SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
I.G., Ig.Ma., M.A. e B. M. venivano tratti a giudizio del Tribunale di Paola per rispondere del delitto p. e p. dagli artt. 81, 110 e 644 c.p.:
“Perchè, in concorso tra loro, con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, approfittando dello stato di bisogno di F.G., gli concedevano, in più soluzioni, in prestito la somma complessiva di L. 80.000.000, pretendendo quale corrispettivo interessi usurari. In particolare la Ig.
- gli concedeva un prestito di L. 10.000.000 nel marzo 1991 che per effetto degli interessi richiesti al settembre 1994, erano lievitati a L. 42.160.000, aggiornati a L. 34.160.000 perchè la parte offesa restituiva il capitale di L. 8.000.000. Nel settembre 1994, tutti i predetti indagati concedevano un ulteriore prestito di L. 70.000.000 che andava ad aggiungersi alla precedente somma che nel frangente veniva ricalcolata con l’aggiunta di ulteriori interessi tanto da raggiungere la cifra tonda di L. 35.000.000 e quindi complessivamente di 105.000.000. Quale interesse per quest’ultima cifra complessiva stabilivano che l’indagato, per il periodo compreso tra il (OMISSIS) doveva versare quale interesse a scalare la somma di L. 45.000.000 e quindi in totale L. 150.000.000.
Su quest’ultima somma pretendevano altresì un interesse da versare mensilmente pari al 24%. Inoltre dall’ultimo prestito di L. 70.000.000 trattenevano L. 8.000.000 per spese. Accertato in (OMISSIS)”.
Con sentenza pronunciata in data 27/7/2004 dal Tribunale di Paola in composizione collegiale, I.G., Ig.Ma., M.A. e B.M. venivano dichiarati colpevoli dei reati loro ascritti in rubrica (artt. 81, 110 e 644 c.p.), avvinti dal vincolo della continuazione, (ad eccezione della condotta di usura relativa al prestito di dieci milioni descritta come commessa dal (OMISSIS)) e, concesse le circostanze attenuanti generiche, venivano condannati, I. G. alla pena di anni uno di reclusione ed Euro 3.000,00 di multa, Ig.Ma., M.A. e B.M. alla pena di mesi dieci di reclusione ed Euro 2.500,00 di multa ciascuna oltre al pagamento, in solido tra loro, delle spese processuali, alla condanna ai risarcimento dei danni in favore delle costituite parti civili, in solido tra loro, da liquidarsi in separata sede, nonchè al pagamento in favore delle stesse parti civili delle spese e competenze del giudizio, pure in solido tra loro, liquidate in Euro 2.750,00 oltre IVA e CPA con il beneficio della pena sospesa per tutti gli imputati.
Con decisione dell’1/7/2005 la Corte di Appello di Catanzaro confermava la sentenza emessa in data 27/7/2004 dai Tribunale di Paola, in composizione collegiale, appellata dagli imputati che condannava al pagamento in solido delle ulteriori spese processuali del grado del giudizio anche in favore della costituita parte civile liquidando queste ultime in complessivi Euro 1200,00 per competenze ed onorari, oltre IVA, CPA e rimborso forfettario.
Avverso la decisione della Corte territoriale ricorrono per Cassazione gli imputati deducendo i seguenti motivi:
- Nullità della sentenza per mancanza di motivazione o manifesta illogicità della stessa, risultando il vizio dal testo del provvedimento impugnato, sullo stato di bisogno della parte offesa, in relazione all’art. 644 c.p., e per inosservanza o erronea applicazione della legge penale relativa al delitto di usura, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., lett. E, e lett. B. Rilevano i ricorrenti che se il prestito originario di dieci milioni, che arrivava ad agosto del 1994 a L. 45.000.000, con l’aggiunta di interessi e di altri prestiti, che non potevano essere esclusi, e che era stato effettuato per sopperire ad esigenze commerciali del F., non era usura, come ritiene il Tribunale; l’altro prestito, cioè quello di L. 70.000.000, avvenuto unicamente per saldare i conti con il Banco di Napoli e purgare il bene dall’ipoteca.
In conclusione, non vi è prova dello stato di bisogno, della consapevolezza e dell’approfittamento dello stesso da parte degli imputati”.
