2. Interponeva appello l’imputato, censurando la qualificazione giuridica di entrambi i reati contestati ed il trattamento sanzionatorio.
3. Con sentenza in data 24/05/2018 la Corte di Appello di Reggio Calabria, in riforma della sentenza di primo grado, riduceva la pena in anni tre, mesi sei e giorni venti di reclusione. Rilevava la Corte territoriale che non vi era dubbio sul delitto di incendio: l’utilizzo di un liquido tanto infiammabile, il percorso seguito sino alla porta del bar, l’imbrattamento di una veranda in legno e moquette rendevano evidente l’intenzione non di danneggiare soltanto, bensì di provocare un vasto incendio; parimenti erano sussistenti le minacce aggravate ed accompagnate da atteggiamenti violenti. inoltre era stato corretto ritenere sussistente la recidiva, visti i precedenti penali e la maggiore capacità delinquenziale che emergeva dal nuovo episodio, così come non era possibile riconoscere le circostanze attenuanti generiche. Tuttavia vi era stato un erroneo metodo di calcolo della pena, che imponeva una correzione della stessa.
4. Avverso detta sentenza propone ricorso l’interessato a mezzo del difensore Avv. (omissis)
4.1. Con il primo motivo deduce, ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e), erronea applicazione di legge e manifesta illogicità della motivazione: sostiene che la sentenza impugnata aveva affermato di distinguere il reato di incendio da quello di danneggiamento mediante incendio sulla base dell’elemento soggettivo, ma poi aveva considerato soltanto elementi oggettivi, smentendo l’assunto e quasi affermando che da determinati elementi può desumersi soltanto un determinato reato, mentre era evidente che il ricorrente voleva solo danneggiare il locale e non cagionare un incendio, mosso da una ripicca che era proprio alla base della contestazione dei motivi futili.
4.2. Con il secondo motivo deduce, ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e), erronea applicazione di legge e manifesta illogicità della motivazione: lamenta che la gravità delle minacce era stata affermata senza una analisi critica delle deduzioni difensive e richiamando la motivazione del primo grado, trascurando che le frasi usate non erano necessariamente sintomatiche di gravi intenzioni e che le persone offese non si erano affatto allarmate.
4.3. Con il terzo motivo deduce, ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e), erronea applicazione di legge e manifesta illogicità della motivazione: afferma che la recidiva era stata ritenuta sulla base di quanto scritto dal primo giudice, quasi applicandola in via obbligatoria e senza specificare in cosa consisteva la maggiore pericolosità.
4.4. Con il quarto motivo deduce, ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e), erronea applicazione di legge e manifesta illogicità della motivazione: sostiene che le circostanze attenuanti generiche erano state rigettate con formule di stile e con una violazione del divieto di bis in idem, atteso che le stesse ragioni servivano a sostanziare la circostanza aggravante dei motivi futili.
5. In udienza le parti hanno concluso come riportato in epigrafe.
2. Il primo motivo di ricorso attiene alla tematica della qualificazione giuridica del reato di cui al capo A) della rubrica e lamenta una incongrua motivazione, la quale avrebbe individuato la fattispecie dell’incendio sulla sola base di elementi oggettivi e senza esaminare lo stato d’animo del ricorrente ed il suo astio nei confronti del locale al quale aveva appiccato le fiamme: in altri termini, se fosse stato esaminato più approfonditamente l’elemento soggettivo, sarebbe stato evidente che l’intento era soltanto quello di danneggiare per il mezzo del fuoco e non anche quello di provocare fiamme di vaste proporzioni.
Ma si tratta di un assunto non accoglibile.
E’ noto che il discrimine tra il reato di danneggiamento seguito da incendio (art. 424 c.p.) e quello di incendio (art. 423 c.p.) è segnato dall’elemento psicologico del reato. Nell’ipotesi prevista dall’art. 423 c.p. esso consiste nel dolo generico, cioè nella volontà di cagionare un incendio, inteso come combustione di non lievi proporzioni, che tende ad espandersi e non può facilmente essere contenuta e spenta. Il reato di cui all’art. 424 c.p. è, invece, caratterizzato dal dolo specifico, consistente nel voluto impiego del fuoco al solo scopo di danneggiare, senza la previsione che ne deriverà un incendio con le caratteristiche prima indicate o il pericolo di siffatto evento (Sez. 1, 07/05/2003, n. 25781).
Sussiste, pertanto, il delitto di incendio di cui all’art. 423 c.p. quando l’azione di appiccare il fuoco è finalizzata a cagionare l’evento con fiamme che, per le loro caratteristiche e per la loro violenza, tendano a propagarsi in modo da creare effettivo pericolo per la pubblica incolumità. Viceversa, sussiste il delitto di danneggiamento seguito da incendio allorchè il fatto viene realizzato con il solo intento, e cioè con il dolo specifico, di danneggiare la cosa altrui.
