RILEVATO CHE:
La Corte di appello di Bologna, nel giudizio di separazione personale tra (omissis) e (omissis) dal cui matrimonio erano nate le figlie per quanto interessa, ha rigettato l’appello principale proposto da (omissis) con compensazione integrale delle spese di lite in ragione della contestuale declaratoria di inammissibilità dell’appello principale e dell’appello incidentale proposti da (omissis).
(omissis) ha proposto ricorso per cassazione con tre mezzi.
(omissis) ha replicato con controricorso.
CONSIDERATO CHE:
1.1. Con il primo motivo (omissis) censura la sentenza ai sensi dell’articolo 169, secondo comma, cod. proc. civ. nella parte in cui – pur ritenendo perentorio il termine previsto da detto articolo per il deposito del fascicolo di parte, a seguito della riserva in decisione della causaha giudicato inammissibile la domanda di riforma della sentenza di primo grado sul punto, per difetto di interesse in sede di appello, sulla considerazione che la produzione documentale, pur tardiva in primo grado era, tuttavia, ammissibile in secondo grado, perché non relativa a prove “nuove”. La ricorrente sostiene che, in tal modo, sarebbe stato violato il principio del contraddittorio.
Nell’ambito di tale motivo, con riferimento all’interpretazione fornita dal diritto vivente su portata ed applicabilità dell’articolo 169 secondo comma cit., viene prospettata una possibile questione di legittimità costituzionale per violazione degli artt. 24, 111 e 3 della Cost.
1.2. Il motivo è infondato.
Come espone la stessa ricorrente, la Corte di appello ha ritenuto fondata, in tesi, la doglianza svolta nei confronti della prima decisione che aveva ritenuto utilizzabili i documenti depositati nel fascicolo di parte, ridepositato dal (omissis) solo oltre il termine di cui all’art.169, secondo comma, cod. proc. civ., condividendo con la ricorrente la tesi della natura perentoria del termine; ha, tuttavia, escluso la concreta rilevanza di ciò in ragione dell’effetto devolutivo conseguente all’introduzione del gravame ed al fatto che nel caso concreto, (omissis) aveva provveduto, in secondo grado, al rituale deposito del fascicolo di parte e dei documenti ivi allegati.
Come già affermato da questa Corte, sebbene il termine entro il quale, a norma dell’art. 169, secondo comma, cod. proc. civ., deve avvenire il deposito del fascicolo di parte, ritirato all’atto della rimessione della causa al collegio, sia perentorio, la sua inosservanza produce effetti limitati alla decisione del giudice di prime cure, sicché il deposito del fascicolo nel giudizio di appello non costituisce introduzione di nuove prove documentali, con la conseguenza che il giudice di appello deve tenerne conto ai fini della decisione (Cass. n. 14096/2022; conf. Cass. n. 21571/2020, Cass, n. 26030/2014), sempre che i documenti contenuti nel fascicolo siano stati prodotti, nel giudizio di primo grado, nell’osservanza delle preclusioni probatorie (Cass._n. 28462/2013; Cass. n. 29309/2017).
La decisione risulta, pertanto, conforme alla giurisprudenza di legittimità.
Inoltre, la ricorrente, che ha potuto esercitare tutti i suoi diritti volti a verificare la corrispondenza dei documenti con quelli già ritualmente prodotti in primo grado, e far valere, ove del caso, la violazione dei limiti imposti dall’art.345 cod.proc.civ., non illustra in cosa si sia sostanziata la violazione del contraddittorio, posto che nel proporre i motivi di appello avrebbe potuto far valere la eventuale arbitraria consistenza dei documenti di parte ridepositati tardivamente e poi prodotti in sede di gravame – e cioè di quanto preso in esame dalla Corte di appello per pervenire alla decisione – rispetto a quelli originariamente depositati nel fascicolo di parte, ma – alla stregua del ricorso- non sembra che lo abbia fatto.
