei requisiti di accesso al sistema pensionistico.

Allo stesso modo è da ritenersi infondato il quinto motivo di ricorso, poiché, come sopra evidenziato, l’erogazione del TFS, come la corresponsione del TFR, costituisce una condizione dell’azione, il quale è sufficiente che sussista al momento della decisione.

Nella specie, è incontestato che i figli del ricorrente abbiano agito in giudizio per ottenere la quota di TFS spettante alla madre, deceduta dopo la cessazione del rapporto di lavoro del padre e prima della percezione del TFS, che però è stato liquidato al ricorrente nel corso del giudizio e, dunque, era già percepito al momento della decisione.

4. Anche il secondo e il terzo motivo di ricorso, da esaminarsi congiuntamente per la stretta connessione esistente, risultano infondati.

4.1. Com’è noto, in via generale, all’erede si trasmettono tutte le posizioni attive e passive del defunto, tranne quelle di natura strettamente personale e quelle che di cui il defunto abbia disposto mediante legati.

Carattere strettamente personale deve riconoscersi ai diritti della personalità e ai diritti di famiglia, anche se in alcuni casi eccezionali il legislatore prevede la legittimazione ad esperire o proseguire azioni di stato o altre azioni spettanti al defunto (cfr. artt. 127 e 267 c.c.).

La legge non reca alcuna disposizione con riguardo alla successione nel diritto ad ottenere la quota di indennità di fine rapporto.

Questa Corte ha, comunque, già affermato che l’obbligo previsto dall’art. 12 bis L. n. 898 del 1970 di corrispondere all’ex coniuge la quota del trattamento di fine rapporto percepita all’atto della cessazione del rapporto di lavoro, ha natura patrimoniale, con la conseguenza che, in caso di decesso del coniuge tenuto alla prestazione, esso, se rimasto inadempiuto, rientra nell’asse ereditario, gravando sugli eredi del de cuius (così Cass., Sez. 1, Sentenza n. 4867 del 07/03/2006; v. anche Cass., Sez. 1, Sentenza n. 285 del 10/01/2005).

In motivazione è spiegato quanto segue: “Rileva il collegio che la L. n. 898 del 1970, art. 12 bis, “si inserisce nel plesso normativo concernente la regolamentazione dei rapporti patrimoniali tra divorziati, con la previsione della spettanza all’ex coniuge, nell’ambito dei principi solidaristici cui si ispira anche la disposizione relativa alla corresponsione allo stesso di una quota della pensione di reversibilità, di una quota parte del t.f.r. dovuto all’altro ex coniuge, subordinatamente alla condizione positiva della sussistenza del suo diritto all’assegno divorale ed a quella negativa del mancato passaggio a nuove nozze” (Cass. 10 gennaio 2005, n. 285). Alla base di tale disposizione normativa, con la quale si provvede alla ripartizione di un’entità economica maturata nel corso del rapporto di lavoro e del matrimonio grazie anche al contributo determinante dell’altro coniuge, si rinvengono sia profili assistenzialistici, evidenziati dal fatto che la disposizione stessa presuppone la spettanza dell’assegno divorale, sia, soprattutto, criteri di carattere compensativo, rapportati al contributo personale ed economico dato dall’ex coniuge alla formazione del patrimonio di ciascuno e di quello comune. Invero, se l’indennità di fine rapporto di lavoro corrisponde ad una quota del trattamento economico maturata in costanza di questo, è logico che il coniuge, il quale durante il matrimonio abbia contribuito alla formazione di tale trattamento, sia per questa parte legittimato a fruirne… Non può pertanto dubitarsi della natura patrimoniale dell’obbligo dell’ex coniuge di corrispondere all’altro ex coniuge la quota, spettantegli per legge, del trattamento di fine rapporto percepita all’atto della cessazione del rapporto di lavoro, con la conseguenza che, in caso di morte del coniuge tenuto alla prestazione, detto obbligo, qualora rimasto inadempiuto, rientra nell’asse ereditario, gravando sugli eredi del de cuius.”

Alle stesse conclusioni deve pervenirsi considerando la diversa ipotesi del decesso dell’ex coniuge avente diritto alla quota di TFS, intervenuto dopo che l’altro ex coniuge abbia cessato il rapporto di lavoro.

