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Corte appello Roma sez. I, 27/11/2023, n. 11263

Massima

Integra il delitto di atti persecutori l’opera di reiterata delegittimazione della persona offesa realizzata dal soggetto attivo attraverso una serie protratta di condotte diffamatorie e moleste che, lungi dall’integrare un mero esercizio delle facoltà connesse alla tutela giudiziaria dei propri diritti, configurano uno stillicidio persecutorio ai danni della persona offesa.

Supporto alla lettura

ATTI PERSECUTORI

Il reato di atti persecutori (c.d. stalking) si sostanzia in condotte reiterate che ingenerano un fondato timore da parte della vittima di un male più grave, pure senza arrivare ad integrare il reato di lesioni o maltrattamenti. Introdotto dal D.L. 11/2009, convertito in L. 38/2009, con l’inserimento dell’art. 612 bis c.p., non tutela soltanto il soggetto che ne è stato vittima in prima persona, ma anche le persone legate a quest’ultimo da vincoli di parentela o relazioni affettive.

Atti persecutori possono essere per esempio:

  • il danneggiamento della propria auto;
  • le aggressioni verbali in presenza di testimoni;
  • l’invio di baci o sguardi insistenti, non desiderati e minacciosi;
  • lo stalking telefonico;
  • la pubblicazione di post o video a contenuto sessuale, minaccioso o ingiurioso su un social network;
  • lo stalking su whatsapp o quello sul lavoro;

Nel momento in cui si verifica un reato di atti persecutori, il giudice ha la possibilità di applicare alcune misure coercitive, come per esempio il divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa, o dai parenti congiunti o legati a lei da relazioni affettive. In aggiunta la persona offesa prima di fare querela per atti persecutori, potrà scegliere di procedere con l’ammonimento al questore.

Il reato in esame rientra nelle previsioni del Codice Rosso. Fondamentale punto di riferimento è la legge 19 luglio 2019, n. 69 – in vigore dal 9 agosto 2019 – recante, tra gli altri, interventi sul codice di procedura penale accomunati dall’esigenza di evitare che eventuali stasi, nell’acquisizione e nell’iscrizione delle notizie di reato o nello svolgimento delle indagini preliminari, possano pregiudicare la tempestività di interventi, cautelari o di prevenzione, a tutela della vittima dei reati di maltrattamenti, violenza sessuale, atti persecutori e di lesioni aggravate in quanto commesse in contesti familiari o nell’ambito di relazioni di convivenza. Tra le principali innovazioni apportate vi è l’accelerazione dei tempi processuali, al fine di garantire risposte più rapide e incisive da parte della giustizia. Inoltre, sono state introdotte pene più severe per gli autori di questi reati, nell’ottica di deterrenza e punizione proporzionata. Il “Codice Rosso” presenta una serie di “nuovi” reati volti a contrastare specifiche forme di violenza e aggressione, ampliando così gli strumenti legali per la tutela delle vittime. Ecco i principali reati contemplati:

  • ​Diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti (Revenge Porn) – Articolo 612-ter del Codice Penale;
  • Deformazione dell’aspetto della persona mediante lesioni permanenti al viso – Articolo 583 quinquies del Codice Penale;
  • Costrizione o induzione al matrimonio – Articolo 558 bis del Codice Penale;
  • Violazione dei provvedimenti di allontanamento dalla casa familiare e del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa – Articolo 387 bis del Codice Penale.

 

Il Codice Rosso Rafforzato, in vigore dal 30 settembre 2023, mira a potenziare la risposta giudiziaria contro la violenza domestica e di genere, accelerando indagini e introducendo nuove misure cautelari.  Questo codice introduce due modifiche alla legge del 2019 relative alle misure contro la violenza domestica e di genere. La prima modifica riguarda il ruolo del pubblico ministero assegnato a un caso di violenza domestica e di genere. In base al nuovo provvedimento, il pubblico ministero deve ascoltare la persona che ha denunciato i fatti entro tre giorni dalla ricezione del caso. Se non lo fa, il suo procuratore ha il potere di togliergli il caso e assegnarlo a un altro pubblico ministero.

L’obiettivo dichiarato di questa misura è quello di velocizzare le indagini e rendere più stretti i termini di operatività del Codice Rosso, presumibilmente per garantire una risposta più rapida e efficace ai casi di violenza domestica e di genere.