Ebbene, nei motivi di appello, come sopra riportati, si era detto:
“Risulta per tabulas che il prestito di L. 70.000.000 fu effettuato per estinguere un debito con il Banco di Napoli e togliere l’ipoteca che gravava sul bene immobile della sorella. E’ stata certo una scelta utilitaristica e di impiego produttivo da parte del F., considerato che non vi era alcuna necessità o assillo impellente di pagare il debito”. E sul punto: silenzio assoluto della Corte! 2. Nullità della sentenza per inosservanza o erronea applicazione dell’art. 644 c.p., D.M. 8 luglio 1992, n. 818800 e successive disposizioni – ai sensi dell’art. 606 c.p.p., lett. B, e per mancanza o manifesta illogicità della motivazione, risultando il vizio dal testo del provvedimento impugnato.
Incorre il Giudice nel vizio di inosservanza o erronea applicazione della legge penale sull’usura, e del D.M. 8 luglio 1992 – e successive disposizioni – quando recepisce, sebbene immotivatamente, il calcolo dell’interesse effettuato dal perito. Invero, la normativa di cui al suindicato decreto – a parte il fatto che è stata abrogata e quindi non operante nel 1994 – non si applica al caso in esame perchè “per consumatore si intende la persona fisica che accede al credito per scopi estranei all’attività imprenditoriale o professionale attualmente svolta”, mentre, al contrario, il F. ha ottenuto il prestito per scopi imprenditoriali, e, poi, perchè, “per creditore si intende la persona fisica o giuridica che concede un credito nell’esercizio di un’attività commerciale o professionale”.
Pertanto, nè per la natura del prestito nè per la qualifica del soggetto erogatore, la normativa citala si attaglia al caso di specie.
- Nullità della sentenza per mancanza o manifesta illogicità della motivazione, risultando il vizio dal testo del procedimento impugnato (art. 606 c.p.p., lett. E) in relazione alla qualificazione come contratto di mutuo dell’operazione finanziaria posta in essere dalle parti.
La Corte ha “qualificato l’operazione posta in essere tra le parti come un contratto di mutuo ipotecario”, come “una unitaria operazione di prestito” ed anche per escludere “lo schema dello sconto prospettato dalla difesa”, ma immotivatamente. Si tratta unicamente di affermazioni tautologiche.
- Nullità della sentenza per inosservanza o erronea applicazione della legge penale (art. 644 c.p. previgente), ai sensi dell’art. 606 c.p.p., lett. B, e per mancanza o manifesta illogicità della motivazione, risultando il vizio dal testo del provvedimento impugnato (art. 606 c.p.p., lett. E).
Si ha il vizio di erronea applicazione della legge sulla usura perchè gli interessi, ammesso e non concesso che il perito li abbia calcolati bene, andavano valutati come “usurari” alla stregua della normativa previgente. Ciò non è avvenuto e la motivazione sull’usurarietà degli interessi in base alla suindicata legge è soltanto apparente, apodittica.
Inoltre, con l’atto di appello era stata mossa la censura, che si trascrive: “In ogni caso, ammesso e non concesso che il perito abbia calcolato bene il saggio di interesse, parimenti gli interessi non sono usurari. alla stregua della normativa della legge previgente sull’usura, che disciplina il fatto de quo”.
Nullità, dunque, anche per omesso esame della suesposta censura e per mancanza di motivazione.
- Nullità della sentenza (relativamente al secondo episodio di usura) per inosservanza o erronea applicazione della legge previgente sull’usura, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., lett. B, e per mancanza o manifesta illogicità della motivazione, risultando il vizio dal testo del provvedimento impugnato (art. 606 c.p.p., lett. E).
Come rilevato con l’atto di appello il tasso del 24% annuo, è un tasso bancario o quasi; di certo, non è usurario.
Sul punto manca la motivazione sull’usurarietà dell’interesse in relazione alla legge previgente sull’usura.
