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Cassazione civile sez. III, 24/04/2024, n. 11063

Massima

La responsabilità di un ente pubblico, per danni cagionati da fauna selvatica, allorché venga vagliata alla stregua dei principi generali sanciti dall’articolo 2043 cod. civ., comporta che il danneggiato risulti gravato dall’onere di provare non solo il danno ma anche il concreto comportamento colposo ascrivibile all’ente tenuto al controllo della fauna, prova da ritenersi raggiunta allorché si dimostri che l’ente suddetto non abbia adottato adeguate e sufficienti misure atte ad evitare che la fauna selvatica non provocasse danni alle persone e cose.

NDR: in senso conforme alla prima parte della massima Cass. 19 luglio 2017, n. 27543 e alla seconda Cass. 24 settembre 2002, n. 13907.

Supporto alla lettura

RESPONSABILITA’ CIVILE

La responsabilità civile si riferisce a comportamenti illeciti che violano le norme del codice civile. Può essere di due tipi: contrattuale o extracontrattuale. Come conseguenza il responsabile deve effettuare un risarcimento del danno causato.

Ambito oggettivo di applicazione

…omissis…

Fatti di causa

1. — ricorre, sulla base di cinque motivi, per la cassazione della sentenza n. 61/21, del 22 gennaio 2021, del Tribunale di Macerata, che – accogliendo il gravame esperito dalla Regione Marche avverso la sentenza n. 562/19, del 18 maggio 2019, del Giudice di pace di Macerata – ne ha respinto la domanda di risarcimento dei danni materiali dallo stesso subiti in occasione di un sinistro occorsogli, il 27 novembre 2011, allorché la sua autovettura entrò in collisione con un cinghiale, nel tratto della strada provinciale n. 26 posta nel territorio del Comune di —.

2. Riferisce, in punto di fatto, l’odierno ricorrente di aver adito l’autorità giudiziaria, affinché essa – in relazione al sinistro sopra meglio descritto – volesse “accertare e dichiarare la responsabilità della Regione Marche” e, per l’effetto, “volerla condannare al risarcimento di tutti i danni subiti, mediante pagamento in suo favore della somma di Euro 3.089,25, o di quella maggiore o minore ritenuta di giustizia, oltre al fermo tecnico, per la cui quantificazione si rimetteva al prudente apprezzamento del Giudice”.

Accolta in prime cure la domanda risarcitoria, che veniva espressamente ricondotta alla previsione di cui all’art. 2043 cod. civ., la stessa veniva rigettata in appello, all’esito di gravame esperito dalla Regione Marche, e ciò in ragione della ritenuta assenza di “prove dell’addebitabilità del sinistro a comportamenti imputabili” alla stessa.

3. Avverso la sentenza del Tribunale maceratese ha proposto ricorso per cassazione l’—, sulla base – come detto – di cinque motivi.

3.1. Il primo motivo denuncia – ex art. 360, comma 1, n. 3), cod. proc. civ. – violazione degli artt. 1965, 1966 e 1967 cod. civ., nonché degli artt. 16, comma 1, lett. c), e 16-bis della legge regionale della Regione Marche del 15 ottobre 2001, n. 20, per lamentare la mancata declaratoria di estinzione del giudizio di appello per intervenuta rinuncia al gravame.

Evidenzia il ricorrente che, dopo la sentenza pronunciata dal primo giudice, era pervenuta al proprio legale – da parte della Regione Marche – una comunicazione telematica, recante “modulo dati” per il “risarcimento sinistri stradali causati da fauna selvatica”, da “utilizzare per il completamento della pratica del suo assistito”. Ad essa era allegata una dichiarazione da sottoscrivere “al fine di dirimere ogni controversia pendente relativamente ai crediti in questione”, di cui alla sentenza suddetta, ed “ottenerne il pagamento della sorte secondo tempi certi e brevi”, con contestuale dichiarazione “di rinunciare agli interessi legali maturati dal giorno del sinistro”.

Ciò detto, avrebbe errato il giudice di appello nell’escludere, nel caso di specie, la sussistenza di una rinuncia al gravame, da parte della Regione. Esito, questo, al quale il Tribunale di Macerata perveniva sul rilievo che “l’esecuzione spontanea della sentenza di primo grado (cioè prima della notifica del precetto)” non potesse “considerarsi univoco indizio della implicita rinuncia alla impugnazione”. E ciò perché, nel caso di specie, l’adempimento – sempre secondo il giudice di appello – aveva “fatto seguito alla notifica della impugnata sentenza, atto non solo prodromico alla successiva notifica del precetto, ma anche finalizzato alla decorrenza del termine breve di appello”, sicché la condotta della Regione “è stata evidentemente intesa ad evitare l’esecuzione”.

