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Tribunale Lecce sez. I, 05/09/2023, n. 2407

Massima

No alla compensatio lucri cum damno sul danno parentale alla vedova.

Supporto alla lettura

Danno tanatologico

Nozioni di danno legate al momento della morte sono il danno biologico terminale, il danno morale, detto anche danno catastrofale o da lucida agonia, il danno tanatologico.

Il danno biologico terminale è risarcibile quando, a seguito delle lesioni dell’integrità fisica con esito letale, il decesso sia sopraggiunto dopo un apprezzabile lasso di tempo, potendosi concretamente configurare un’effettiva compromissione dell’integrità psicofisica del soggetto leso che sia anche medicalmente accertabile. Il danno in questione è ritenuto sempre risarcibile per effetto della «percezione anche non cosciente» della gravissima menomazione inferta alla vittima nella fase terminale della sua vita, purché tra le lesioni e la morte intercorra un apprezzabile lasso di tempo.

Il danno morale è rappresentato dalla sofferenza patita dalla vittima che, rimasta lucida all’esito della lesione, abbia vissuto l’angosciosa e consapevole attesa della propria fine imminente ed ineluttabile.

Il danno tanatologico si sofferma invece sul bene vita a seguito della morte se è riconoscibile alla vittima anche quando vi è un breve lasso di tempo tra l’evento conseguenza e il danno che consiste nella morte.

Chiariamo che sono tutte sottocategorie descrittive della voce onnicomprensiva del danno non patrimoniale (art. 2059 c.c.) di creazione giurisprudenziale. Dal 1925 la giurisprudenza ha sempre negato il risarcimento del danno tanatologico adducendo, di volta in volta a sostegno della sua tesi, uno o più argomenti. Primo fra tutti è l’argomento della mancanza di capacità giuridica per il quale si ritiene il diritto al risarcimento del danno c.d. tanatologico sia adespotaprivo cioè di legittimo titolare, perché il momento in cui si concretizza il pregiudizio è anche quello in cui l’unico legittimo titolare viene a mancare. Il 23 gennaio 2014 la terza sezione della Suprema Corte di Cassazione, con la sentenza n. 1361 ha riconosciuto la risarcibilità del cd. “danno tanatologico ”rompendo l’integrità di un orientamento interpretativo che si protraeva, pressoché monolitico, dal 1925.

Su impulso dell’ordinanza Cass., III sez., 4 marzo 2014, n. 5056, le Sezioni Unite (Cass., 22 luglio 2015, n. 15350,confermato in seguito anche da Cassazione n. 26727/2018) hanno negato cittadinanza al danno tanatologico. Nel caso di morte immediata o che segua entro brevissimo lasso temporale alle lesioni, pertanto, non può essere invocato un diritto al risarcimento del danno iure hereditatis, in quanto viene a mancare il titolare stesso del diritto di modo che non può essere acquisito il relativo credito nel proprio patrimonio.

Ambito oggettivo di applicazione

Ragioni in fatto e in diritto della decisione

A seguito dell’ordinanza del 04.12.2013 (resa nel procedimento n. 30570/2013 r.g.), con cui il Tribunale di Roma aveva dichiarato la propria incompetenza per territorio in favore del Tribunale di Lecce, con atto datato 28.02.2014 (omissis) ha citato tempestivamente in riassunzione il Ministero della Giustizia dinanzi all’intestato Tribunale onde sentirne: – accertare l’illecita condotta ex art. 2043 e.e. e i danni patrimoniale e non patrimoniale da essa subiti; – per l’effetto, pronunciare condanna al relativo risarcimento in proprio favore, da liquidarsi in via equitativa; – con vittoria di spese e compensi di giudizio, con distrazione in favore dei procuratori anticipatari.