Ambito oggettivo di applicazione

1. Con sentenza in data 10 giugno 2022, il Tribunale di Roma, in composizione monocratica, ha affermato la penale responsabilità di Iz.La. per i reati lei ascritti nelle imputazioni riportate in epigrafe, limitatamente, quanto al capo 3), all’episodio intercorso con Ma.An., e, ritenuta la continuazione, l’ha condannata alla pena di mesi dieci di reclusione, condizionalmente sospesa, previo riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche. Il Giudice di primo grado ha fondato la decisione sulle risultanze desumibili dalle dichiarazioni testimoniali della parte civile, Ef.Di., ritenute credibili e attendibili, oltre che riscontrate dalle deposizioni dei testi escussi, dalla documentazione medica e dalle ulteriori risultanze documentali.

Il Tribunale, esclusa la sussistenza di situazioni che potessero incidere sulla capacità di intendere e di volere dell’imputata, ha rigettato la richiesta difensiva, avanzata in sede di discussione orale, di disporre una perizia psichiatrica, reputandola meramente esplorativa. In motivazione, si è evidenziato che l’imputata, la quale pretendeva ingiustificatamente somme di denaro a titolo di risarcimento del danno per una vicenda relativa a un immobile di edilizia residenziale pubblica, era solita presentarsi presso lo studio professionale dell’Avv. Ef.Di., inveire contro i collaboratori del legale, effettuare incessanti telefonate, inviare messaggi vocali anche in orario notturno. In una circostanza, in data 13 gennaio 2020, nel corso di una riunione, la Iz.La. aveva aggredito la persona offesa, sferrandole uno schiaffo, colpendolo con la borsa sulla testa e cercando di graffiarlo, episodio che era stato registrato dal collega Sa.Tr. con il telefono cellulare.

La parte civile aveva riferito di aver modificato alcune sue abitudini riguardo ai percorsi seguiti in quanto preoccupato di incontrare l’imputata e di aver dato indicazioni anche al portiere dello stabile dove si trova lo studio legale affinché comunicasse l’eventuale presenza della Iz.La., le cui condotte le avevano generato preoccupazione.

Il Tribunale ha escluso, con riferimento al capo 3), la configurabilità del delitto di diffamazione relativamente ai messaggi registrati nella segreteria telefonica, e ha ritenuto integrati i residui reati, unificati dal vincolo della continuazione, determinando la pena base, per il più grave reato di cui all’art. 612-bis c.p., in anni uno di reclusione, sulla quale ha applicato la diminuzione per le riconosciute circostanze attenuanti generiche, pervenendo alla pena di mesi otto di reclusione; operato l’aumento di mesi uno di reclusione per ciascuno dei residui reati, ha comminato la pena di mesi dieci di reclusione, con il beneficio della sospensione condizionale.

Il Giudice, inoltre, ha accolto la domanda avanzata dalla parte civile, condannando la Iz.La. al risarcimento dei danni cagionati, liquidati, in via equitativa, in Euro 4.500, oltre che a rifondere le spese processuali dalla stessa sostenute.

2. Avverso la sentenza ha proposto appello il difensore dell’imputata, il quale ha articolato i seguenti motivi.

2.1 Con il primo motivo è stata eccepita la nullità della sentenza per omessa perizia sullo stato di salute mentale di Iz.La..

La stessa parte civile aveva definito l’imputata una persona affetta da disturbi psichici e le risultanze istruttorie avevano evidenziato che versava in condizioni di delirio. Il Tribunale, pertanto, avrebbe dovuto disporre una perizia psichiatrica al fine di accertare le condizioni psichiche della Iz.La..

2.2 Con il secondo motivo il difensore ha sostenuto che non era stata acquisita una prova rassicurante della sussistenza del delitto di cui all’art. 612-bis c.p. e, in particolare, dell’evento richiesto per la configurabilità del reato, stante il breve lasso di tempo in cui erano state poste in essere le condotte ritenute persecutorie che avevano comportato delle “seccature” e non avevano influito sulle abitudini di vita della parte civile.

L’imputata, pertanto, avrebbe dovuto essere assolta dal reato contestato al capo 1) perché il fatto non sussiste e/o non costituisce reato.

In via subordinata, la condotta avrebbe dovuto essere ricondotta all’ipotesi di cui all’art. 660

2.3 Con il terzo motivo è stata dedotta l’insussistenza del reato di lesioni contestato al capo 2), in quanto lo schiaffo con il quale l’imputata aveva colpito l’Avv. Ef.Di. aveva cagionato un’eritema alla guancia con una prognosi di 24 ore, non sussumibile nella nozione di malattia di cui all’art. 582 c.p..

Il Tribunale avrebbe dovuto, quindi, assolvere Iz.La., quantomeno ai sensi dell’art. 530, co. 2, c.p.p., perché il fatto non sussiste.

In via gradata, il fatto avrebbe dovuto essere derubricato nel reato di percosse per avere la condotta determinato soltanto delle sensazioni dolorose, senza ulteriori conseguenze.

