1) Dopo un lunghissimo iter processuale, iniziato il 14.4.1983, articolatosi in tre gradi di giudizio per la decisione sull’ammissibilità dell’azione per la dichiarazione giudiziale di paternità ed in un grado per l’esercizio dell’azione vera e propria, Ca.Em. veniva riconosciuta figlia naturale di Ch.Ar., deceduto il (omissis) – in contraddittorio con la vedova di quest’ultimo, Bo.Li. (o A.), e coi figli legittimi dello stesso, Ch.Cl., Ch.Ma. e Ch.Ga., alla quale nelle more subentravano gli eredi Ca.Ca. (marito separato) e Ca.St. (figlio) – con la sentenza del Tribunale di Roma n. 4234 del 28.6.2002, non impugnata e passata in giudicato.
2) Sul presupposto dell’accertato suo status di figlia naturale riconosciuta di Ch.Ar., Ca.Em. con atto di citazione notificato il 7.2.2005 conveniva, quindi, in giudizio davanti al Tribunale di Roma i sopra indicati eredi di Ch.Ar., esclusa la vedova di quest’ultimo nelle more deceduta, per sentire dichiarare il suo diritto a partecipare alla successione del padre naturale Ch.Ar., apertasi in precedenza, e per conseguire dagli eredi del medesimo il valore della quota di sua spettanza dell’eredità (1 dei 2/3 e quindi 1/6).
Si costituivano nel giudizio di primo grado i convenuti, che pur non negando di avere partecipato ai precedenti giudizi relativi all’ammissibilità ed al successivo esercizio dell’azione per dichiarazione giudiziale di paternità, eccepivano il loro difetto di legittimazione passiva, in quanto i beni ereditari erano stati tutti venduti, muovendo, altresì, contestazioni sulla composizione del patrimonio ereditario.
Il Tribunale di Roma, con la sentenza n. 22075/2010 del 9.11.2010, accoglieva la domanda di petizione ereditaria di Ca.Em., riteneva che le alienazioni dei beni ereditari compiute dai convenuti successive al 14.4.1983 (data di introduzione del giudizio per fare accertare l’ammissibilità dell’azione di dichiarazione giudiziale di paternità) fossero state effettuate dagli eredi legittimi di Ch.Ar. con la consapevolezza che la Ca.Em. volesse essere dichiarata giudizialmente figlia del predetto e che avrebbe avuto quindi diritto ad una quota del patrimonio ereditario paterno, escludendo la qualificazione dei convenuti come possessori di buona fede quanto alla vendita delle azioni Condospa e del terreno in Roma località I., per i quali condannava pro quota i convenuti al pagamento in favore della Ca.Em. del loro valore, determinato in Euro 726.250,43, con la rivalutazione monetaria secondo gli indici Istat dall’apertura della successione di Ch.Ar. (30.9.1980) fino alla sentenza e con gli interessi compensativi sulla somma annualmente rivalutata anno per anno.
Con la stessa sentenza veniva, invece, riconosciuta la buona fede dei convenuti quanto alla vendita della quota del defunto della Ch.Ar. e Ch.Cl. Snc avvenuta prima del 14.4.1983 con condanna per essa dei convenuti pro quota al pagamento del prezzo incassato di Euro 6.886,09, con gli interessi legali dalla vendita del 27.3.1981 al saldo, riconoscendo la buona fede di Ch.Cl. con riferimento alla vendita degli immobili di Roma, via (omissis) e via (omissis), a lui donati per la nuda proprietà dal padre e venduti prima dell’apertura della successione di Ch.Ar., con condanna di Ch.Cl. al pagamento in favore della Ca.Em. della somma di Euro 215.689,41 con gli interessi legali dal 30.9.1980 al saldo; condannava, altresì, la Ca.Em. al pagamento, a favore dei convenuti, della somma di Euro 9.627,05 per le spese funerarie e l’imposta di successione oltre interessi legali dal 30.9.1980 al saldo; condannava, infine, i convenuti a rimborsare alla Ca.Em. le spese di giudizio, comprese quelle di CTU.
3) Contro tale sentenza proponevano separati appelli Ca.Ca. e Ch.Cl., e gli appellati proponevano appelli incidentali.
Le due cause venivano riunite dall’adita Corte di appello di Roma. Con la sentenza n. 5343/2017 del 10.5/8.8.2017 la citata Corte d’Appello: – dichiarava cessata la materia del contendere tra Ch.Cl. e Ca.Em. con compensazione tra loro delle spese processuali, in quanto nelle more era intervenuto tra gli stessi un accordo transattivo, limitato alle reciproche pretese; – accoglieva parzialmente l’appello principale di Ca.Ca. e quello incidentale di Ch.Ma.; – rilevava la tardività dell’appello incidentale di Ca.St.; – rigettava l’appello incidentale di Ca.Em. e compensava le spese processuali tra tutte le parti.