- Nullità della sentenza per inosservanza o erronea applicazione dell’art. 644 c.p. norma previgente, dell’art. 644 c.p., di cui alla L. 7 marzo 1996, n. 108, art. 1, comma 1, del D.L. n. 394 del 2000, convertito dalla L. n. 24 del 2001, relativo “all’interpretazione autentica della L. 7 marzo 1996, n. 108, recante disposizioni in materia di usura, dell’art. 644 ter c.p., dell’art. 2 c.p. e dell’art. 25 Cost., comma 2, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., lett. B.” Osservano i ricorrenti che è certo in fatto che gli episodi di usura per cui vi è stata condanna sono due. il primo riguarda il prestito ed il suo rimborso in trenta rate mensili, che si formalizza tra il settembre e l’ottobre del 1994, di cui all’atto per Notar Lomonaco da Praia a Mare del 17/10/94, “per un complessivo debito del F. dell’importo di L. 105.000.000 (L. 70.000.000 più 35.000.000), quale risultato di “arrotondamenti” delle originarie L. 34.160.000, sul quale i mutuanti richiedono il pagamento di L. 45.000.000 per interessi con la garanzia del rilascio di trenta cambiali da parte del F.A., su richiesta del fratello G., per una somma complessiva di L. 150.000.000, di importo variabile e a scadenza mensile, da onorare nell’arco temporale di circa due anni;
che di tali cambiali fu pagato soltanto il primo effetto, portato a scadenza il (OMISSIS), dell’importo di L. 3.000.000.
Sicchè, se si accoglie l’orientamento della Giurisprudenza consolidato nella vigenza del vecchio testo dell’art. 644 c.p., secondo cui l’usura è destinata ad esaurirsi con la pattuizione, convenzionale o reale, in riferimento al primo episodio, il reato si è consumato il (OMISSIS), data della stipula delle pattuizioni dinanzi al Notaio Lomonaco da Praia a Mare: per il secondo episodio, la consumazione è avvenuta nel dicembre del 1994, epoca in cui le parti stabiliscono il versamento di un interesse del 24% annuo (2% mensile) su ogni effetto scaduto e non pagato.
Se, invece, si recepisce l’indirizzo della Cassazione, affermatesi, dopo l’entrata in vigore della nuova legge sull’usura, con cui si è data rilevanza ai fini della consumazione, e quindi della prescrizione, all’ultima riscossione degli interessi o del capitale, per il primo episodio, il reato si è consumato il (OMISSIS), coincidente con il pagamento del primo effetto di L. 3.000.000, di cui alle pattuizioni contenute nell’atto per Notaio Lo Monaco sopra indicato; per l’altro, il momento consumativo del reato si è verificato nel gennaio del 1996, periodo entro il quale è avvenuto l’ultimo pagamento degli interessi da parte del F..
Comunque, in entrambi i casi, quale che sia l’indirizzo della Cassazione da seguire, quando fu pronunciata la sentenza di primo grado (27/7/2004) i reati erano prescritti, essendo allora, già decorso il tempo necessario a prescrivere, di anni 7 e mesi sei, ai sensi dell’art. 157 c.p. e art. 160 c.p., u.c..
Ritiene, invece, la sentenza impugnata, confermando l’assunto del Tribunale, che il momento consumativo dei reati di usura contestati “viene ravvisato nell’impulso all’esecuzione forzata, dato dai mutuanti M.A. e B.M., prima con l’atto di precetto (7/4/1997) e, poi, con il pignoramento immobiliare del 14/5/97, che rappresenterebbe l’effettivo conseguimento del vantaggio usurario quale sostanziale momento consumativo del reato, sia pure in stretta connessione con l’originaria pattuizione” (v. Sent. Trib. – fl. 17; v. Sent. Corte di Appello di Catanzaro – fl. 13).
E’ di palmare evidenza – secondo i ricorrenti – l’inosservanza o l’erronea applicazione della legge penale sull’usura da parte del giudicante, per cui sussiste la nullità della sentenza impugnata.
Invero, tutto ciò, ossia l’impulso all’esecuzione forzata dato dai mutuanti con l’atto di precetto e, poi, con il pignoramento immobiliare è fuori della condotta dell’elemento oggettivo dell’usura, che prevede che la “datio” o la promessa di interessi o di altri vantaggi usurari, in corrispettivo di una prestazione di denaro o di altra utilità, provenga dall’usurato. Tra l’altro, e la confusione emerge in modo evidente, il vantaggio usurario è cosa ben diversa dall’interesse usurario, è l’altra forma di realizzazione del reato, la cui prestazione è sempre opera della vittima dell’usura. Non vi è dubbio che si tratti di effetti del reato di usura, di un post-factum, e non di elementi costitutivi dello stesso.