2.4 Con un ulteriore motivo il difensore ha sostenuto l’insussistenza del reato di diffamazione per cui è intervenuta condanna, osservando che le affermazioni della Iz.La. non erano idonee ad offendere la reputazione della persona offesa, tenuto conto della personalità dell’imputata nota per i suoi comportamenti istrionici, e che difettava l’elemento della comunicazione con più persone.

L’appellante, quindi, avrebbe dovuto essere assolta, almeno ai sensi dell’art. 530, co. 2, c.p.p., perché il fatto non sussiste.

2.5 Con il gravame, inoltre, il difensore ha lamentato la mancata prevalenza delle circostanze attenuanti generiche sulle contestate aggravanti, l’entità della pena inflitta che doveva ritenersi eccessiva rispetto alla reale portata degli episodi, la mancata concessione del beneficio della non menzione della condanna, il difetto di prova della consistenza del danno lamentato dalla parte civile che avrebbe potuto giustificare solo una condanna generica, l’arbitrarietà dell’entità del danno liquidato.

3. All’odierna udienza, verificata la ritualità delle notificazioni e la regolare instaurazione del contraddittorio, è stata svolta la discussione orale e, sulle conclusioni formulate dalle parti, sopra trascritte e versate in atti quanto alla parte civile, è stata pronunciata la sentenza in dispositivo, pubblicato mediante lettura.

4. L’appello è parzialmente fondato, ritenendosi di dover assolvere Iz.La. dal reato di diffamazione per il quale è stata pronunciata condanna in primo grado, perché il fatto non sussiste, con conseguente riduzione della pena inflitta.

4.1 Riguardo all’eccezione sollevata con il primo motivo, deve osservarsi che il rigetto della richiesta di espletare una perizia volta ad accertare la capacità di intendere e di volere dell’imputata non integra un’ipotesi di nullità della sentenza, né alcuna delle ipotesi di nullità di cui agli artt. 178 e ss. c.p.p.

La perizia, come è noto, è un mezzo di prova sottratto alla disponibilità delle parti e rimesso alla discrezionalità del giudice (cfr. Cass. Pen., Sez. Un., sentenza n. 39746 del 23/03/2017, Rv. 270936).

Nel caso di specie, risulta che il difensore dell’imputata, in sede di discussione finale, ha concluso chiedendone l’assoluzione dai reati contestati ai capi 1) e 3) e ha chiesto che fosse disposta una perizia sullo stato di salute mentale della stessa (v. verbale di udienza 31 maggio 2022). Il Tribunale, disposto un rinvio per repliche, ha deliberato la sentenza e, in motivazione, ha evidenziato che la richiesta della difesa doveva ritenersi infondata “in quanto del tutto esplorativa”; doveva escludersi un deficit di capacità di intendere e di volere dell’imputata tale da incidere sulla sua imputabilità, non essendo emerso alcun principio di prova dall’istruttoria dibattimentale.

Ciò premesso, deve ritenersi che non risulta acquisita agli atti alcuna documentazione da cui possano trarsi elementi che impongano un accertamento peritale in ordine alla capacità di intèndere e di volere di Iz.La., non reputandosi idonei, al riguardo, le valutazioni a proposito dei comportamenti descritti dai testimoni assunti, il singolare messaggio inviato alla persona offesa circa le immissioni attribuite ai suoi collaboratori, né le valutazioni soggettive espresse dal Fi.Di.

Al di là della considerazione del Tribunale relativamente alle circostanze riferite dalla stessa imputata in sede di interrogatorio (il cui verbale è stato acquisito ai sensi dell’art. 513 c.p.p.), difettano elementi concreti che possano far dubitare della capacità della Iz.La. o che rivelino situazioni incidenti sulle sue condizioni mentali.

Dall’interrogatorio reso nel corso delle indagini preliminari emerge che la Iz.La. abbia risposto in modo congruo alle domande poste dal Giudice, sostenendo anche una sua versione difensiva.

Dalle dichiarazioni dell’imputata non emerge alcun elemento che conduca a sospettare di un difetto di capacità di intendere e di volere, né dalle ulteriori risultanze dibattimentali si ricavano dati obiettivi apprezzabili che meritino approfondimento, non reputandosi sufficiente la “stranezza” riferita dai familiari o i cenni generici ad episodi isterici da costoro rappresentati alla persona offesa.

Per i rilievi che precedono, si ritiene che la perizia sollecitata dal difensore non sia necessaria.

Il motivo di gravame, pertanto, deve essere rigettato.

4.2 Sono destituite di fondamento le censure sollevate con riferimento alla sussistenza del reato di cui all’art. 612-bis c.p. contestato al capo 1).

Il Giudice di primo grado ha ricostruito i fatti e ha formulato il giudizio di colpevolezza con argomentazioni aderenti alle evidenze disponibili che devono essere integralmente richiamate.