In particolare, la sentenza impugnata, facendo applicazione dei principi espressi dalla sentenza n. 14917/2012 della Corte di Cassazione, riteneva che il principio della presunzione di buona fede dettato dall’art. 1147 cod. civ. dovesse trovare applicazione anche agli eredi che al momento dell’apertura della successione erano nel possesso dei beni ereditari, i quali, pertanto pur essendo stati parte dei giudizi per l’ammissibilità e poi per il riconoscimento della paternità naturale di Ch.Ar. nei confronti di Ca.Em., dovevano considerarsi in buona fede per la restituzione dei frutti dei beni posseduti fino al momento in cui era stata loro notificata la domanda di restituzione dei beni ereditari (nella specie l’azione di petizione ereditaria di Ca.Em.).
Sulla base di questi principi, con l’impugnata sentenza la Corte laziale condannava Ca.Ca. e Ca.St., quali eredi di Ch.Ga., e Ch.Ma. pro quota al pagamento in favore di Ca.Em. della somma di Euro 1.722,00 quale corrispettivo della vendita del terreno in Roma località I. (detratta la quota di Ch.Cl.), nonché della somma di Euro 720.167,10 quale corrispettivo della cessione delle azioni Condospa (detratta la quota di Ch.Cl.), con la rivalutazione monetaria secondo le variazioni degli indici Istat dalla domanda giudiziale di petizione ereditaria del 7.2.2005 e con gli interessi compensativi sulla somma di anno in anno rivalutata, nonché della somma di Euro 6.886,09 quale corrispettivo della cessione della quota posseduta da Ch.Ar. della Snc Ch.Ar. e Ch.Cl. (detratta la quota di Ch.Cl.), con gli interessi legali dalla domanda giudiziale di petizione ereditaria.
4) Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione, notificato a Ca.Ca., Ca.Sa., Ch.Ma. e Ch.Cl. il 16.2.2018, Ca.Em., affidandosi a tre motivi, cui hanno resistito, con distinti controricorsi, Ca.Ca., Ch.Ma. e Ca.St., mentre Ch.Cl. è rimasto intimato.
Hanno depositato memorie ex art. 381bis.1 c.p.c. Ca.Em., Ca.St. e Ca.Ca.
La causa è stata trattenuta in decisione nell’adunanza camerale del 27.2.2024.
Diritto
RAGIONI DELLA DECISIONE
1) Preliminarmente, in accoglimento dell’eccezione dei controricorrenti, va disposta l’esclusione dei documenti 5 (ricorso ex art. 274 cod. civ. del 16.4.1983) e 6 (sentenza n. 4234/2003 del Tribunale di Roma di accertamento della paternità naturale) prodotti dalla ricorrente, trattandosi di documenti di gran lunga anteriori all’impugnata sentenza, non depositati nei precedenti gradi di giudizio, oltretutto non riguardanti la nullità della sentenza impugnata, né l’ammissibilità del ricorso, o dei controricorsi, donde l’inammissibilità della loro produzione nel giudizio di legittimità ai sensi dell’art. 372 c.p.c.
2) Col primo motivo la ricorrente lamenta – in relazione all’art. 360 comma primo n. 3), 4) e 5) c.p.c. – la violazione e/o falsa applicazione degli articoli 533,535,1147 e 2038 cod. civ., nonché degli articoli 115 e 116 c.p.c. per omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio ed erronea applicazione di una presunzione legale in ordine alla buona fede dei coeredi chiamati nel giudizio di petizione ereditaria, che in realtà erano già stati parti nel giudizio di accertamento della paternità naturale di Ch.Ar. nei confronti di Ca.Em..