Tuttavia, nell’ipotesi in cui l’agente, pur proponendosi di danneggiare la cosa altrui, abbia realizzato, per i mezzi usati e per la vastità e le dimensioni del risultato raggiunto, un incendio di proporzioni tali da mettere in pericolo la pubblica incolumità, deve rispondere del delitto di incendio doloso e non già del meno grave reato di danneggiamento seguito da incendio (Sez. 1, 14/03/1995, n. 4506, Baldo; Sez. 5,n. 1697 del 25/09/2013, Rv. 258942).
Nella fattispecie, la Corte territoriale non ha affatto trascurato l’analisi critica delle risultanze istruttorie, poichè non ha esaminato soltanto rilievi di natura oggettiva bensì ha utilizzato i dati raccolti per approfondire il tema delle intenzioni del ricorrente: così, espressamente la sentenza impugnata richiama gli elementi rilevati “al fine di comprendere le rappresentazioni volitive del (omissis)” (pag. 7 della sentenza censurata); ed allora il giudice ha sottolineato che acquisiscono un significato indubbio in tal senso l’avere utilizzato un combustibile altamente infiammabile, l’avere sparso la benzina in una veranda con parti in legno e pavimentata con moquette, l’avere dato fuoco a materiali facilmente aggredibili dalle fiamme nonchè l’avere cosparso il carburante dalla serranda del locale sino alle siepi poco distanti: secondo la Corte territoriale tutti questi elementi disvelavano la consapevolezza inevitabile nel ricorrente della portata distruttrice che avrebbero avuto le fiamme cui stava per dare vita e della loro difficile governabilità, per cui – con motivazione esente da vizi logici o giuridici – viene tratta la conclusione che le reali intenzioni erano quelle di provocare un incendio di non lievi proporzioni, immediatamente efficace, distruttivo e difficile da contenere e da spegnere.
3. Il secondo motivo di ricorso lamenta la mancata analisi critica degli elementi raccolti in ordine al reato di cui al capo B) della rubrica e cioè la minaccia grave: sostiene il ricorrente che le frasi usate nel corso del litigio non erano necessariamente sintomatiche di gravi intenzioni e che le persone offese non si erano affatto allarmate.
La doglianza è manifestamente infondata.
La sentenza impugnata pone in evidenza in modo dettagliato il comportamento tenuto dal ricorrente, le frasi intimidatorie pronunziate prima di colpire il banconista ed altri presenti, l’avvertimento di abbassare lo sguardo di fronte a lui nonchè la frase inequivoca pronunziata dopo essere stato scacciato dal locale (e cioè: “Ora ti faccio vedere io, vengo e ti sparo”). Alla portata manifesta di questa frase si aggiungeva poi il fatto che, effettivamente, dopo poche ore il ricorrente cagionava l’incendio di cui sopra, confermando ancora di più la gravità delle minacce, il tenore indiscutibile delle espressioni utilizzate e la corretta riconducibilità nell’alveo del reato di cui alla norma contestata.
Non ha rilievo l’argomento secondo il quale le frasi non avevano una portata di terribile minaccia: in realtà, giova ribadire che, in tema di reati contro la persona, ai fini della configurabilità del reato di minaccia grave, ex art. 612 c.p., comma 2, rileva l’entità del turbamento psichico che l’atto intimidatorio può determinare sul soggetto passivo; pertanto, non è necessario che la minaccia di morte sia circostanziata, potendo benissimo, ancorchè pronunciata in modo generico, produrre un grave turbamento psichico, avuto riguardo alle personalità dei soggetti (attivo e passivo) del reato. Si tratta invero di reato di pericolo, sicchè è necessario che la minaccia – da valutarsi con criterio medio ed in relazione alle concrete circostanze del fatto – sia idonea a cagionare effetti intimidatori sul soggetto passivo, anche se il turbamento psichico non si verifichi in concreto (Sez. 5, n. 644 del 06/11/2013, Rv. 257951; Sez. 5, n. 44382 del 29/05/2015, Rv. 266055).
Nella fattispecie, la sentenza impugnata ha evidenziato la condotta specifica del ricorrente, l’uso della violenza fisica da parte sua, l’essere lui noto per il carattere irascibile, evidenziando che si trattava dunque di soggetto temuto, la cui minaccia di morte poteva aver cagionato effetti intimidatori sulle persone che avevano litigato con lui.
4. La terza doglianza del ricorrente sostiene che la recidiva era stata ritenuta a carico dell’imputato con una applicazione sostanzialmente automatica e priva di specificazioni circa il contenuto della maggiore pericolosità affermata.
L’argomentazione non può essere accolta.
Nell’applicazione della recidiva, è richiesta al giudice una specifica motivazione, verificando, oltre il mero riscontro formale dell’esistenza di precedenti penali, se la reiterazione dell’illecito sia effettivo sintomo di pericolosità, considerando la natura dei reati, il tipo di devianza che indicano, la qualità dei comportamenti, il livello di offensività delle condotte, la distanza temporale e il loro livello di omogeneità, l’eventuale occasionalità della ricaduta e ogni altro possibile sintomo della personalità del reo e del suo grado di colpevolezza (Sez. U, n. 5859 del 27/10/2011, Rv. 251690; Sez. 6, n. 16244 del 27/02/2013, Rv. 256183).