In tal senso depongono le dichiarazioni testimoniali della parte civile, Ef.Di., la cui credibilità e attendibilità non è oggetto di specifiche doglianze, e le deposizioni rese da Co.Gi., Gu.Ch., Sa.Tr., Ma.An., Da.Ne., Ar.Da., dalle quali si traggono significativi elementi di riscontro riguardo alle condotte poste in essere dall’imputata.

Il contenuto narrativo della testimonianza della parte civile e degli altri testi escussi è sintetizzato nella motivazione della sentenza impugnata e consente di ritenere provate, oltre alle reiterate condotte di natura molesta poste in essere dall’appellante, anche l’evento richiesto ai fini della configurabilità del delitto di atti persecutori, come correttamente evidenziato dal Giudice di primo grado.

La parte civile, di professione avvocato, ha riferito di aver assistito l’anziana madre della Iz.La., Se.Va., per una vicenda civilistica relativa a un immobile, protrattasi per diverso tempo, e di aver avuto contatti, per tali questioni, anche con la stessa imputata. La Iz.La., ad un certo punto, aveva preteso che le fossero anticipati i soldi che sarebbero stati poi dovuti all’esito della controversia.

Sulla base di tale presupposto, a partire dal 2018, l’imputata si presentava senza alcun appuntamento presso lo studio del difensore, inizialmente ogni due o tre mesi, lamentando di avere necessità di denaro benché lei e la madre avessero riscosso circa 340.000 euro dalla vendita di un immobile, e si rivolgeva al Fi.Di. con offese pesanti, tanto che diverse volte l’aveva dovuta allontanare.

La Iz.La. apostrofava il legale come un incapace, un truffatore che si era appropriato dei suoi soldi, e dava dell’incapace anche alla segreteria con la quale aveva discussioni pretendendo di controllare se egli fosse presente.

L’imputata, inoltre, effettuava numerose telefonate sul cellulare della persona offesa, anche ripetutamente a distanza di pochi minuti l’una dall’altra nell’arco della stessa giornata, a qualunque ora, talvolta anche in orario notturno; aveva lasciato un messaggio nella segreteria sostenendo di avere problemi al cuore a causa di onde e di gas provenienti da una palazzina di fronte la sua abitazione, domandando se ne fossero responsabili i collaboratori dello studio.

In una circostanza, l’imputata si era recata presso lo studio mentre il Fi.Di. era in riunione con un collega e, invitata ad allontanarsi dopo un’ulteriore richiesta di una cospicua somma di denaro, aveva colpito la persona offesa con uno schiaffo al volto, facendole così cadere gli occhiali, e, poi, con la borsa, l’aveva attinta alla testa. Erano intervenuti i collaboratori dello studio, uno dei quali aveva filmato l’episodio con il cellulare, e la Iz.La. era stata allontanata dall’ufficio.

Quanto raccontato dalla parte civile ha trovato riscontro nelle immagini estrapolate dalla registrazione su citata (v. verbale dell’udienza del 30 settembre 2020), relativamente all’aggressione che, come è emerso anche dalla deposizione dell’operante Fo.Sa., intervenuto sul posto, risale al 13 gennaio 2020. La P.G. non aveva rinvenuto presso lo studio l’imputata e aveva identificato i presenti.

L’episodio è stato ricostruito in termini sostanzialmente convergenti dai testi Co.Gi., Gu.Ch., Sa.Tr., i quali hanno riferito anche degli insulti rivolti dall’imputata all’indirizzo della parte civile (v. pp. 4 e ss., 12 e ss., 23 e ss. delle trascrizioni dell’udienza del 12 gennaio 2022.

La Gu., segretaria dello studio legale dal mese di dicembre del 2019, ha confermato, inoltre, che la Iz.La. si presentava con frequenza in ufficio (in alcuni periodi anche due volte a settimana, in altri una volta a settimana), suonava ripetutamente al citofono tanto che nel mese di maggio del 2021 erano stati chiamati i carabinieri, aveva lasciato numerosi messaggi (anche con cadenza settimanale) in segreteria in cui apostrofava l’avvocato come un truffatore e sosteneva che egli le avesse rubato dei soldi.

Ulteriori riscontri alle dichiarazioni rese dalla parte lesa sono emersi dalla deposizione del collega dello studio, Sa.Tr., il quale ha riferito delle visite frequenti della Iz.La., delle telefonate, delle offese rivolte al collega, della preoccupazione di quest’ultimo per i comportamenti dell’imputata, circostanze cui ha fatto cenno anche la teste Ma.An., altra collaboratrice dell’ufficio.