In proposito è decisivo osservare che la denuncia di vizi fondati sulla pretesa violazione di norme processuali non tutela l’interesse all’astratta regolarità dell’attività giudiziaria, ma garantisce solo l’eliminazione del pregiudizio subito dal diritto di difesa della parte in conseguenza della denunciata violazione. Con la conseguenza che risulta inammissibile l’impugnazione con la quale si lamenti un mero vizio del processo, senza prospettare anche le ragioni per le quali l’erronea applicazione della regola processuale abbia comportato, per la parte, una effettiva e concreta lesione del diritto di difesa o altro pregiudizio per la decisione di merito (Cass. n.23638/2016; Cass. n.26831/2014).
Ne consegue la irrilevanza della questione di costituzionalità prospettata in termini astratti ed avulsi dalla concreta vicenda processuale.
2.1. Con il secondo motivo si censura la sentenza per avere omesso di considerare il fatto decisivo, costituito – a parere della ricorrente – dalla sentenza n. 6121/2016 emessa dalla Corte d’appello penale di Bologna che, in data 6/12/2016, aveva condannato (omissis) per il delitto di lesioni aggravate ai danni della moglie. Secondo la ricorrente, la sentenza di condanna, confermata dalla Cassazione con decisione n. 28539/2018, avrebbe dovuto determinare la Corte d’appello ad addebitare la causa di separazione al marito.
La ricorrente critica altresì l’assunto della Corte di appello in merito ad una presunta riconciliazione, che avrebbe avuto luogo dopo l’episodio di violenza del gennaio 2009, ed alla circostanza che vi sarebbero stati scontri reciproci, deducendo che dal novembre del 2008 al momento del deposito del ricorso per separazione giudiziale del 17 giugno 2013 la crisi coniugale non si era mai ricomposta.
2.2. Il motivo è fondato e va accolto.
Nel caso di specie, la ricorrente censura la ricostruzione fattuale dei rapporti intercorsi tra i coniugi nel periodo di crisi che ha preceduto la domanda di separazione e delle condotte che tale crisi hanno aggravato e reso definitiva, con particolare riguardo alla valutazione dell’episodio di violenza fisica compiuto dal (omissis) in suo danno – accertato definitivamente in sede giudiziale – rispetto ai suoi comportamenti aggressivi e della presunta riconciliazione, che sarebbe seguita a questo episodio che avrebbe reciso – a parere della Corte di merito – il nesso causale tra lo stesso e la pregressa crisi coniugale.
La decisione espressa dalla Corte di merito riguardo agli elementi rilevanti per la pronuncia di addebito e per ravvisare una piena riconciliazione non è conforme ai principi di legittimità elaborati in materia.
Secondo l’orientamento di questa Corte, al quale si intende dare continuità, i comportamenti reattivi del coniuge che sfociano in azioni violente e lesive dell’incolumità fisica dell’altro coniuge, rappresentano, in un giudizio di comparazione al fine di determinare l’addebito della separazione, causa determinante dell’intollerabilità della convivenza, nonostante la conflittualità fosse risalente nel tempo ed il fatto che l’altro coniuge contribuisse ad esasperare la relazione (Cass. n. 6997/2018; Cass. n. 7321/2005); invero, «Le violenze fisiche costituiscono violazioni talmente gravi ed inaccettabili dei doveri nascenti dal matrimonio da fondare, di per sé sole – quand’anche concretartisi in un unico episodio di percosse -, non solo la pronuncia di separazione personale, in quanto cause determinanti l’intollerabilità della convivenza, ma anche la dichiarazione della sua addebitabilità all’autore, e da esonerare il giudice del merito dal dovere di comparare con esse, ai fini dell’adozione delle relative pronunce, il comportamento del coniuge che sia vittima delle violenze, restando altresì irrilevante la posteriorità temporale delle violenze rispetto al manifestarsi della crisi coniugale» (Cass. n. 7388/2017; Cass. n. 3925/2018). Anche un unico episodio integra un comportamento idoneo, comunque, a sconvolgere
definitivamente l’equilibrio relazionale della coppia, poiché lesivo della pari dignità di ogni persona (Cass. n. 433/2016) e la reazione aggressiva della vittima non ne riduce la portata e l’efficienza causale.