Inoltre, sempre secondo gli imputati, ricorre parimenti la nullità della sentenza per inosservanza o erronea applicazione della normativa sopra richiamata, ammesso e non concesso, come prima visto, che nella specie si possa parlare di “momento consumativo” del reato di usura, così come erroneamente individuato e ritenuto dal Giudice di merito, in quanto la legge da applicare è quella previgente, che disciplina nei casi di specie il reato di usura, e non quella del 1996, n. 108, come erroneamente ritenuto dalla sentenza impugnata, sebbene ai soli fini delle prescrizione, perchè completamente esclusa, e per interpretazione autentica dello stesso legislatore (v.
D.L. n. 394 del 2000, convertito dalla L. n. 24 del 2001, relativo “all’interpretazione autentica della L. 7 marzo 1996, n. 108, recante disposizioni in materia di usura”), per le promesse o pattuizioni di interessi avvenute prima della sua entrata in vigore, anche se il relativo pagamento è ancora in corso, sotto l’egida della norma incriminatrice sopravvenuta. Chiedono, pertanto, i ricorrenti l’annullamento della sentenza impugnata.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Il ricorso è infondato.
I primi cinque motivi si risolvono sostanzialmente in non consentite censure di puro merito con le quali si chiede a questa corte di legittimità una diversa interpretazione di elementi processuali – segnatamente delle risultanze peritali – compiutamente e correttamente valutati dai Giudici del merito i quali hanno, con davvero analitiche motivazioni, ricostruito in tutti i suoi aspetti – temporali e contenutistici – la vicenda in questione facendo esplicito riferimento alle dichiarazioni della parte offesa, ritenute oltremodo credibili, caratterizzate da specificità, precisione, coerenza e nitidezza del racconto, e riscontrate dalle dichiarazioni di altri soggetti e dall’acquisita documentazione.
Scrive, in proposito, la Corte territoriale: “Sulla scorta di tali complessive e concordanti risultanze istruttorie può, quindi, ritenersi sicuramente raggiunta una prova del tutto tranquillante in ordine alla esatta ricostruzione degli avvenimenti così come attendibilmente riferita dalla parte offesa, riscontrata anche esternamente dalle deposizioni testimoniali degli altri soggetti esaminati e, peraltro, suffragata dalla copiosa documentazione versata in atti (trascrizioni della cambiali sottoscritte da F.A., atto pubblico rogato in data 17/10/1994 con il quale F.A. e F.M. costituiscono in favore di M.A. e B.M. ipoteca a garanzia del buon fine di 30 cambiali dell’importo di 150 milioni, atti di precetto e pignoramento ad istanza di M.A. e B.M.).
Da tale ricostruzione emerge, dunque, senza dubbio alcuno, la formazione di un debito complessivo, costituito dall’insieme dei prestiti concessi dapprima dalla Ig., quindi da I. e M. da un canto e, infine, dalla B., per un ammontare pari a L. 105.000.000 milioni a garanzia del quale risultano firmati trenta effetti cambiari di vario importo per una somma complessiva di 150.000.000 assistiti da ipoteca convenzionale iscritta in favore delle creditrici M.A. e B.M.. In base a tale ricostruzione fattuale, cui è pervenuto anche il giudice di prime cure, è stato conferito nel corso del dibattimento di primo grado un incarico peritale ai fine di stabilire il calcolo dell’effettivo tasse di interesse applicato dalle parti nelle operazioni economiche posta in essere” …. L’esito dell’accertamento peritale ha condotto alla ritenuta applicazione, in reazione all’operazione finanziaria prospettata, qualificata quale mutuo oneroso, di un tasso effettivo globale del 34,13% ed alla indicazione di tassi medi praticati dagli Istituti di credito in (OMISSIS) nel periodo compreso tra il 1994 ed il 1997 per operazioni similari a quella ipotizzata oscillanti tra il 13% ed 14%”.