Assume, per contro, il ricorrente che quella tenuta dalla Regione è stata una “condotta incompatibile con la volontà di insistere nel gravame non trattandosi di spontanea esecuzione della sentenza esecutiva ex lege”, giacché posta in essere, non all’esito della notificazione della decisione del primo giudice, bensì dopo la proposizione dell’atto di appello. Inoltre, “significato dirimente” assumerebbe la circostanza che, nella specie, risultava “proposto il pagamento della sola sorte condizionato alla rinuncia agli accessori riconosciuti nella sentenza emessa dal primo Giudice e ciò “al fine di dirimere ogni controversia pendente relativamente ai crediti in questione””, giacché essa confermerebbe che “la menzionata e-mail” doveva “intendersi come volta a definire in via transattiva la controversia mediante reciproche concessioni”, e ciò “d’ordine della Dirigente”, soggetto abilitato – secondo la normativa regionale meglio specificata nella rubrica del presente motivo e sopra richiamata – a formulare proposte transattive.

In conclusione, il comportamento della Regione Marche si palesa – secondo il ricorrente – “caratterizzato da un connotato di volontarietà e di spontaneità che impedisce di assimilare la situazione venuta in essere a quella dell’esecuzione spontanea senza riserve della sentenza suscettibile di esecuzione coattiva, nelle quali la giurisprudenza esclude la configurabilità dell’acquiescenza”.

3.2. Il secondo motivo denuncia – ex art. 360, comma 1, nn. 3) e 5), cod. proc. civ. – violazione degli artt. 2043,2052 e 2697 cod. civ., degli artt. 115, comma 1, e 116 cod. proc. civ., in relazione alla “mancata prova della condotta colposa in capo alla Regione Marche” e “omesso esame circa un fatto storico decisivo per il giudizio risultante dagli atti processuali, oggetto di discussione tra le parti”.

Confermata dalla Corte d’appello la statuizione – già adottata dal primo giudice – con cui si era ritenuto che, per danni causati dalla fauna selvatica, “la legittimazione passiva spetti ora alla Regione Marche che risponde ai sensi dell’art. 2043 cod. civ.”, la domanda risarcitoria veniva, però, respinta, accogliendo il motivo di gravame con cui era stata denunciata “la completa mancanza di prova della condotta lesiva in capo all’appellante”. Ai fini, infatti, dell’accoglimento della domanda di risarcimento dei danni da fauna selvatica – si afferma nella sentenza qui impugnata – risultano necessarie “prove dell’addebitabilità del sinistro a comportamenti imputabili alla Regione o all’Anas, non potendo costituire oggetto di obbligo giuridico per entrambe la recinzione di tutte le strade e la segnalazione generalizzata di tutti i perimetri boschivi”.

Rileva, tuttavia, l’odierno ricorrente di aver già argomentato – in sede di appello – che il Consiglio regionale marchigiano, con riferimento alla presenza dei cinghiali nel territorio antropizzato della Regione, aveva predisposto, nell’ambito del piano faunistico venatorio, un programma di “eradicazione della specie”, nulla, però, avendo “fatto per raggiungere tale obiettivo e neppure per avviare una pianificazione territoriale che tendesse a tale scopo”, ciò, pertanto, valendo a integrare il profilo di colpa ritenuto, invece, carente dal Tribunale di Macerata. Inoltre, si era pure segnalato come “il Regolamento Regionale 23 marzo 2012, n. 3, relativo alla “Disciplina per la gestione degli ungulati nel territorio regionale, in attuazione della legge regionale 5 gennaio 1995, n. 7”, al suo art. 4 (Pianificazione territoriale), preveda “la ripartizione del territorio in tre zone omogenee, fra cui la zona c) “coincidente con il territorio prevalentemente interessato da produzioni agricole di rilevante interesse economico e con elementi antropici diffusi”” (tra i quali rientra il Comune di —), “ove la presenza del cinghiale determina significativi impatti negativi sulle attività umane”, stabilendo che la gestione dovesse essere “tesa al raggiungimento di densità prossime a zero individui per chilometro quadrato con seminativi superiori al 70%”.