Tale dovere risulta adempiuto nel caso in cui, anche con argomentazione succinta, si dia conto del fatto che la condotta costituisce significativa prosecuzione di un processo delinquenziale già avviato (Sez. 6, n. 56972 del 20/06/2018, Rv. 274782).
Nel motivare l’applicazione della recidiva, la Corte territoriale si è uniformata al criterio sopra richiamato: infatti, anche richiamando sul punto la sentenza di primo grado, ha sottolineato la presenza di precedenti penali a carico del ricorrente, la gravità dei medesimi, la presenza fra di essi di un precedente penale specifico e la riprovevolezza della condotta posta in essere (nella sentenza di primo grado richiamata in quella impugnata – il giudice aveva posto in evidenza che era stata messa in pericolo la vita degli inermi abitanti dello stabile intaccato dall’incendio), per cui correttamente era stata desunta una maggior capacità delinquenziale dalla commissione del nuovo delitto.
5. L’ultima doglianza del ricorrente attiene alla tematica delle circostanze attenuanti generiche, asseritamente rigettate con formule di stile e con una violazione del divieto di bis in idem, poichè sarebbero state utilizzate le stesse ragioni servite a sostanziare la valutazione sulla circostanza aggravante dei motivi futili.
L’assunto è manifestamente infondato.
In primo luogo, va notato che la Corte territoriale ha respinto la richiesta di riconoscere le circostanze attenuanti generiche per via della gravità del pericolo cagionato e per l’elevato allarme connesso con tale condotta nonchè per il fatto che il delitto era stato commesso per motivi futili: ma sulla circostanza aggravante comune già la sentenza di primo grado aveva precisato che l’antefatto della vicenda era stata una banale lite originata, peraltro, dall’atteggiamento provocatorio ed aggressivo del ricorrente, il quale aveva cercato palesemente una ragione insignificante per instaurare un alterco violento.
Di conseguenza, non risponde al vero che le circostanze attenuanti generiche siano state negate per le medesime ragioni per le quali era stata riconosciuta la futilità dei motivi a delinquere: è vero, invece, che proprio detta futilità, unita alle connotazioni oggettive dei delitti commessi, aveva escluso la possibilità di riconoscere una diminuzione della pena.
Secondo l’orientamento di questa Corte, condiviso dal Collegio, in tema di circostanze attenuanti generiche, posto che la ragion d’essere della relativa previsione normativa è quella di consentire al giudice un adeguamento, in senso più favorevole all’imputato, della sanzione prevista dalla legge, in considerazione di peculiari e non codificabili connotazioni tanto del fatto quanto del soggetto che di esso si è reso responsabile, ne deriva che la meritevolezza di detto adeguamento non può mai essere data per scontata o per presunta, sì da dar luogo all’obbligo, per il giudice, ove questi ritenga invece di escluderla, di giustificarne, sotto ogni possibile profilo, l’affermata insussistenza.
Al contrario, è la suindicata meritevolezza che necessita essa stessa, quando se ne affermi l’esistenza, di apposita motivazione dalla quale emergano, in positivo, gli elementi che sono stati ritenuti atti a giustificare la mitigazione del trattamento sanzionatorio; trattamento la cui esclusione risulta, per converso, adeguatamente motivata alla sola condizione che il giudice, a fronte di specifica richiesta dell’imputato volta all’ottenimento delle attenuanti in questione, indichi delle plausibili ragioni a sostegno del rigetto di detta richiesta, senza che ciò comporti tuttavia la stretta necessità della contestazione o della invalidazione degli elementi sui quali la richiesta stessa si fonda (Sez. 1, n. 11361 del 19.10.1992, Rv 192381).
Dunque, per come scritto in precedenza, il giudice ha motivato in modo congruo sul punto, richiamando i fattori valutativi presi in considerazione e dipanando la sua convinzione sulla base delle dinamiche dell’accaduto e della personalità dimostrata dal ricorrente.
In ogni caso, la mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche è giustificata da motivazione esente da manifesta illogicità, anche considerato il principio affermato da questa Corte secondo cui non è necessario che il giudice di merito, nel motivare il diniego della concessione delle attenuanti generiche, prenda in considerazione tutti gli elementi favorevoli o sfavorevoli dedotti dalle parti o rilevabili dagli atti, ma è sufficiente che egli faccia riferimento a quelli ritenuti decisivi o comunque rilevanti, rimanendo disattesi o superati tutti gli altri da tale valutazione (Sez. 2, sent. n. 3609 del 18/01/2011, Sermone e altri, Rv. 249163).
6. Alla dichiarazione di inammissibilità del ricorso consegue di diritto, ai sensi dell’art. 616 c.p.p., comma 1, la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e, in mancanza di elementi atti ad escludere la colpa nella determinazione della causa di inammissibilità (Corte Cost. sentenza n. 186 del 2000), al versamento a favore della Cassa delle Ammende di una sanzione pecuniaria che si stima equo determinare, tra il minimo e il massimo previsti, in Euro 3.000,00.
Così deciso in Roma, il 17 maggio 2019.
Depositato in Cancelleria il 4 luglio 2019