Quindi, la Corte di merito è passata ad esaminare, uno per uno, i motivi di appello disattendendoli con adeguate argomentazioni.
Ciò vale in primo luogo per il motivo relativo allo stato di bisogno correttamente ritenuto, alla stregua dell’elaborazione giurisprudenziale di questa Corte di legittimità, “non come stato di necessità che annienti in modo assoluto ogni libertà di scelta, ma come impellente assillo che, limitando la volontà del soggetto, lo induca a ricorrere al credito e ad accettare le esose condizioni dell’usuraio”. Conseguentemente, la Corte territoriale ha ritenuto che “nel caso, oggetto di giudizio, non appariva revocabile in dubbio lo stato di necessità economica in cui versava il F. a causa del cattivo andamento economico della sua impresa commerciale e che lo aveva spinto a contrarre mutui sempre più esosi con gli imputati”. Ha precisato, sul punto, il Giudice di 2^ grado che “l’iniziale bisogno di somme di denaro che lo aveva condotto a chiedere il prestito originario di L. 10.000.000, risultava, infatti, man mano aggravato da una sempre maggiore liquidità, giunta ad assorbire e ad impegnare completamente le consistenze, finanche immobiliari, di tutta la compagine familiare”.
Ciò vale, poi, per il motivo con il quale si sono contestate le risultanze peritali, censure disattese dal Giudice di appello con le seguenti, adeguate argomentazioni: “Come già anticipato, l’accertamento peritale effettuato nel corso del dibattimento dal CTU ha condotto alla individuazione nella operazione finanziaria posta in essere tra gli imputati e il F., (esposizione debitoria iniziale alla data del 30 settembre 1994 di L. 105.000.000 da rimborsare in 30 rate posticipate mensili variabili, dell’importo complessivo di L. 150.000.000), dell’applicazione di un tasso effettivo globale del 34,13%. Il perito ha altresì indicato quali tassi medi praticati dagli Istituti di credito in Calabria nel periodo 1994-1937 per operazioni di mutuo oneroso valori oscillanti tra il 13% ed il 14%.
La quantificazione effettuata dai perito appare assolutamente condivisibile in quanto frutto di una compiuta ed esaustiva indagine condotta con rigorosa metodologia scientifica, sulla base di dati estrapolati da riscontri documentali e puntuali riferimenti normativi.
Il perito, infatti, ha qualificato l’operazione posta in essere tra le parti come un contratto di mutuo ipotecario configurarle come contratto oneroso a prestazioni corrispettive disciplinato dall’art. 1813 c.c. e ss., così inquadrale anche con riferimento alle norme della Banca d’Italia e dell’Ufficio italiano Cambi (pag. 7 consulenza in atti). Il tasso effettivo globale dell’operazione finanziaria in questione risulta, poi, ricavato dal perito attraverso l’applicazione della formula matematica del T.I.R. (tasso interno di rendimento).
Tale tasso è quello che rende uguale su base annua la somma del valore attuale di tutti gli importi che compongono il finanziamento erogato dal creditore alla somma del valore attuale di tutte le rate di rimborso. Tale formula, ripresa dalla formula del Taeg (tasso annuo effettivo globale) stabilito dal D.M. Tesoro 8 luglio 1992, seguendo il metodo dell’interpolazione lineare reso necessario dalla variabilità delle rate, conduce a risultato già indicato di un tasso globale del 34,13% (pag. 9 consulenza)”. ………
“L’inconferenza delle obiezioni difensive ai metodi di calcolo effettuati dal CTU comporta che, ribadita la valenza dei risultati della CTU, emerga in tutta chiarezza la sproporzione tra il tasso convenuto nell’operazione di mutuo posta in essere dagli imputati rispetto a quelli medi praticati in Calabria in quegli anni dagli Istituti bancari indicati dal perito come oscillanti tra il 13 e il 14%”.
E’ facile constatare come si sia in presenza di una ineccepibile valutazione di risultanze processuali, immune da qualsiasi vizio logico, come tale non sindacabile in questa sede di legittimità.
Ciò vale, infine, per quanto attiene le censure contenute nell’atto di appello con riguardo al momento consumativo del reato e alla estinzione del reato stesso per prescrizione, censure ribadite innanzi a questa Corte di legittimità (6^ motivo di ricorso).