Si evidenzia, poi, come il giudice di appello abbia pure affermato l’esistenza di “un onere in capo al danneggiato di provare quale fosse la condotta alternativa dovuta”, ossia quella che, ove realizzata dalla Regione, “avrebbe consentito di evitare l’evento”. Tuttavia, una simile impostazione – come si assume essere stato chiarito da questa Corte – è frutto di una “confusione tra omissioni in senso stretto e cosiddette omissioni nell’azione”, essendo ogni condotta colposa “caratterizzata da una omissione, ossia dal mancato rispetto di regole cautelari”, ciò che, però, non significa “che si tratti di una condotta omissiva, ossia che il danno è causato da una omissione”, ma “piuttosto di una condotta attiva caratterizzata dall’omesso rispetto delle regole cautelari proprie” (è citata Cass. Sez. 3, sent. 15 marzo 2019, n. 7362, Rv. 65325901).

Nella specie, la Regione, in base alla normativa da essa stessa emanata, “ha l’obbligo di porre in essere tutte le misure dalla medesima dettate per impedire il verificarsi di incidenti stradali provocati dalla fauna selvatica”, sicché ad integrare la colpa – è l’assunto del ricorrente – sarebbe sufficiente la “violazione di una cautela specifica che non può dirsi, come sostenuto dalla controparte, inesigibile o rispetto alla quale il danno sia dovuto al fortuito, non avendo l’Ente posto in essere alcunché di concreto finalizzato al raggiungimento degli obiettivi prefissati”.

3.3. Il terzo motivo denuncia – ex art. 360, comma 1, n. 3), cod. proc. civ. – violazione dell’art. 2052 cod. civ. e degli artt. 112 e 113, comma 1, cod. proc. civ., in relazione al “potere del Giudice di qualificare la fattispecie in modo diverso da quello prospettato dalla parte”, con conseguente “applicabilità del titolo di responsabilità ex art. 2052 cod. civ.”.

Il ricorrente si duole del fatto che il giudice di appello abbia ritenuto di non poter riqualificare la domanda, proposta ai sensi dell’art. 2043 cod. civ., in quella di cui all’art. 2052 cod. civ., se non incorrendo nel vizio di ultrapetizione.

Assume, al riguardo, il ricorrente che l’art. 112 cod. proc. civ. “non osta a che il Giudice renda una pronuncia in base a una norma giuridica diversa da quella invocata dall’istante laddove la pronuncia si fondi su fatti ritualmente allegati e provati”, contemplando tale norma “solo il divieto di attribuire alla parte un bene della vita diverso da quello richiesto”.

Né, d’altra parte, la riqualificazione della domanda si sarebbe potuta ritenere preclusa dall’esistenza di un giudicato implicito, nella specie non configurabile, “trattandosi di mera qualificazione giuridica”, sicché l’attore, “totalmente vittorioso in primo grado”, non aveva “l’onere di proporre appello incidentale al fine di far ricondurre la responsabilità del danneggiante ad una diversa fonte”.

3.4. Il quarto motivo denuncia – ex art. 360, comma 1, n. 3), cod. proc. civ. – violazione e falsa applicazione degli artt. 2043,2052,2054 e 2697 cod. civ. e dell’art. 115 cod. proc. civ., nonché dell’art. 1227, comma 1, cod. civ.

La sentenza impugnata, pur dando atto dell’avvenuto mutamento – in materia di danno da fauna selvatica – della giurisprudenza di legittimità, orientata ormai ad inquadrare tale fattispecie nella previsione di cui all’art. 2052 cod. civ., ha escluso la possibilità di applicare tale norma ed ha rigettato la domanda risarcitoria sul duplice rilievo che “nulla è stato provato non solo in punto di colpa della convenuta, ma neppure in punto di esclusione di qualsivoglia responsabilità in capo all’appellato ed alla di lui condotta di guida”.

Assume il ricorrente che la sentenza impugnata avrebbe disatteso i principi relativi “all’onere della prova, giacché in tema di responsabilità del proprietario per danni causati dalla condotta del proprio animale la Suprema Corte ha più volte precisato che la responsabilità del proprietario, o di chi si serve di un animale, di cui all’art. 2052 cod. civ., si fonda non su un comportamento o un’attività – commissiva od omissiva – ma su una relazione intercorrente tra i predetti e l’animale, il cui limite risiede nel caso fortuito, la prova del quale – a carico del convenuto – può anche avere a oggetto il comportamento del danneggiato, purché avente carattere di imprevedibilità, inevitabilità e assoluta eccezionalità”.

Circa la condotta di guida del ricorrente, il Tribunale ha ritenuto, invece, mancante la prova che la stessa “fosse connotata da speciale prudenza”.