Dall’istruttoria è emerso, inoltre, che il Fi.Di. aveva richiamato l’attenzione del portiere del condominio in cui si trova lo studio, Da.Ge.. Quest’ultimo aveva ricevuto l’indicazione di non far entrare l’imputata che si era presentata innumerevoli volte e le aveva riferito che in ufficio non c’era nessuno, per non farla salire; in alcune di tali occasioni, la Iz.La. aveva rivolto apprezzamenti pesanti alla parte civile, mentre in altre circostanze aveva approfittato della sua momentanea assenza per entrare nello stabile (v. pp. 34 e ss. delle trascrizioni dell’udienza del 12 gennaio 2022).

Le risultanze dibattimentali evidenziate conducono a disattendere le censure sollevate dal difensore riguardo all’insussistenza del delitto di cui al capo 1).

Deve ritenersi provato che l’imputata abbia posto in essere condotte rilevanti ai sensi dell’art. 612-bis c.p. che, unitariamente apprezzate, configurano una ripetuta serie di atti molesti, sfociati, in occasione dell’episodio del 13 gennaio 2020, in un’aggressione fisica in danno della parte civile, avvocato che assisteva la madre in una controversia civile e si era occupato di altre questioni legali.

La Iz.La. si presentava insistentemente presso lo studio di Ef.Di., avanzando pretese economiche infondate, l’offendeva dandogli del truffatore e del ladro, chiamava incessantemente al telefono, lasciava messaggi in segreteria contenenti analoghi epiteti. Trattasi di condotte moleste, reiterate nel tempo, che si sono concretizzate in un’interferenza continua nella vita di relazione del Fi.Di., creando un clima idoneo a comprometterne la serenità e la libertà psichica, e che, pertanto, configurano il delitto di cui all’art. 612-bis c.p. (cfr. Cass. Pen., Sez. 5, sentenza n. 1813 del 17/11/2021, dep. 17/01/2022, con la quale la Corte ha affermato che “integra il delitto di atti persecutori l’opera di reiterata delegittimazione della persona offesa realizzata dal soggetto attivo attraverso una serie protratta di condotte diffamatorie e moleste […] che, lungi dall’integrare un mero esercizio delle facoltà connesse alla tutela giudiziaria dei propri diritti, configurano uno stillicidio persecutorio ai danni della persona offesa”).

Relativamente alle argomentazioni svolte nell’atto di appello a proposito dell’insussistenza dell’evento richiesto per la configurabilità del reato, deve osservarsi che le condotte poste in essere dalla Iz.La. erano obiettivamente idonee a ingenerare un perdurante stato di ansia ovvero un turbamento significativo della serenità della persona offesa, indotta anche ad alcuni cambiamenti delle sue abitudini di vita, come la stessa ha attendibilmente riferito nel corso dell’esame dibattimentale.

Il Fi.Di. ha descritto il clima di tensione suscitato dai comportamenti dell’imputata, spiegando che lo studio era “completamente blindato” e che aveva dato disposizioni al portiere di avvertirlo al citofono nel caso in cui si fosse presentata; i collaboratori filtravano le telefonate e controllavano lo spioncino della porta quando qualcuno suonava il campanello. La parte lesa ha riferito che era preoccupato di incontrare la Iz.La., avendola notata più volte nei pressi dell’ufficio, in quanto frequentava un hotel sito nelle vicinanze, e, pertanto, cambiava percorso. L’aggressione fisica subita l’aveva particolarmente scossa, inducendola a temere per la sua incolumità, motivo per il quale aveva sporto la prima querela, seguita poi da altre denunce per le telefonate ricevute.

Al riguardo, le dichiarazioni della parte civile sono suffragate dalle ulteriori risultanze acquisite.

La teste Gu. ha affermato che era prevista una turnazione in ufficio, per evitare che rimanesse sola, ha riferito di un clima di preoccupazione, stante l’imprevedibilità del comportamento della Iz.La. e ha confermato le disposizioni che il Fi.Di. aveva dato al portiere.

Il teste Sarno ha raccontato dell’apprensione del collega di incontrare l’imputata, circostanza riferita anche dalla Ma.An., la quale ha sottolineato anche la preoccupazione per la situazione creatasi sul luogo di lavoro dove “non si stava tranquilli”.

Sul punto deve richiamarsi la testimonianza di Ar.Da., segretaria dello studio legale fino al 2019, da cui si evince anche la situazione di imbarazzo del Fi.Di. che non sapeva come arginare l’imputata.

Deve ricordarsi, poi, quanto riferito dal Da.Ne. riguardo alle richieste che gli erano state rivolte dalla persona offesa.

Alla stregua delle emergenze evidenziate, deve ritenersi che la natura delle condotte poste in essere da Iz.La. e la loro reiterazione abbiano determinato nel Fi.Di. uno stato di ansia, ne abbiano turbato la serenità ed abbiano generato anche un timore per la sua incolumità.