Ivi ha esposto: – di essere vedova di (omissis), assistente capo di polizia penitenziaria presso la Casa Circondariale ‘(omissis)’ di Lecce, deceduto l’11.07.2011 per carcinoma polmonare; – che il sig. (omissis) non aveva mai fumato e, per vent’anni, quotidianamente, per motivi di lavoro aveva frequentato i locali delle case circondariali, ove era consentito il fumo di sigarette; – che in data 01.12.2011 la Commissione Medica Ospedaliera del Dipartimento Militare di Taranto aveva accertato che l’inabilità del sig. (omissis) era stata determinata da infermità non dipendente da causa di servizio; – che l’art. 51 L. 3/2003 vietava il fumo nei locali chiusi e il d.p.r. 230/2000 (‘regolamento penitenziario‘), mai attuato, all’art. 6 comma 7 prevedeva che “se le condizioni Logistiche lo consentono, sono assicurati reparti per non fumatori“; – che il Ministero della Giustizia era responsabile ex art. 2043 e.e. per aver colposamente violato l’art. 51 L. 3/2003 e omesso di adottare le opportune cautele atte a tutelare la salute del sig. (omissis): – che ella, madre di tre figli minorenni, aveva subito un danno non patrimoniale ex art. 2059 e.e., che, nella sua veste di pregiudizio alla vita di relazione, andava fatto rientrare nella categoria del danno biologico; – che alla stessa competeva anche il risarcimento del danno patrimoniale, ex art. 2043 e.e., poiché il nucleo familiare era stato privato di una utilità economica di cui beneficiava e di cui in futuro avrebbe potuto beneficiare.

Con comparsa depositata in cancelleria il 19.05.2014 si è costituito in giudizio il Ministero della Giustizia, eccependo la nullità della domanda per la mancata precisazione dei suoi elementi costitutivi; nel merito, ha negato ogni responsabilità per quanto occorso al sig. (omissis); ha concluso chiedendo: – dichiararsi la nullità dell’atto di citazione; – dichiararsi la domanda inammissibile, improponibile e rigettarla in quanto infondata; spese come per legge.

Concessi i termini di cui all’art. 183, VI comma, c.p.c.; escussi i testi ammessi; con ordinanza del 15.11.2018 è stato ritenuto non necessario disporre c.t.u., attesa la portata esplorativa che l’analisi tecnica invocata avrebbe assunto; precisate le conclusioni nell’udienza del 13.07.2020, la causa è stata trattenuta in decisione, con i termini di cui all’art. 190 c.p.c. per il deposito di note conclusionali e di replica. Disposta la remissione della causa sul ruolo per la discussione, e all’esito della stessa, ritenuto necessario un approfondimento istrutt-orlo di natura tecnica, il Tribunale ha disposto c.t.u. medico­legale, espletata la quale nell’udienza del 19.09.2022 sono state nuovamente precisate le conclusioni e la causa è stata riservata per 1a sentenza, con la concessione dei termini di cui all’art. 190 c.p.c. per note conclusionali e di replica.

La presente controversia ha ad oggetto la domanda risarcitoria proposta da (omissis), coniuge di (omissis), nei confronti del Ministero della Giustizia, quale datore di lavoro, per la malattia mortale contratta dal marito nello svolgimento delle mansioni espletate alle dipendenze dello stesso dicastero presso strutture carcerarie, ciò che aveva provocato l’esposizione continuativa del (omissis) a massicce quantità di fumo passivo e l’insorgenza di un carcinoma polmonare che lo aveva condotto alla morte.

In via preliminare, occorre rigettare l’eccezione di nullità dell’atto di citazione per omessa determinazione dell’oggetto della domanda, atteso che in esso risultano ben  individuabili il petitum (inteso, sotto il profilo formale, come provvedimento giurisdizionale richiesto, e, sotto l’aspetto sostanziale, come bene della vita di cui si chiede il riconoscimento o la negazione), e gli elementi costitutivi della causa petendi.