In relazione al primo profilo si ribadisce che alla Regione Marche “si è rimproverata la omessa realizzazione e il mancato rispetto del piano faunistico – venatorio approvato prima dalla Giunta Regionale e poi dalla Assemblea legislativa”, tale, dunque, essendo “la specifica condotta colposa imputata all’Ente in relazione ai suoi compiti di tutela e gestione della fauna selvatica”.

Quanto, invece, al secondo profilo, il ricorrente assume di aver dato “la dimostrazione della presenza dell’animale sulla carreggiata, dell’impatto tra lo stesso e il veicolo e che la condotta dell’animale sia stata la causa dell’evento dannoso, così come si è provato, ai sensi dell’art. 2054 cod. civ., comma 1, che nulla il ricorrente potesse fare per evitare il danno, avendo adottato una condotta di guida del tutto rispettosa delle norme del codice della strada e di quelle di comune prudenza e diligenza”.

D’altro canto, “la presunzione di colpa ex art. 2054, comma 2, cod. civ., ha funzione meramente sussidiaria, sicché, ritenendo dimostrato” – si legge in ricorso – “che l’incidente si sia verificato per esclusiva colpa del comportamento dell’animale selvatico e che, per converso, nessuna colpa sia ravvisabile nella condotta del conducente, quest’ultimo era esonerato dalla presunzione suddetta e non era, pertanto, tenuto a provare di avere fatto tutto il possibile per evitare il danno”.

Sussisterebbe, quindi, violazione dell’art. 2697 cod. civ., “avendo il Giudice di appello applicato la regola di giudizio fondata sull’onere della prova in modo erroneo”, nonché dell’art. 115 cod. proc. civ., “non essendo state poste a fondamento della decisione le prove dedotte dalle parti e avendo il Tribunale giudicato in contraddizione con la prescrizione della norma, fermo il dovere di considerare i fatti non contestati”.

3.5. Il quinto motivo denuncia – ex art. 360, comma 1, n. 3), cod. proc. civ. – violazione dell’art. 2054, comma 2, cod. civ.

Assume il ricorrente che, una volta “provato l’urto tra l’animale selvatico e l’autovettura e il nesso eziologico fra la condotta dell’animale stesso e il danno”, ritenuta dal Tribunale “non dimostrata una condotta di guida del conducente connotata da speciale prudenza né una condotta dell’animale selvatico caratterizzata da imprevedibilità e irrazionalità tali per cui l’impatto sarebbe stato inevitabile anche osservando ogni cautela”, l’esito di un simile giudizio di fatto si sarebbe dovuto sostanziare, quantomeno, nell’applicazione dell’art. 2054, comma 2, cod. civ.

4. Ha resistito all’avversaria impugnazione, con controricorso, la Regione Marche, chiedendo che la stessa sia dichiarata inammissibile o, comunque, rigettata.

5. La trattazione del presente ricorso è stata fissata ai sensi dell’art. 380-bis.1 cod. proc. civ.

6. Entrambe le parti hanno depositato memoria.

7. Il Collegio si è riservato il deposito nei successivi sessanta giorni.

Ragioni della decisione

8. Il ricorso va accolto, nei limiti di seguito indicati, ovvero in relazione al suo secondo motivo.

8.1. Pregiudiziale è, tuttavia, lo scrutinio del primo motivo, giacché il suo eventuale accoglimento – da escludersi, essendo lo stesso non fondato, per ragioni di cui si dirà – determinerebbe la cassazione senza rinvio della sentenza impugnata, stante il passaggio in giudicato della sentenza resa in prime cure.

8.1.1. Il motivo deduce, infatti, che la condotta della Regione, consistita nel pagamento – che si assume essere stato “spontaneo” – della somma oggetto della pronuncia del primo giudice (previa rinuncia, da parte del danneggiato, agli interessi sulla stessa liquidatagli), integrerebbe acquiescenza a quella decisione, donde l’inammissibilità dell’appello.