Il delitto di cui all’art. 612-bis c.p. ha natura di reato abituale ed è integrato dalla necessaria reiterazione dei comportamenti descritti dalla norma incriminatrice e dal loro effettivo inserimento nella sequenza causale che porta alla determinazione dell’evento e che deve essere il risultato della condotta persecutoria nel suo complesso, anche se può manifestarsi solo a seguito della consumazione dell’ennesimo atto persecutorio (v. Cass. Pen., Sez. 5, sentenza n. 7899 del 14/01/2019). Ciò che rileva è l’identificabilità dei singoli atti quali segmenti di una condotta unitaria, causalmente orientata alla produzione dell’evento. Ai fini della configurabilità del reato, è sufficiente che le condotte siano di numero e consistenza tali da provocare nella persona offesa “un perdurante e grave stato d’ansia” ovvero “un fondato timore per l’incolumità propria” (v. in motivazione, Cass. Pen., Sez. 5, sentenza n. 27798 del 04/04/2013; cfr. anche Cass. Pen., Sez. 5, sentenza n. 33842 del 03/04/2018).

Le condotte descritte dalla persona offesa hanno ragionevolmente influito sulla sua serenità, poiché si è trattato di comportamenti oggettivamente e complessivamente idonei a determinare nella vittima un progressivo accumulo di disagio e uno stato di turbamento psicologico (cfr. Cass. Pen., Sez. V, sentenza n. 6323 del 30/01/2023, con la quale la Corte ha chiarito che la prova dell’evento del delitto di atti persecutori, in riferimento alla causazione nella persona offesa di un grave e perdurante stato di ansia o di paura, deve essere ancorata ad elementi sintomatici di tale turbamento psicologico ricavabili dalle dichiarazioni della stessa vittima del reato, dai suoi comportamenti conseguenti alla condotta posta in essere dall’agente e anche da quest’ultima, considerando tanto la sua astratta idoneità a causare l’evento, quanto il suo profilo concreto in riferimento alle condizioni di luogo e di tempo in cui è stata consumata; v. anche Cass. Pen., Sez. V, sentenza n. 19531 del 27/04/2022).

Deve rilevarsi, peraltro, come non sia necessario che la persona offesa prospetti espressamente e descriva con esattezza uno o più degli eventi alternativi del delitto, potendo la prova di essi desumersi dal complesso degli elementi fattuali altrimenti acquisiti e dalla condotta stessa dell’agente (v. Cass. Pen., Sez. 5, sentenza n. 57704 del 14/09/2017).

Non è richiesto, ai fini della configurabilità dell’evento del reato in esame, uno stato patologico clinicamente accertato.

È sufficiente che gli atti posti in essere producano un effetto destabilizzante della serenità e dell’equilibrio psicologico della vittima (cfr. Cass. Pen., Sez. 5, sentenza n. 4728 del 09/12/2019, dep. 04/02/2020, nella cui motivazione sono richiamati i principi espressi da Cass. Pen., Sez. 5, sentenza n. 8832 del 01/12/2010, dep. 07/03/2011). Tenuto conto dei principi di diritto sopra esposti, deve ritenersi che, nel caso di specie, in considerazione dei fatti accertati e delle dichiarazioni della vittima, corroborate dalle ulteriori risultanze dibattimentali, sia provata la sussistenza dell’evento richiesto per la configurabilità del reato contestato.

I rilievi del difensore dell’appellante circa il difetto di prova dell’evento del reato di atti persecutori e la qualificazione giuridica delle condotte, pertanto, sono infondati. Sulla scorta del quadro probatorio sopra delineato, apprezzato alla luce dei principi affermati dalla giurisprudenza di legittimità richiamata, non assume rilievo che il Fi.Di. abbia continuato a svolgere la sua attività professionale.

Le argomentazioni svolte conducono, inoltre, ad escludere che la condotta accertata sia riconducibile nell’alveo dell’art. 660 c.p. in quanto, come si è osservato, le condotte moleste realizzate hanno cagionato nella vittima uno stato di ansia, di preoccupazione e l’alterazione delle proprie abitudini di vita (cfr., da ultimo, Cass. Pen., Sez. 5, sentenza n. 15625 del 09/02/2021, con la quale la Suprema Corte ha chiarito che “il criterio distintivo tra il reato di atti persecutori e quello di cui all’art. 660 cod. pen. consiste nel diverso atteggiarsi delle conseguenze della condotta che, in entrambi i casi, può estrinsecarsi in varie forme di molestie, sicché si configura il delitto di cui all’art. 612-bis cod. pen. solo qualora le condotte molestatrici siano idonee a cagionare nella vittima un perdurante e grave stato di ansia ovvero l’alterazione delle proprie abitudini di vita, mentre sussiste il reato di cui all’art. 660 cod. pen. ove le molestie si limitino ad infastidire la vittima del reato”). Anche le deduzioni relativamente all’insussistenza dell’elemento psicologico sono infondate. Avuto riguardo alla ricostruzione della vicenda nei termini sopra esposti, deve ritenersi che la Iz.La. abbia posto in essere le condotte con coscienza e volontà.