Passando al merito, con l’atto introduttivo del giudizio l’attrice ha allegato lo svolgimento continuativo – da parte di (omissis) – delle funzioni di assistente capo della Polizia Penitenziaria, assegnato presso la Casa Circondariale di Milano (dal 16.04.1991 al 18.07.1993), di poi, presso la struttura carceraria di Taranto (dal 19.07.1993 al 14.03.1997) ed, infine, di Lecce (dal 15.03.1997 al luglio 2011, fino al
decesso); e tanto, osservando i turni di servizio predisposti dall’Amministrazione (circostanze non contestate e, pertanto, da ritenersi pacifiche fra le parti).

Dalla prova testimoniale assunta risulta inoltre che: – il sig. (omissis) non era fumatore, né lo era la moglie (omissis); – che egli, durante tutto il servizio quale assistente capo della Polizia Penitenziaria, fu costretto ad inalare passivamente il fumo derivante dalla combustione delle sigarette (in considerazione del diffuso fumo attivo dei ristretti) per almeno 6 ore/die (turno di lavoro predisposto dall’Amministrazione convenuta); – che la concentrazione del fumo nei corridoi antistanti le celle dei detenuti (dove il (omissis) svolgeva i propri turni di servizio) era tale da formare una ‘nebbia‘, come in una ‘camera a gas‘, a comprova dell’alta densità della concentrazione del fumo da combustione; – che nei corridoi non vi erano aspiratori; – che all’interno delle strutture carcerarie non vi erano reparti per non fumatori; – che per tutto il periodo per cui è causa (e, quindi, sino a tutta la metà dell’anno 2011), l’Amministrazione non aveva adottato provvedimenti volti a sanare detta situazione; – che all’interno della Casa Circondariale di Lecce le celle dei detenuti erano tutte posizionate su un lato, mentre su quello opposto vi erano delle finestre; – ché l’Amministrazione della Casa Circondariale di Lecce aveva irrogato sanzioni per i trasgressori del divieto di fumo, ma solo a far data dal 2014 in poi (ossia, soltanto in epoca successiva al decesso del (omissis), avvenuto nel luglio 2011).

Dalla relazione del 12.06.2012 prodotta in atti nel fascicolo di parte convenuta si evince ancora che “la struttura architettonica dei reparti detentivi della casa circondariale di Lecce non consente un adeguato ricambio di mia, poiché il corridoio di affaccio delle camere di detenzione ha finestre che sono poste alle due estremità dello stesso ad una distanza di circa 70 metri ed altre nella parte più centrale, ma nel complesso la superficie finestrata non è sufficiente per il ricambio di aria dall’esterno” e che anche il problema del sovraffollamento del carcere di Lecce “contribuiva in grande misura alla produzione di fumo da parte dei detenuti fumatori“.

Inoltre, nella scheda in atti di “Valutazione dei Rischi relativa agli agenti chimici“, datata 10.09.2015, il Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione della Direzione della Casa Circondariale – (omissis) di Lecce “ritiene comunque di ribadire l’importanza del rispetto del divieto di fumo in tutti i locali lavorativi, che deve essere assicurato mediante l’attuazione di un controllo da parte di personale incaricato dal datore di lavoro. Vi è esposizione a fumo passivo in quanto nelle celle e praticamente in tutta la zona detentiva non vige il divieto di fumo“.