La Corte territoriale, con una ampia e corretta motivazione del tutto immune da vizi logico-giuridici e con riferimento ad arresti giurisprudenziali di questa Corte di legittimità, ha così adeguatamente argomentato:
“Circa il primo motivo di appello relativo alla normativa in tema di usura applicabile ai caso in esame, particolarmente rilevante ai fini della prescrizione del reato oggetto di contestazione, ritiene la Corte di dover condividere la conclusione cui è pervenuto ti giudice di primo grado, e contestata dall’appellante, laddove ha ritenuto che, mentre la formazione dell’accordo e la pattuizione relativa agli interessi ricadono sotto il vigore della previgente normativa, il momento consumativo del reato, cronologicamente individuato tra l’aprile ed il maggio 1987 si colloca nell’ambito applicativo della nuova disciplina dell’art. 644 c.p. come novellato dalla L. n. 108 del 1996. Ai fini della risoluzione della questione in oggetto assume senz’altra valenza propedeutica la definizione della natura del reato di usura in quanto direttamente incidente sulla individuazione del momento consumativo dello stesso. Al riguardo appare senz’altro da condividere quell’indirizzo giurisprudenziale, più diffuso e consolidato, secondo il quale il delitto di usura si configura come reato a schema duplice, costituito da due fattispecie destinate strutturalmente l’una ad assorbire l’altra con l’esecuzione della pattuizione usuraria, aventi in comune l’induzione del soggetto passivo al concordamento di interessi o altri vantaggi usurari in corrispettivo di una prestazione di denaro o altra cosa mobile, delle quali l’una è caratterizzata dal conseguimento del profitto illecito e l’altra dalla sola accettazione del sinallagma ad esso preordinato.
Nella prima, il verificarsi dell’evento lesivo del patrimonio altrui si atteggia non già ad effetto del reato, più o meno esteso nel tempo in relazione all’eventuale rateizzazione del debito, bensì ad elemento costitutivo dell’illecito il quale, nel caso di integrale adempimento dell’obbligazione usuraria, si consuma con il pagamento del debito mentre nella seconda, che si verifica quando la promessa del corrispettivo, in tutto e in parte, non viene mantenuta, il reato si perfeziona con la scia accettazione dell’obbligazione rimasta inadempiuta. Ne deriva, in tema di prescrizione, che, qualora vi siano adempimenti del debito frazionati e prolungati nel tempo, il relativo termine decorre dalla data in cui si è verificato l’ultimo pagamento degli interessi usurari (Cass. Pen. Sez. 2, 11 marzo 2004 n. 11837). Tale orientamento, vigente già in epoca antecedente all’entrata in vigore delle modifiche apportate con la riforma di cui alla L. 7 marzo 1996, n. 108, ha trovato sistematica e formale conferma nell’indicazione assegnata alla “ultima riscossione” degli interessi usurari pattuiti dall’art. 644 ter c.p. introdotto dalla L. n. 108 del 1996, art. 11 in tema di prescrizione del reato. A conferma del fondamento della tesi innanzi indicata e condivisa, deve osservarsi che i caratteristici connotati di sinallagmaticità propri del momento iniziale della determinazione convenzionale di interessi o compensi usurari -. In tema di promessa o, alternativamente, di dazione – non sembrano in grado di esaurire in sè la condotta tipica della fattispecie criminosa di cui all’art. 644 c.p. così degradandosi la periodica corresponsione, talora prolungata per anni, da parte della vittima degli interessi o vantaggi ad un post factum penalmente irrilevante. Si è infatti fondatamente rilevato (Cass. Pen. Sez 2, sent. n. 11055 del 22/10/1998) che configurare il reato di usura, secondo il più risalente insegnamento giurisprudenziale, come reato istantaneo con effetti eventualmente permanenti nel senso che lo stesso si consuma nel momento della stipula del patto usurario pur perdurandone