Inoltre, non è sufficiente, per provare la riconciliazione tra coniugi separati, considerati gli effetti da essa derivanti, che i medesimi abbiano ripristinato la convivenza a scopo sperimentale e provvisorio, essendo invece necessaria la ripresa dei rapporti materiali e spirituali, caratteristici della vita coniugale (Cass. 19497/2005; Cass. 19535/2014; Cass. 1630 del 23/01/2018Cass. 20323/2019). Invero, «La mera coabitazione non è sufficiente a provare la riconciliazione tra
coniugi separati essendo necessario il rispristino della comunione di vita e d’intenti, materiale e spirituale, che costituisce il fondamento del vincolo coniugale.» (Cass. n. 19535 del 17/09/2014), dal che consegue che, laddove emerga una crisi coniugale prolungata ed irrisolta, i tentativi di superarla – nell’ambito dei quali può collocarsi la rinuncia ad un ricorso di separazione da parte del marito, come avvenuto nel caso in esame – non possono essere qualificati come “riconciliazione”, in assenza di elementi univoci e significativi del pieno e concreto ripristino della comunione di vita e di affetti.
La decisione impugnata va, pertanto, cassata sul punto.
3.1. Con il terzo motivo si censura la sentenza ai sensi dell’art. 51 cod.proc.civ., nella parte in cui ha negato l’effetto sospensivo della presentazione dell’istanza di ricusazione.
3.2. Il motivo è infondato.
Osserva la Corte che – come si evince dalla decisione impugnata – (omissis) aveva dedotto – con il primo motivo di appello – la nullità dell’attività procedimentale svolta in primo grado tra il 17 marzo 2016, data del deposito dell’istanza di ricusazione del G.I., ed il 30 giugno 2016, data di emissione del provvedimento con il quale l’istanza era stata disattesa. Tale motivo è stato disatteso dalla Corte di appello sulla considerazione che l’organo investito della decisione sull’istanza di ricusazione non aveva adottato alcun provvedimento di sospensione, sospensione che non conseguiva automaticamente alla presentazione dell’istanza, e che l’istanza stessa era stata disattesa per la sua manifesta infondatezza (circostanza incontestata), di guisa che l’attività espletata dal G.I. risultava pienamente legittima.
La decisione risulta conforme alla giurisprudenza di legittimità, secondo la quale «L’istanza di ricusazione non sospende automaticamente il processo quando il giudice “a quo” ne valuti l’inammissibilità per carenza “ictu oculi” dei requisiti formali, sicchè esso può proseguire senza necessità di impulsi di parte o d’ufficio; ciò al fine di contemperare il diritto delle parti all’imparzialità di giudizio, assicurato dalla circostanza che la delibazione di inammissibilità del giudice “a quo” non può comunque assumere valore ostativo alla rimessione del ricorso al giudice competente, ed al contempo il dovere di impedire l’uso distorto dell’istituto.» (Cass. n. 1624 del 19/01/2022; cfr. Cass. n. 25709 del 04/12/2014, Cass. n. 10732 del 08/05/2013).
Ciò posto va rimarcato che il motivo risulta anche carente sul piano della specificità, laddove assume che l’istanza di ricusazione era ammissibile sotto il profilo formale, perché non la trascrive, in modo da consentire di apprezzarne il contenuto, e laddove paventa una contraddittorietà della condotta del giudice ricusato, che risulta essere frutto di una personale interpretazione dell’attività giudiziaria svolta nelle more della decisione dell’istanza di ricusazione, posto che – come riferito dallo stessa ricorrente – alcuna sospensione del processo era stata disposta dal G.I.
4. In conclusione, va accolto il secondo motivo di ricorso, infondati il primo e terzo; la sentenza impugnata va cassata con rinvio alla Corte di appello di Bologna in diversa composizione per il riesame alla luce dei principi espressi, oltre che per la liquidazione delle spese anche del presente grado.
Va disposto che in caso di diffusione della presente ordinanza siano omesse le generalità delle parti e dei soggetti in essa menzionati, a norma del d.lgs. 30 giugno 2003 n. 196, art. 52.
P.Q.M.
– Accoglie il secondo motivo di ricorso, infondati il primo ed il terzo; cassa la sentenza impugnata con rinvio alla Corte di appello di Bologna anche per le spese;
– Dispone che in caso di diffusione della presente ordinanza siano omesse le generalità delle parti e dei soggetti in essa menzionati, a norma del d. lgs. 30 giugno 2003 n. 196, art. 52.
Così deciso in Roma, il giorno 21 giugno 2022.