Orbene, sin da epoca remota vi era consapevolezza sociale e medico-scientifica degli esiti lesivi del bene salute etiologicamente riconducibili all’esposizione a fumo da combustione di sigaretta, come comprovano i plurimi interventi normativi varati dal Legislatore con il fine di garantire tutela ai soggetti esposti a detta fonte morbigena; dall’art. 25 del R.D. n. 2316/1934, recante “Testo Unico delle leggi sulla protezione e l’assistenza della maternità e dell’infanzia“, che prevedeva il divieto di vendita di tabacco e sigarette nei confronti dei minori, con l’irrogazione di aspre sanzioni per i trasgressori, alla L. n. 584/1975, recante disposizioni in materia di “Divieto di fumare in determinati locali e su mezzi di trasporto pubblico“; dal D.P.C.M. 14.12.1995, che prevedeva il divieto di fumo in determinati locali della pubblica amministrazione o dei gestori di servizi pubblici, alla L. n. 626/1994, che prevedeva l’obbligo di sorveglianza sanitaria, di informazione e formazione dei dipendenti, nonché di adozione di misure minime di prevenzione del rischio in considerazione delle caratteristiche proprie dell’ambiente di lavoro; dal Regolamento di esecuzione dell’ordinamento penitenziario (n. 230/2000), il cui art. 6, comma 7, prevedeva che fossero assicurati reparti per non fumatori se le condizioni logistiche lo avessero consentito, alla L. n. 3/2003, il cui art. 51 estendeva il divieto di fumo a tutti i locali chiusi, compresi i luoghi di lavoro privati o non aperti al pubblico (divieto applicabile, quindi, anche alle strutture carcerarie, inclusi gli uffici dell’amministrazione e gli spazi comuni. Tale norma prevedeva, inoltre, la possibilità di rendere disponibili locali chiusi riservati ai fumatori, contrassegnati come tali, purché dotati di impianti per la ventilazione ed il ricambio di aria regolarmente funzionanti, a norma del d.P.C.M. 23.12.2003. Prevedeva altresì che i direttori degli istituti, nella qualità di datori di lavoro, fossero tenuti ad indicare espressamente il personale preposto a garantire l’osservanza della normativa antifumo ed a provvedere all’acce1tamento e alla rilevazione delle infrazioni conseguenti alle violazioni del relativo divieto. Le direzioni penitenziarie erano, altresì, tenute ad individuare, fra gli spazi comuni, apposite aree per fumatori, realizzando gli adeguamenti strutturali ed impiantistici occorrenti, ossia impianti di ventilazione e per il ricambio dell’aria) al D.L. n. 32/2003 (Disposizioni urgenti per contrastare gli illeciti nel settore sanitario), il cui art. 6 ha ulteriormente aumentato le sanzioni da comminare in caso di violazione del divieto di fumo già prevsite dall’art. 7, L. n. 584/1975;  disposizioni cui si sono aggiunte anche le norme di autoregolamentazione adottate dalla stessa Pubblica Amministrazione (come la Circolare n. 562676 del 13.06.1994, del Ministero della Giustizia, Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, Direttore Ufficio Centrale Detenuti, in materia di “Fumo nell’ambiente carcerario. Tutela dei detenuti non fumatori” e la Circolare n. 3432/5882 del 27.06.1996, relativa all’organizzazione del servizio “Nuovi giunti“).

Dunque, già in epoca antecedente al 2003 vi era la chiara consapevolezza circa la nocività del fumo derivante dalla combustione di sigarette, con la conseguente adozione e previsione di obblighi e divieti; di contro, per tutto il periodo durante il quale il (omissis) lavorò negli ambienti carcerari (dal 16.04.1991 al luglio 2011) e, in ogni caso, per il periodo dal 2003 (anno dii entrata in vigore della L. n. 3/2003) al 2011 (epoca del decesso di lui), il Ministero convenuto omise di predisporre adeguate misure di prevenzione, di richiedere l’osservanza dell’obbligo di legge di non fumare e di sanzionare i trasgressori (siccome comprovato dalle risultanze della prova orale e documentale sopra riportate), in tal modo favorendo fattivamente l’insorgenza, la manifestazione clinica ed il decorso della patologia tumorale che portò al decesso del (omissis), atteso che un significativo abbattimento dell’esposizione al fattore morbigeno avrebbe potuto comunque agire positivamente sui tempi di latenza o di insorgenza della malattia mortale, ovvero sul decorso clinico di quest’ultima, rallentando e/o posticipando l’exitus.