le conseguenze ne tempo, in caso di promessa seguita da dazione, senza il compimento di un’ulteriore attività da parte dell’agente, e sostenere l’estraneità alla struttura della fattispecie criminosa di quella modalità di realizzazione dell’illecito – la dazione degli interessi – nella quale indubbiamente si identifica la completa esecuzione del delitto ed il massimo approfittamento della concreta e progressiva lesione dell’interesse proietto, apparirebbe in realtà distonico rispetto al consueto atteggiarsi – nella realtà economica e sociale – del fenomeno usurario. Appare in realtà logicamente più convincente e condivisibile, alla stregua anche dell’odierno assetto normative dell’istituto, la prevalente opinione secondo cui, qualora alla promessa segua – come abitualmente avviene mediante la rateizzazione nei tempo degli interessi usurari convenuti – la dazione effettiva, questa fa parte a pieno titolo del fatto lesivo penalmente rilevante e segna, mediante la concreta e reiterata esecuzione dell’originaria pattuizione usuraria, il momento consumativo “sostanziale” del reato:
una situazione non necessariamente assimilabile alla categoria della permanenza – eventuale – del reato, ma configurabile secondo i duplice ed alternativo schema (proposto, ad esempio, da giurisprudenza e dottrina maggioritarie per l’ipotesi della corruzione: ex plurimis Cass. Sez. 6^, 10 luglio 1395, Caliciuri) della fattispecie tipica del reato, che pure mantiene intatta la sua natura unitaria ed istantanea, ovvero con riferimento alla struttura dei delitti cd. a condotta frazionata o a consumazione prolungata (quale, ad esempio la truffa inerente ai conseguimento di prestazioni ed erogazioni periodiche da parte della FA). Se, quindi, la consumazione del reato va ancorata ai momento in cui, in esecuzione della pattuizione originarla, si verifica “effettiva riscossione degli interessi o il concreto conseguimento dei vantaggi usurari, ne caso in esame tale momento non può essere individuato, come pretenderebbe l’appellante, ne gennaio 1996: data dell’ultima dazione di una somma di denaro a titolo di interessi da parte del debitore, bensì nella primavera 1997 e cioè allorquando i creditori diedero impulso alla procedura esecutiva, dapprima mediante l’atto di precetto in data 7/4/1997, poi a mezzo dell’atto di pignoramento immobiliare del 14/5/1997, al fine di azionare la garanzia ipotecaria prestata da F.A. sull’immobile di sua proprietà. La dazione della rata di interessi corrisposta da parte del debitore nel gennaio 1996, infatti, non costituiva l’ultimo atto dell’adempimento dell’obbligazione usuraria pesta in essere tra le parti ma solo l’ultimo pagamento di interessi che i debitore, oberato dalle difficoltà economiche, era riuscito ad effettuare prima di interrompere, per assoluta mancanza di ulteriori provviste economiche, i pagamenti ancora dovuti. Tale dazione di denaro, quindi, lungi dal concludere e definire il rapporto usurario con gli imputati, determinava da parte di questi ultimi, l’attivazione di azioni esecutive per il recupero dei crediti rimasti inadempiuti e per il conseguimento dell’illecito vantaggio usurario da questi preteso sicchè non può revocarsi in dubbio che tale concreta e fattiva condotta degli imputati, estrinsecatasi con l’avvio delle procedure esecutive, rappresenti l’ennesima ed ulteriore manifestazione della condotta usuraria con la conseguenza che il reato, in virtù della natura innanzi descritta, era a tutti gli effetti ancora perdurante nella primavera del 1997. Discende, quindi, da tale considerazione che il momento consumativo del reato in contestazione debba essere individuato tra l’aprile ed il maggio 1997 e, quindi, nella piena vigenza del novellato testo dell’art. 644 c.p. con conseguente esclusione dell’invocata maturazione del termine prescrizionale del reato in contestazione.