Questa Corte, però, ha affermato che “l’acquiescenza alla sentenza, preclusiva dell’impugnazione ai sensi dell’art. 329 cod. proc. civ. (configurabile solo anteriormente alla proposizione del gravame, giacché successivamente allo stesso è possibile solo una rinunzia espressa all’impugnazione da compiersi nella forma prescritta dalla legge), consiste nell’accettazione della pronuncia, ossia nella manifestazione, da parte del soccombente, della volontà di non impugnare, la quale può avvenire sia in forma espressa che tacita, potendo, in quest’ultimo caso, ritenersi sussistente soltanto quando l’interessato abbia posto in essere atti assolutamente incompatibili con la volontà di avvalersi dell’impugnazione e dai quali sia possibile desumere, in maniera precisa ed univoca, il proposito di non contrastare gli effetti giuridici della pronuncia”, sicché proprio “la spontanea esecuzione della decisione di primo grado”, da parte del soccombente, “non comporta acquiescenza alla sentenza, trattandosi di un comportamento che può risultare fondato anche sulla mera volontà di evitare le eventuali ulteriori spese di precetto e dei successivi atti di esecuzione” (Cass. Sez. 6-5, ord. 11 giugno 2014, n. 13293, Rv. 631114-01; Cass. Sez. 5, sent. 20 agosto 2004, n. 16460, Rv. 576029-01; Cass. Sez. 5, sent. 24 novembre 2000, n. 15212, Rv. 542155-01).

Nella specie, dunque, è da escludere che in relazione alla fattispecie in esame – invio di una comunicazione, da parte della Regione, al legale del già attore, con richiesta di sottoscrizione di un modulo per conseguire la somma liquidata dal primo giudice, al netto degli interessi sin ad allora maturati sulla stessa – possa ritenersi sussistente una “precisa ed univoca” manifestazione del “proposito di non contrastare gli effetti giuridici della pronuncia”, e ciò, a tacer d’altro, per il fatto che essa è intervenuta, come afferma lo stesso ricorrente, “successivamente alla notifica dell’atto di citazione in appello” (cfr. pag. 6 del ricorso). Da tale momento, infatti, come si è sopra chiarito “è possibile solo una rinunzia espressa all’impugnazione da compiersi nella forma prescritta dalla legge”.

Resta inteso, peraltro, che – in ragione della cassazione, come si dirà, della sentenza impugnata e del rinvio al Tribunale di Macerata per una rinnovata decisione sull’appello della Regione -in caso di conferma della pronuncia del primo giudice dovrà valutarsi se la volontà manifestata dall’Arbusti, in ordine agli interessi, implichi rinuncia agli stessi, ovvero volontà di accettare la sorta capitale a titolo di anticipo, in attesa della compiuta definizione della controversia.

8.2. Il secondo motivo di ricorso, invece, è fondato, per quanto di ragione.

8.2.1. Va premesso che, essendosi il primo giudice pronunciato sull’eccezione di difetto di legittimazione della Regione, respingendola sul presupposto che essa fosse l’ente responsabile a norma dell’art. 2043 cod. civ., sulla qualificazione giuridica della domanda si è formato un giudicato, per contrastare il quale l’odierno ricorrente avrebbe dovuto proporre appello incidentale (in tal senso, “a contrario”, Cass. Sez. 3, ord. 8 maggio 2023, n. 12159, Rv. 667585-01).

Né in senso opposto alla qui raggiunta conclusione rileva il recente arresto di questa Corte (si tratta di Cass. Sez. 3, sent. 10 novembre 2023, n. 31330, Rv. 669467-01), intervenuto sul tema del giudicato relativo alla qualificazione giuridica dell’azione di danno da “fauna selvatica”, giacché esso vale, piuttosto, come conferma – e non smentita – di quanto qui predicato. E ciò perché detta pronuncia non solo ha riguardato una fattispecie in cui “la scarna esposizione dei fatti” non consentiva – diversamente dal caso che qui occupa – “di stabilire se” vi fosse stata, o meno, “una pronuncia espressa sull’inapplicabilità dell’art. 2052 cod. civ.” in luogo dell’art. 2043. Ma, soprattutto, perché il suddetto arresto reputa, comunque, che sulla qualificazione giuridica si formi giudicato, allorché essa – come nel caso oggi in esame, nel quale il giudice di prime cure era stato chiamato a decidere in merito ad un’eccezione di difetto di legittimazione passiva, sollevata dalla convenuta – risulti aver “condizionato l’impostazione e la definizione dell’indagine di merito”, in uno alla concreta estrinsecazione degli oneri e dei poteri di allegazione e prova delle parti contrapposte.

Chiarito, dunque, che la domanda – in appello – andava esaminata esclusivamente ai sensi dell’art. 2043 cod. civ. (e quindi restando preclusa, per la peculiarità della vicenda processuale, la sussunzione della fattispecie entro l’indirizzo più recente di questa Corte che predica l’applicabilità dell’art. 2052 cod. civ., la cui pronuncia capofila va individuata in Cass. Sez. 3, sent. 20 aprile 2020, n. 7969, Rv. 657572-01), l’esito dello scrutinio condotto, in quella sede, dal Tribunale di Macerata, risulta effettivamente meritevole di censura.