L’appellante ha reiterato nel tempo comportamenti obiettivamente molesti e persecutori che, considerate le modalità dei fatti accertati, rivelano la consapevolezza dello sviluppo progressivo dei singoli atti in una vicenda idonea a tradursi in una perdurante aggressione al Fi.Di. e a cagionare un perdurante stato di ansia e di timore.

4.3 Anche le doglianze relative all’affermazione della penale responsabilità dell’imputata per il reato di lesioni non sono meritevoli di accoglimento.

È provato che la Iz.La. abbia sferrato alla persona offesa un violento schiaffo al volto e, poi, l’abbia colpita alla testa con la borsa.

L’aggressione è stata ricostruita in termini sostanzialmente convergenti dal Fi.Di. e dagli altri testimoni presenti all’accaduto.

Il Co. ha riferito di essere intervenuto mentre l’imputata cercava di sferrare calci in direzione del collega.

Dal certificato medico in data 13 gennaio 2020, acquisito agli atti, risulta che la persona offesa, sottoposta a visita medica presso la sua abitazione, successivamente all’aggressione subita, aveva avuto una crisi ipertensiva e tachicardia; il medico aveva riscontrato, inoltre, uno stato di agitazione e, a carico della guancia sinistra, un vasto eritema, prescrivendo una terapia e riposo assoluto per almeno ventiquattro ore.

Deve, pertanto, ritenersi integrato il delitto di cui all’art. 582 c.p., che si configura anche nel caso di alterazioni di lieve entità.

I dati desumibili dalla certificazione medica richiamata – compatibili con le circostanze temporali, con le modalità dell’azione violenta e con le condizioni rilevate nell’immediatezza dalle persone presenti al fatto – documentano che la condotta dell’imputata abbia cagionato non una semplice sensazione di dolore, ma un’alterazione dell’organismo consistita in un vasto eritema e una crisi ipertensiva tale da suggerire la somministrazione di una terapia e il riposo assoluto per un giorno.

Deve, dunque, essere confermato il giudizio di responsabilità penale dell’imputata per il reato di cui al capo 2).

4.4 È meritevole di accoglimento, invece, il motivo di gravame riguardante il capo e i punti della sentenza con il quale l’appellante è stata condannata per il reato di cui all’art. 595 c.p., limitatamente alle telefonate intercorse con Ma.An.

Il Tribunale ha ritenuto, infatti, che non potesse configurarsi il delitto contestato in relazione agli altri fatti ascritti alla Iz.La. al capo 3).

Quanto agli episodi che coinvolgono la Ma., deve rilevarsi che quest’ultima ha riferito di telefonate nel corso delle quali l’imputata aveva appellato il Fi.Di. truffatore, accusandolo anche di averle rubato i soldi.

Alla stregua di tali dichiarazioni testimoniali, non può ritenersi integrato l’elemento oggettivo del reato che, oltre all’assenza del soggetto passivo, richiede la comunicazione dell’offesa all’altrui reputazione a più persone ovvero che essa sia rivolta a più soggetti. In forza delle considerazioni che precedono, Iz.La. deve essere assolta dal reato di diffamazione per cui è stata condannata con la sentenza impugnata e, conseguentemente, la pena inflitta deve essere ridotta nella misura indicata in dispositivo, come si dirà meglio oltre.

4.5 Le censure relative al trattamento sanzionatorio sono infondate.

Quanto alla richiesta di prevalenza delle circostanze attenuanti generiche, va rilevato che il Tribunale ha riconosciuto dette attenuanti sul più grave reato di cui al capo 1) e, per esse, ha applicato la diminuzione massima prevista. Le doglianze sull’entità della pena non meritano accoglimento.

Tenuto conto dei criteri commisurativi di cui all’art. 133 c.p., la pena determinata dal Giudice di primo grado per il delitto di atti persecutori, stabilita in anni uno di reclusione, deve ritenersi congrua e proporzionata alla natura delle condotte moleste, reiterate per un ampio arco temporale e cessate solo dopo l’applicazione della misura cautelare del divieto di avvicinamento alla persona offesa.