Ha fatto, così, la Corte di merito corretta applicazione del principio più volte affermato da questo Supremo Collegio – da ultimo, con sentenza sez. 2^, n. 34910/08 (RIV. 241818) – secondo cui “in tema di delitto e di usura, la riscossione degli interessi dopo l’illecita pattuizione integra il momento di consumazione e non costituisce un post factum penalmente irrilevante”. Ed in tal senso questo Collegio deve ribadire che la qualificazione del reato di usura quale delitto istantaneo ad effetti permanenti non è più attuale ed è stata superata da più recenti decisioni, oltre che ripudiata dalla quasi generalità della dottrina. L’occasione per il mutamento di indirizzo è stata offerta dalla riforma del reato di usura del 1996, che ha introdotto una speciale regola in tema di decorrenza della prescrizione, l’art. 644 ter c.p., il quale stabilisce che “la prescrizione del reato di usura decorre dal giorno dell’ultima riscossione sia degli interessi che del capitale”. Tale statuizione, infatti, non è in linea con l’orientamento che attribuiva all’usura la natura di reato istantaneo, sia pure con effetti permanenti, e rappresenta – ad avviso di questo Collegio – un segnale determinante del superamento di quella visione del delitto tutta incentrata sul momento della pattuizione. Così che, anche questa Corte, in una recente decisione ha affermato che “in tema di usura, qualora alla promessa segua – mediante la rateizzazione degli interessi convenuti – la dazione effettiva di essi, questa non costituisce un post factum penalmente non punibile, ma fa parte a pieno titolo del fatto lesivo penalmente rilevante e segna, mediante la concreta e reiterata esecuzione dell’originaria pattuizione usuraria, il momento consumativo “sostanziale” del reato, necessariamente realizzandosi, così, una situazione non assimilabile alla categoria del reato eventualmente permanente, ma configurabile secondo il duplice e alternativo schema della fattispecie tipica del reato, che pure mantiene intatta la sua natura unitaria e istantanea, ovvero con riferimento alla struttura dei delitti cd. a condotta frazionata o a consumazione prolungata” (Cass. sez. 2^, 13/10/2005, n. 41045).
In sostanza, anche sulla base del tenore letterale, testuale della norma suddetta, la riscossione effettiva degli interessi maggiorati – e, quindi, naturalmente, anche la riscossione coattiva degli stessi – non costituisce, a differenza di quanto assume la difesa, un post factum penalmente irrilevante rispetto alla stipulazione dell’accordo usurario, ma coincide con la consumazione del delitto il quale si atteggia, in tal caso, a delitto a consumazione prolungata, perdurando sino a che non cessano le dazioni degli interessi; ciò in quanto la consegna effettiva degli interessi usurari convenuti segna il momento consumativo “sostanziale” del reato.
Non vi è, quindi, motivo – atteso il termine riscossione usato dal legislatore – di distinguere tra riscossione volontaria, spontanea e riscossione mediante procedura esecutiva; nè vi è motivo di escludere che, in mancanza di dazione spontanea, non possa e non debba farsi riferimento alla riscossione coattiva come ulteriore prolungamento dell’attività delittuosa rappresentando essa, comunque, il momento finale della concreta e reiterata esecuzione della originaria pattuizione usuraria, finalizzata, in ogni caso, alla effettiva riscossione, forzata, degli interessi usurari e del capitale. Sulla base di tale principio, del tutto corretta è la conclusione cui è pervenuta la Corte di merito già prima ricordata e che deve qui essere ribadita: “Tale dazione di denaro, quindi lungi dai concludere e definire il rapporto usurario con gli imputati, determinava da parte di questi ultimi, l’attivazione di azioni esecutive per il recupero dei crediti rimasti inadempiuti e per il conseguimento dell’illecito vantaggio usurario da questi preteso sicchè non può revocarsi in dubbio che tale concreta e fattiva condotta degli imputati, estrinsecatasi con l’avvio delle procedure esecutive, rappresenti l’ennesima ed ulteriore manifestazione della condotta usuraria con la conseguenza che il reato, in virtù della natura innanzi descritta, era a tutti gli effetti ancora perdurante nella primavera del 1997. Discende, quindi, da tale considerazione che il momento consumativo del reato in contestazione debba essere individuato tra l’aprile ed il maggio 1997 e, quindi, nella piena vigenza del novellato testo dell’art. 644 c.p. con conseguente esclusione dell’invocata maturazione del termine prescrizionale del reato in contestazione”. Ne consegue, quindi, la infondatezza del motivo di ricorso.
Al rigetto del ricorso consegue la condanna dei ricorrenti al pagamento in solido delle spese processuali.
P.Q.M.
La Suprema Corte di Cassazione, Sezione Seconda Penale, rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento, in solido, delle spese processuali.
Così deciso in Roma, nella Pubblica udienza, il 19 giugno 2009.