8.2.2. Infatti, all’esclusione della responsabilità della Regione Marche, per “completa mancanza di prova della condotta lesiva” (sotto il profilo dell’impossibilità di addebitare ad essa il sinistro, stante l’insussistenza di un obbligo giuridico, a suo carico, di procedere alla “recinzione di tutte le strade e la segnalazione generalizzata di tutti i perimetri boschivi”), il giudice di seconde cure è pervenuto omettendo di valutare il fatto decisivo costituito dalla mancata attuazione dell’intervento, pianificato dalla stessa Regione, per la eradicazione degli ungulati in territori antropizzati, tra i quali rientrava anche quello del Comune di —.

Invero, come correttamente osserva il ricorrente, la responsabilità di un ente pubblico, per danni cagionati da fauna selvatica, allorché venga vagliata “alla stregua dei principi generali sanciti dall’articolo 2043 cod. civ.”, comporta che il danneggiato risulti gravato “dall’onere di provare non solo il danno ma anche il concreto comportamento colposo ascrivibile all’ente tenuto al controllo della fauna” (Cass. Sez. 3, ord. 19 luglio 2017, n. 27543, non massimata), prova da ritenersi raggiunta allorché si dimostri che l’ente suddetto non abbia “adottato adeguate e sufficienti misure atte ad evitare che la fauna selvatica non provocasse danni alle persone e cose” (così, in motivazione, Cass, Sez. 3, sent. 24 settembre 2002, n. 13907, Rv. 557557-01).

In questa prospettiva, il Tribunale di Macerata avrebbe dovuto confrontarsi con quanto argomentato dall’odierno ricorrente, in sede di appello. Difatti, il medesimo aveva dedotto che il Consiglio regionale marchigiano, con riferimento alla presenza dei cinghiali nel territorio antropizzato della Regione, aveva predisposto, nell’ambito del piano faunistico venatorio, un programma di “eradicazione della specie”, nulla, però, avendo “fatto per raggiungere tale obiettivo e neppure per avviare una pianificazione territoriale che tendesse a tale scopo”, ciò, pertanto, valendo, in ipotesi, a integrare il profilo di colpa ritenuto, invece, carente dal Tribunale di Macerata. Inoltre, si era pure segnalato che “il Regolamento Regionale 23 marzo 2012, n. 3, relativo alla “Disciplina per la gestione degli ungulati nel territorio regionale, in attuazione della legge regionale 5 gennaio 1995, n. 7”, al suo art. 4 (Pianificazione territoriale), preveda “la ripartizione del territorio in tre zone omogenee, fra cui la zona c) “coincidente con il territorio prevalentemente interessato da produzioni agricole di rilevante interesse economico e con elementi antropici diffusi”” (tra i quali rientra il Comune di —), “ove la presenza del cinghiale determina significativi impatti negativi sulle attività umane”, stabilendo che la gestione sia “tesa al raggiungimento di densità prossime a zero individui per chilometro quadrato con seminativi superiori al 70%”.

Si trattava di una duplice circostanza “decisiva”, nel senso che la sua disamina sarebbe stata suscettibile di determinare “un esito diverso della controversia” (cfr., tra le molte, Cass. Sez. 6-5, ord. 4 ottobre 2017, n. 23238, Rv. 646308-01; Cass. Sez. 2, ord. 29 ottobre 2018, n. 27415, Rv. 651028-01), in particolare quanto alla dimostrazione dell’assenza di quelle “adeguate e sufficienti misure atte ad evitare che la fauna selvatica non provocasse danni alle persone e cose”.

Il secondo motivo va, dunque, accolto in ragione della riscontrata omissione, con assorbimento dei restanti tre.

9. In conclusione, il secondo motivo di ricorso va accolto per quanto di ragione e la sentenza impugnata va cassata in relazione, rinviando al Tribunale di Macerata, in persona di diverso magistrato, per la decisione sul merito, oltre che sulle spese di lite, ivi comprese quelle del presente giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte rigetta il primo motivo di ricorso, accoglie il secondo e dichiara assorbiti i restanti; cassa in relazione la sentenza impugnata e rinvia al Tribunale di Macerata, in persona di diverso magistrato, per la decisione sul merito, oltre che sulle spese di lite, ivi comprese quelle del presente giudizio di legittimità.

Allegati

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