La pena è inoltre adeguata alla preoccupazione e allo stato di ansia ingenerato nella vittima, alle ulteriori conseguenze che sono derivate dalla condotta persecutoria, con riferimento al clima di tensione e preoccupazione anche tra i collaboratori dello studio della parte civile, così come accertato all’esito dell’espletata istruttoria.

Altrettanto congrua deve ritenersi la pena di mesi uno di reclusione determinata dal Tribunale per l’aumento per la continuazione con il reato di cui al capo 2), avuto riguardo alle modalità del fatto e dell’azione violenta posta in essere dall’imputata. La Iz.La., presentatasi presso lo studio legale senza appuntamento come spesso accadeva, aveva preteso ancora una volta, senza alcun fondato motivo, delle somme di denaro dalla parte civile che, sebbene impegnato in una riunione, le aveva dato spiegazioni e l’aveva invitata ad allontanarsi; l’imputata ha inveito ripetutamente nei confronti della persona offesa, in soccorso della quale sono dovuti intervenire alcuni dei collaboratori presenti. Come si è anticipato, la pronuncia assolutoria per il reato di cui al capo 3), impone la riduzione della pena a mesi nove di reclusione, dovendo escludersi l’aumento per la continuazione stabilito dal Giudice di primo grado per detto reato, pari a un mese di reclusione.

Riguardo alla richiesta di concessione della non menzione della condanna, deve rilevarsi che il beneficio non è necessariamente consequenziale alla concessione della sospensione condizionale della pena (v. Cass. Pen., Sez. 5, sentenza n. 38589 del 7/07/2022). Nel caso in esame, si ritiene di non poter riconoscere il beneficio all’imputata, la quale ne ha già usufruito con una precedente condanna (sia pure risalente nel tempo), dovendo considerarsi la reiterazione per un ampio lasso temporale di condotte moleste, insistenti, sostanzialmente ossessive, indicative di una certa intensità del dolo, sfociate in un’aggressione fisica, e le conseguenze dei suoi comportamenti, tali da incidere sulla serenità della vita di relazione della persona offesa. Tali rilievi, valutati nel loro complesso, conducono a ritenere non concedibile il beneficio invocato.

4.6 Quanto alle censure sollevate con riferimento alle statuizioni civili, deve osservarsi che le condotte accertate integrano un fatto illecito fonte di responsabilità civile e di danni risarcibili.

Il Tribunale ha ritenuto che il danno morale dovesse essere liquidato, in via equitativa, in Euro 4.500,00.

La liquidazione dei pregiudizi morali non può che essere equitativa e non è necessario indicare in base a quali calcoli sia stato determinato il quantum del risarcimento. Nel caso di specie, tenuto conto dei fatti materiali accertati e, in particolare, delle condotte realizzate per un apprezzabile lasso temporale e dell’evento lesivo quale emerso all’esito dell’espletata istruttoria, l’incidenza di tali condotte sulla serenità della parte civile, il danno subito deve essere equitativamente determinato in Euro 3.800,00, considerata l’esclusione della penale responsabilità dell’imputata per il reato di diffamazione.

5. In conclusione, in riforma della sentenza impugnata, Iz.La. deve essere assolta dal reato di cui al capo 3), in relazione all’episodio per cui è intervenuta condanna, perché il fatto non sussiste, e la pena inflitta deve essere ridotta a mesi nove di reclusione.

Il danno liquidato in favore della parte civile deve essere rideterminato in Euro 3.800,00.

6. Ai sensi dell’art. 592 c.p.p., l’imputata deve essere condannata al pagamento delle spese processuali sostenute dalla parte civile costituita liquidate come in dispositivo, ritenendosi, al riguardo, prevalente ed assorbente la conferma della condanna dell’appellante al risarcimento del danno (cfr. Cass. Pen., Sez. 5, sentenza n. 47061 del 10/06/2014).

7. Devono essere confermate, infine, le restanti statuizioni.

8. La natura delle questioni trattate e i concomitanti impegni professionali derivanti dal carico del ruolo hanno suggerito di riservare il termine di giorni 90 per il deposito della motivazione.

P.Q.M.

Visto l’art. 605 c.p.p. in riforma della sentenza del Tribunale di Roma in data 10 giugno 2022 appellata da Iz.La., assolve l’appellante dal reato di cui al capo 3), in relazione all’episodio per cui è intervenuta condanna, perché il fatto non sussiste e riduce la pena inflitta a mesi nove di reclusione;

ridetermina la quantificazione del danno liquidato in favore della parte civile in Euro 3.800,00;

condanna l’imputata al pagamento delle spese processuali sostenute dalla parte civile costituita che liquida in complessivi Euro 900,00, oltre rimborso forfettario per spese generali,

IVA e CPA come per legge.

Conferma nel resto.

Motivazione in giorni 90.

Così deciso in Roma il 6 ottobre 2023.

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