SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
1. L’Agenzia delle entrate emetteva avviso di accertamento in riferimento all’anno d’imposta 2005 per recupero di maggiori imposte dirette derivante da assunte operazioni soggettivamente inesistenti e conseguente disconoscimento dei relativi costi per Euro 274.159,51. Nello specifico la società contribuente intratteneva rapporti con tale società (omissis) sedente negli Emirati Arabi. Per evitare questioni fiscali legate alla mancata reciprocità fra Italia ed Emirati, la (omissis) chiedeva trasferirsi le transazioni in un altro paese, e la (omissis) costituiva così una società inglese, la (omissis), che l’Agenzia delle entrate considerava mera società interposta e dunque procedeva ad applicare la disciplina relativa ai costi sostenuti in paesi cd. black list.
La CTP accoglieva il ricorso, e la CTR a sua volta, in ordine all’appello spiegato dall’Amministrazione, riteneva che la tecnologia “venduta” dalla contribuente era stata a sua volta dalla stessa “acquistata” e il relativo utile tassato in Italia, per cui respingeva il gravame.
Ricorre in cassazione l’Agenzia delle entrate con un motivo, avverso il quale resiste la contribuente a mezzo di controricorso.
Il ricorso è stato avviato alla trattazione in camera di consiglio in prossimità della quale il P.G. ha depositato le sue conclusioni chiedendo l’accoglimento del ricorso.
Motivi della decisione
1. Con l’unico motivo di ricorso si deduce la violazione dell’art. 110, commi 10 e 11, del TUIR.
2. Anzitutto deve escludersi l’inammissibilità del motivo ai sensi dell’art. 348 ter, c.p.c., in quanto a tacer d’altro esso non è fondato sul vizio delineato dall’art. 360, primo comma, num. 5, c.p.c., ma semmai sull’assunta violazione di legge di cui al num. 3.
Nel merito la normativa in esame prevede che, in caso di rapporti intercorsi con aziende aventi sede in paesi c.d. “black list” , tra i quali ratione temporis gli Emirati Arabi di cui si tratta, i relativi costi possano essere dedotti a condizione che sia provato che i contraenti esteri svolgono effettiva attività commerciale, che le operazioni poste in essere rispondono ad un effettivo interesse economico, che le stesse hanno avuto concreta esecuzione e, in ogni caso, che i costi non sono stati separatamente indicati nella dichiarazione annuale dei redditi (Cass. n. 4030 del 2015; Cass. 20081/14), requisito quest’ultimo poi eliminato dalla L. n. 296/2006 (l’operazione in questione risale comunque al 2005).
Nella specie, è incontestata l’effettività dell’operazione, ma ciò che l’Agenzia contesta è la sussistenza di un effettivo interesse economico, consistente all’evidenza nel risparmio del costo rispetto a quanto sarebbe accaduto approvvigionandosi in paesi a fiscalità ordinaria.
Siffatta interpretazione rende ragione della ratio della disposizione in parola, che si inserisce nella disciplina volta a disincentivare i rapporti commerciali con paesi a fiscalità privilegiata ove ciò non abbia una concreta giustificazione, ulteriore ovviamente rispetto al risparmio fiscale, che proprio in ragione della particolarità dei paesi in oggetto, dev’essere dimostrata.
La sentenza dei giudici d’appello invece fa coincidere l’interesse economico in parola con la sussistenza di un margine di utile fra il prezzo di acquisto della tecnologia (oggetto delle transazioni) e quello di sua rivendita, circostanza che però non serve a qualificare l’operazione effettuata con un paese black list, ma solo a verificare l’economicità in generale dell’operazione, all’uopo del tutto indifferente.
In altri termini non è la legislazione speciale per le operazioni con paesi black list a prevedere che le operazioni svolte da imprese siano realizzate con un margine di utile, mentre essa richiede piuttosto che l’interesse speciale sia rivestito proprio dal fatto di acquistare (o comunque di porre in essere l’operazione) in quel determinato paese a fiscalità privilegiata, per fattori specifici (es. legati alla produzione locale) che devono essere evidenziati e dimostrati da parte di chi effettua siffatta scelta.
La decisione impugnata è dunque frutto di un’erronea interpretazione del concetto di effettivo interesse economico delle operazioni, di cui al citato art. 110, TUIR.
La stessa deve quindi essere cassata, con rinvio al giudice d’appello il quale, conformandosi al principio qui espresso, procederà altresì alla liquidazione delle spese di lite del presente giudizio.
Conclusione
Così deciso in Roma, il 12 dicembre 2024.Depositato in Cancelleria il 28 gennaio 2025.