Ed infatti, dalla relazione del C.t.u. dott. (omissis) nominato in corso di giudizio (le cui indagini appaiono puntuali, esaustive e corrette e le cui conclusioni questo Giudicante ritiene di condividere, in quanto rigorosamente argomentate dal punto di vista tecnico-scientifico, logicamente motivate e fondate sulla letteratura medico-legale internazionale) si evince la sussistenza, con criterio probabilistico, del nesso causale tra l’esposizione lavorativa del (omissis) al fumo passivo sul luogo di lavoro e l’insorgere della neoplasia polmonare ed il successivo decesso, tenuto conto che il de cuius non era fumatore, dell’assenza di co-morbilità con efficacia etio-patogenetica tale da assrugere da sole ad elemento causale sufficiente e che, dunque, l’esposizione al fumo passivo, nelle condizioni poste, aveva inciso in maniera determinante; si evince altresì che la patologia neoplastica aveva ridotto l’aspettativa di vita del (omissis), deceduto a 44 anni, che sarebbe stata di circa 82 anni.

A fronte di tanto, il Ministero convenuto (sul quale, in qualità di datore di lavoro, grava il relativo onere probatorio) non ha dimostrato in giudizio di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno, ovvero di aver adottato in concreto tutte le cautele necessarie per impedire il verificarsi del danno medesimo.

Può dunque ritenersi raggiunta la prova m ordine alla sussistenza tanto dell’elemento soggettivo (la colpa del Ministero) quanto dell’elemento oggettivo (evento e nesso causale tra condotta e malattia e successivo decesso del (omissis)), necessari al fine di ritenere la sussistenza della responsabilità dell’illecito in capo al convenuto.

Resta da accertare l’an ed il quantum del danno ingiusto lamentato dall’attrice, dovuto alla perdita del rapporto parentale con il coniuge e alla privazione delle utilità economiche da esso apportate e appmtande al nucleo familiare.

Quanto al danno non patrimoniale, occorre precisare che, anche se la morte del dipendente sia derivata da inadempimento contrattuale del datore di lavoro verso il dipendente, esso trova la sua fonte esclusiva nella responsabilità extracontrattuale di cui all’art. 2043 e.e., sicché non è soggetta al regime probatorio proprio della responsabilità ex art. 2087 c.c..

Costituisce ormnai ius receptum il principio secondo cui “l’interesse al risarcimento del danno non patrimoniale da uccisione del congiunto, per la definitiva perdita del rapporto parentale, si concreta nell’interesse all’intangibilità della sfera degli affetti e della reciproca solidarietà nell’ambito della famiglia, all’inviolabilità della libera e piena esplicazione delle attività realizzatrici della persona umana nell’ambito della peculiare formazione sociale costituita dalla famiglia, la cui tutela è ricollegabile agli art. 2, 29 e 30 Cost.. Esso si colloca nell’area del danno non patrimoniale di cui all’art. 2059 e.e., in raccordo con le suindicate norme della Costituzione” (ex plurimis, Cass. n. 12124/2003); ancora, è a dirsi che “nel caso di morte di un prossimo congiunto, un danno non patrimoniale diverso ed ulteriore rispetto alla sofferenza morale (cd. danno da rottura del rapporto parentale) non può ritenersi sussistente per il solo fatto che il superstite lamenti la rperdita delle abitudini quotidiane, ma esige la dimostrazione di fondamentali e radicali cambiamenti dello stile di vita, che è onere dell’attore allegare e provare; tale onere di allegazione, peraltro, va adempiuto in modo circostanziato, non potendo risolversi in mere enunciazioni generiche, astratte od ipotetiche (Nella specie, la S.C. ha ritenuto inidonea a dimostrare uno sconvolgimento delle abitudini di vita degli stretti congiunti dell’ucciso la mera allegazione di circostanze, quali la convivenza con la vittima, i suoi studi universitari ed il suo subentro in attività imprenditoriali di famiglia, nonché l’assenza di incomprensioni all’interno del nucleo familiare, volte a dimostrare in via presuntiva che gli attori avevano investito molto, in termini umani e professionali, sul parente defunto, figlio primogenito, e che il dolore per la sua prematura perdita era stato particolarmente intenso)” (Cass. n. 21060/2016).