Come sopra evidenziato, in presenza delle condizioni previste dall’art. 12 bis L. n. 898 del 1970, il diritto di credito ivi previsto entra a far parte del patrimonio dell’ex coniuge divorziato con l’insorgenza del diritto di credito dell’altro ex coniuge all’indennità di fine rapporto, e dunque al momento della cessazione del rapporto di lavoro, anche se il lavoratore ha fatto ricorso al trattamento di pensione anticipata “Quota 100”.

Il credito alla quota di TFS di cui all’art. 12 bis L. n. 898 del 1970, alla stregua del corrispondente debito, ha natura patrimoniale e, pertanto, entra a far parte dell’attivo dell’asse ereditario dell’ex coniuge divorziato che ne abbia diritto, quando tale diritto è già sorto prima della morte di quest’ultimo, anche se la legge prevede il pagamento in un momento successivo al decesso, così consentendo al successore di agire per l’adempimento.

4.2. È, inoltre, infondata la censura contenuta nel quinto motivo di ricorso, nella parte in cui è dedotta l’assenza di una condizione dell’azione, in ragione del fatto che l’ex coniuge titolare dell’assegno divorzile è deceduto prima che della proposizione della domanda ai sensi dell’art. 12 bis L. n. 898 del 1970, formulata per la prima volta dagli eredi della donna.

Come sopra evidenziato, il diritto alla quota del TFS è entrato a far parte dell’asse ereditario, quale credito che gli eredi dell’avente diritto hanno legittimamente azionato una volta che è divenuto esigibile.

5. In conclusione il ricorso deve essere respinto in applicazione dei seguenti principi:

“In tema di collocamento in pensione anticipata secondo la cd. “Quota 100″, il diritto alla percezione dell’indennità di fine servizio sorge, come di regola, con la cessazione del rapporto di lavoro, ma il pagamento viene ex lege differito al momento in cui il lavoratore avrebbe conseguito il collocamento in pensione in base alla disciplina ordinaria, con la conseguenza che l’ex coniuge divorziato, che percepisce l’assegno divorzile e non è passato a nuove nozze, acquista il diritto ad ottenere la quota detta indennità, ai sensi dell’art. 12 bis L. n. 898 del 1970, con la cessazione del rapporto di lavoro dell’altro, fermo restando che costituisce condizione dell’azione l’effettiva percezione da parte di quest’ultimo della menzionata indennità.”

“In tema di divorzio, il diritto alla quota dell’indennità di fine servizio, spettante ai sensi dell’art. 12 bis L. n. 898 del 1970 ha carattere patrimoniale e può essere azionato dagli eredi dell’ex coniuge titolare dell’assegno divorzile, che non sia passato a nuove nozze, ove il decesso dell’avente diritto intervenga dopo la cessazione del rapporto di lavoro dell’ex coniuge obbligato, anche quando il pagamento da parte del datore di lavoro-pubblica amministrazione sia ex lege previsto, per ragioni di equilibrio di bilancio pubblico, in un momento successivo alla cessazione del rapporto di lavoro e intervenga dopo la proposizione della domanda, poiché, trattandosi di condizione dell’azione, è sufficiente che tale pagamento preceda la decisione”.

6. La novità delle questioni giustifica la compensazione delle spese del presente giudizio di legittimità.

7. Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater D.P.R. n. 115 del 2002, si deve dare atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello relativo al ricorso, se dovuto.

8. In caso di diffusione, devono essere omesse le generalità delle parti e dei soggetti menzionati nella decisione, a norma dell’art. 52 D.Lgs. n. 196 del 2003.

P.Q.M.

La Corte

rigetta il ricorso;

compensa interamente tra le parti le spese di lite;

dà atto, ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater D.P.R. n. 115 del 2002, della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello relativo al ricorso, se dovuto.

dispone che, in caso di diffusione della presente ordinanza, siano omesse le generalità delle parti e dei soggetti menzionati, a norma dell ‘art. 52 D.Lgs. n. 196 del 2003.

Conclusione

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Prima Sezione civile della Corte suprema di cassazione, il 4 giugno 2025.

Depositato in Cancelleria il 1 settembre 2025

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