Infine, vanno richiamati i principi espressi dalle Sezioni Unite nella sentenza n. 26972/2008, nella quale la Suprema Corte, dopo aver sancito la natura onnicomprensiva del danno non patrimoniale, ha chiarito come la sua liquidazione debba tenere conto di tutte le possibili manifestazioni di tale danno, evitando, però, di incorrere nella artificiosa duplicazione di poste risarcitorie. Muovendo da tali premesse i giudici di legittimità banno in particolare affermato che, nell’ipotesi di morte del congiunto, costituisce una duplicazione risarcitoria la congiunta attribuzione sia del danno morale che di pregiudizi definiti “esistenziali” o da perdita del rapporto parentale, poiché la sofferenza patita nel momento in cui la perdita è percepita e quella che accompagna l’esistenza del soggetto che l’ha subita altro non sono che componenti del complesso pregiudizio, che va integralmente ed unitariamente ristorato.

Nella determinazione delle somme da attribuire all’attrice per ristorarla del predetto pregiudizio si ritiene di utilizzare le tabelle per la liquidazione del danno non patrimoniale adottate dal Tribunale di Roma, anche alla luce di quanto di recente affermato dalla Suprema Corte nella sentenza n. 10579/2021 (e n. 26300/2021).

In detta pronuncia, infatti, la Corte di Cassazione ha premesso che l’utilizzo di tabelle redatte dall’ufficio giudiziario per la liquidazione del danno non patrimoniale trova fondamento nel potere del giudice di valutazione equitativa del danno previsto dall’art. 1226 c.c.. e che la liquidazione del danno non patrimoniale mediante valutazione equitativa ha il carattere di norma del caso concreto, non solo nella sua proiezione di giudicato (formale e sostanziale), ma anche, in senso lato, quale regola insuscettibile di estensione oltre le circostanze del caso, perché non corrisponde all’applicazione di una fattispecie generale e astratta che sia suscettibile di reiterazione in altri casi.

La determinazione del danno biologico corrisponde dunque alla concretizzazione di una clausola generale nel particolare episodio di vita. Sicché, l’esigenza che sorge è quella dell’uniformità di trattamento nei giudizi aventi ad oggetto la domanda di risarcimento del danno biologico, per cui si deve garantire non solo una adeguata valutazione delle circostanze del caso concreto, ma anche l’uniformità di giudizio a fronte di casi analoghi, essendo intollerabile e non rispondente ad equità che danni identici possano essere liquidati in misura diversa sol perché esaminati da differenti uffici giudiziari. La stessa Corte con la più risalente sentenza n. 12408/2011 aveva sostenuto che tale uniformità di trattamento fosse garantita tramite il riferimento al criterio di liquidazione predisposto dal Tribunale di Milano, essendo esso già ampiamente diffuso sul territorio nazionale e al quale andava riconosciuto, in applicazione dell’art. 3 Cast., valenza, in linea generale, di parametro di conformità della valutazione equitativa del danno biologico alle disposizioni di cui agli artt. 1226 e 2056 cod. civ., salvo che non sussistessero in concreto circostanze idonee a giustificarne l’abbandono.

Tuttavia, la tabella meneghina, con specifico riferimento al danno da perdita parentale, si limita ad individuare un tetto minimo ed un tetto massimo, fra i quali ricorre una assai significativa differenza. Un così ampio differenziale costituisce evidentemente una perimetrazione della clausola generale di valutazione equitativa del danno e non una forma di concretizzazione tipizzata, come awerrebbe con l’utilizzo di una tabella basata sul sistema del punto variabile, e finisce per rappresentare ancora una sorta di clausola generale, di cui si è soltanto ridotto il margine di discrezionalità. In conclusione, la tabella, così concepita, non realizza l’effetto di fattispecie che ad essa dovrebbe invece essere connaturato.

Pertanto, al fine di garantire non solo un’adeguata valutazione delle circostanze del caso concreto, ma anche l’uniformità di giudizio a fronte di casi analoghi, il danno da perdita del rapporto parentale deve essere liquidato seguendo una tabella basata sul sistema a punti, che preveda, oltre l’adozione del criterio a punto, l’estrazione del valore medio del punto dai precedenti, la modularità e l’elencazione delle circostanze di fatto rilevanti, tra le quali, da indicare come indefettibili, l’età della vittima, l’età del superstite, il grado di parentela e la convivenza, nonché ltindicazione dei relativi punteggi, con la possibilità di applicare sull’importo finale dei correttivi in ragione della paiticolarità della situazione, salvo che l’eccezionalità del caso non imponga, fornendone adeguata motivazione, una liquida.zio.ne del danno senza fare ricorso a tale tabella (cfr. Cass. civ. n. 10579/2021; in termini, anche Cass. civ. n. 26300/2021 e Cass. civ. n. 33005/2021).

Nel determinare la somma in concreto spettante al danneggiato si dovrà dunque tener conto: a. del rapporto di parentela esistente tra la vittima ed il congiunto avente diritto al risarcimento (potendosi presumere che il danno sia maggiore quanto più stretto sia il rapporto; b. dell’età del congiunto (il danno è tanto maggiore quanto minore è l’età del congiunto superstite); c. dell’età della vittima (anche in questo caso è ragionevole ritenere che il danno sia inversamente proporzionale all’età della vittima, in considerazione del progressivo avvicinarsi al naturale termine del ciclo della vita); d. della convivenza tra la vittima ed il congiunto superstite (dovendosi presumere che il danno sarà tanto maggiore quanto più costante e assidua è stata la frequentazione tra la vittima ed il superstite); e. della presenza all’interno del nucleo familiare di altri conviventi o di altri familiari non conviventi, fino al quarto (dovendosi presumere che il danno derivante dalla perdita sia maggiore allorché il congiunto superstite rimanga solo, privo di quell’assistenza morale e materiale che gli derivi dal convivere con un’altra persona o dalla presenza di altri familiari, anche se non conviventi).

Ebbene, nel caso di specie va tenuto conto: che la vittima è deceduta all’età di 44 anni; che la moglie odierna attrice aveva, al tempo del suo decesso, l’età di 44 anni; che con essi convivevano tre figli ancora minorenni.

Alla luce delle predette circostanze si ritiene equo determinare l’importo spettante al coniuge per la perdita del rapporto parentale in € 294.201,00 (corrispondenti a 30 punti), senza l’applicazione di correttivi, essendo mancata la dimostrazione in giudizio della qualità ed intensità della relazione affettiva che caratterizzava il rapporto parentale con la persona deceduta, della qualità ed intensità della relazione affettiva familiare residua, della perdita delle abitudini quotidiane e di radicali cambiamenti dello stile di vita della superstite.

Essendo stata liquidata, tale voce di danno, in moneta attuale, alla predetta somma non va applicata rivalutazione monetaria, occorrendo invece aggiungere gli interessi legali sulla somma devalutata al dì della morte ed annualmente rivalutata fino alla data dell’effettivo saldo.

Poiché detta voce di danno viene liquidate a titolo di danno non patrimoniale sofferto iure proprio dalla congiunta del (omissis), non sussiste alcuna ipotesi di compensatio lucri cum damno rispetto alle voci indennitarie e, in generale, agli emolumenti previdenziali riconosciuti dalla legge e riscossi dalla stessa per il medesimo fatto-reato (Cass. 6306/2017).

Quanto al danno patrimoniale da lucro cessante patito dalla moglie del (omissis) deceduto per colpa altrui, esso consiste nella perdita delle elargizioni erogatele dal defunto; la relativa liquidazione, richiesta in forma di capitale e non di rendita, va compiuta per la moglie: a) determinando il reddito della vittima al momento della morte; b) detraendo da esso la quota presumibilmente destinata ai bisogni della vittima o al risparmio, nonché il carico fiscale e le spese per la produzione del reddito; c) moltiplicando il risultato per un coefficiente di capitalizzazione delle rendite vitalizie, corrispondente all’età del più giovane tra i due, se sia ragionevole ritenere che, in mancanza dell’illecito, la superstite avrebbe continuato a godere del sostegno economico del defunto vita natural durante (cfr. Cass. civ. sez. VI-3, ordinanza 16.03.2018 n. 6619). Nel caso in specie, non essendovene allegazione, né prova, non può tenersi conto degli incrementi futuri che quel reddito avrebbe avuto se la vittima avesse potuto continuare a svolgere il proprio lavoro.

L’attrice ha prodotto in atti documentazione fiscale attestante il reddito annuale prodotto dal dante causa in epoca immediatamente precedente al decesso (pari a lordi C 32.286,52) e che ella risultava ”familiare a carico” del coniuge. Detratto da tale reddito il carico fiscale (che dallo stesso CUD in atti appare ammontare a complessivi € 7.111,98 per irpef, addizionali regionali e comunali su irpef), le spese per la produzione del reddito (consistenti almeno negli esborsi per il carburante dal luogo di residenza a quello di lavoro, che possono stimarsi in € 1.500,00 annui), la quota destinata ai bisogni della vittima ed al risparmio (che possono stimarsi nel 20% del reddito residuo, e quindi in€ 4.734,91 annui) residua l’importo di € 18.939,63; moltiplicando detto ammontare per il coefficiente di capitalizzazione 44 (pari all’età di vittima e superstite coetanei), si ottiene l’importo di € 833.343,81.

Da esso va detratto quanto medio tempore percepito dall’attrice a titolo di prestazione di inabilità di reversibilità, ossia l’importo di € 185.970,36 ( = € 1.5,497,53 x 12 annualità dal 2012 a tutto il 2023); ne residua l’importo di € 647.373,45, che va riconosciuto all’attrice a titolo di complessivo danno patrimoniale da lucro cessante da essa sofferto.

Sul soccombente Ministero convenuto dovranno gravare esborsi e compensi liquidati al C.t.u. nominato in corso di causa, nonché le spese e competenze di lite dell’attrice, queste ultime liquidate come in dispositivo, sulla base dei valori medi dello scaglione di riferimento per le fasi di studio, introduttiva, istruttoria/di trattazione e decisionale.

P.Q.M.

Il Tribunale di Lecce, in composizione monocratica, in persona del Giudice Onorario Avv. (omissis), definitivamente pronunciando sulle domande proposte, così provvede:

1) in accoglimento per quanto di ragione della domanda attorea, condanna il Ministero conveµuto al pagamento, in favore di (omissis), della somma di € 294.201,00 a titole di risarcimento del danno non patrimoniale da essa sofferto per la perdita del coniuge (omissis), oltre interessi legali come indicato in motivazione;

2) condanna altresì il Ministero convenuto al pagamento, in favore di (omissis)
della somma di € 647.373,45, a titolo di risarcimento del danno patrimoniale conseguito alla perdita delle elargizioni erogate dal defunto coniuge, oltre interessi legali dalla liquidazione al soddisfo;

3) condanna infine il Ministero convenuto al pagamento, in favore degli Avv.ti (omissis) e (omissis), procuratori dell’attrice dichiaratisi anticipatari, delle spese e competenze di lite, liquidate in complessivi € 29.687,10, di cui€ 494,10 per esborsi ed € 29.193,00 per compensi, oltre rimborso forfettario al 15%, cap e iva nelle misure dovute sulle voci soggette come per legge.

4) pone definitivamente a carico del Ministero convenuto esborsi e compensi liquidati al C.t.u. nominato in corso di giudizio.

Esecutività come per legge.

Così deciso in Lecce, addì 02 settembre 2023

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