Si duole la ricorrente che la Corte d’Appello di Roma abbia fatto decorrere la rivalutazione monetaria e gli interessi compensativi sulle somme, di anno in anno rivalutate, corrispondenti al prezzo dei beni ereditari che gli altri eredi di Ch.Ar. avevano venduto a terzi, dalla data della notifica dell’azione di petizione ereditaria del 7.2.2005, anziché dal momento anteriore in cui essi avevano avuto conoscenza della pendenza del giudizio di accertamento della paternità naturale da lei promosso, benché lo stesso fosse stato introdotto dopo il decesso di Ch.Ar., con l’evidente finalità della Ca.Em. di partecipare al patrimonio ereditario, e non alla vita familiare dei figli di Ch.Ar., appiattendosi sull’asserito unico precedente in tal senso della Suprema Corte (Cass. n. 14917/2012). Si adduce che, tuttavia, la Corte di secondo grado aveva omesso di considerare che nella fattispecie esaminata da tale sentenza non era contestato il fatto che gli originari convenuti fossero in buona fede al momento dell’apertura delle successioni, e per quel motivo si era ritenuto che la loro condizione soggettiva non potesse mutare da buona fede iniziale a mala fede per un’evenienza esterna, quale l’azione sopravvenuta di accertamento della paternità naturale, occorrendo una manifestazione della volontà del titolare del diritto volta ad ottenere la restituzione dei beni ereditari, da individuarsi nell’azione di petizione ereditaria. Aggiunge la ricorrente che gli eredi di Ch.Ar. non avevano mai contestato di avere partecipato fin dal 1983 al giudizio di accertamento per la dichiarazione giudiziale di paternità di Ch.Ar. nei suoi confronti, per cui erano certamente da considerarsi in mala fede al momento delle vendite dei beni ereditari ad esso sopravvenute, e non poteva parlarsi – come, invece, ritenuto con l’impugnata sentenza – di contemperamento tra la tutela del principio del libero godimento e della libera circolazione dei beni ereditari e la tutela dell’erede figlio naturale riconosciuto pretermesso, in quanto nessun ostacolo veniva frapposto al godimento ed alla disponibilità dei beni, ed a mutare erano solo le conseguenze economiche della vendita dei beni ereditari a terzi da parte degli eredi apparenti. Deduce, inoltre, la ricorrente che – secondo autorevole dottrina -sia l’art. 535 cod. civ., sia l’art. 2038 cod. civ. sono rimedi di tipo restitutorio, la cui funzione è quella di ripristinare il patrimonio del soggetto che ha subito la lesione nello stato in cui si trovava prima della lesione medesima, con la sola differenza che in caso di buona fede dell’erede apparente, la responsabilità va contenuta nei limiti del suo arricchimento, ricadendo sull’erede vero una parte dell’eventuale perdita patrimoniale subita per effetto dell’atto di disposizione, mentre nel caso di mala fede, la responsabilità dell’erede apparente deve essere commisurata al valore oggettivo del bene e non al suo arricchimento, per cui la sola finalità perseguita dal legislatore sarebbe quella della tutela dell’erede vero e non quella dell’ipotizzato contemperamento di interessi.
Tutto ciò premesso, il collegio osserva che il primo motivo -articolato in modo non del tutto lineare, con contemporanee doglianze relative ad errores in iudicando ed in procedendo – è anzitutto inammissibile nella parte in cui, richiamando la violazione dell’art. 360 comma primo n. 5) c.p.c., sembra individuare il fatto storico decisivo oggetto di discussione tra le parti asseritamente omesso nella circostanza che gli altri eredi del de cuius, Ch.Ar., sarebbero già stati parti dei giudizi, dalla ricorrente promossi prima dell’esercizio dell’azione di petizione ereditaria, per fare accertare l’ammissibilità e poi la fondatezza della sua azione di riconoscimento della paternità naturale di Ch.Ar. nei suoi confronti, e sarebbero stati quindi consapevoli fin da allora dell’intenzione di Ca.Em. di partecipare al patrimonio ereditario.
In realtà, l’impugnata sentenza non ha mancato di esaminare tale circostanza, ma riformando sul punto la sentenza di primo grado, ha ritenuto che – anche in materia di possesso dei beni ereditari -dovesse valere il principio di ordine generale dell’art. 1147, comma 3°, cod. civ., secondo il quale la buona fede è presunta e basta che vi sia stata al tempo dell’acquisto dei beni, e quindi nel caso degli eredi convenuti nella vicenda de qua, al momento dell’apertura della successione di Ch.Ar. (omissis), discendendo da ciò il diritto della Ca.Em. alla restituzione dei frutti dei beni ereditari venduti solo a far tempo dalla data in cui la stessa, esercitando l’azione di petizione ereditaria, con la richiesta della restituzione del controvalore (rectius del prezzo di vendita a terzi dei beni) ex art. 535, comma 2°, cod. civ., e non valendo l’esercizio sopravvenuto all’apertura della successione di Ch.Ar. delle azioni della Ca.Em. volte ad ottenere il riconoscimento giudiziale del suo status di figlia del de cuius, non accompagnate da specifiche domande di restituzione dei beni ereditari, a modificare lo status soggettivo degli altri eredi di Ch.Ar. da buona fede a mala fede.
Il primo motivo è, altresì, inammissibile nella parte in cui richiama la violazione dell’art. 360 comma primo n. 4) c.p.c., senza menzionare la violazione dell’art. 132 n. 4) c.p.c., e soprattutto senza lamentare la mancanza, o la mera apparenza della motivazione dell’impugnata sentenza, non essendo più sindacabile dopo la riforma dell’art. 360 comma 1°, n. 5) c.p.c. (operata dall’art. 54 comma 1° lett. b) del D.L. 22.6.2012 n. 83, convertito con modificazioni dalla L. 7.8.2012 n. 134) la motivazione insufficiente, o contraddittoria, ed essendo la motivazione addotta ampiamente sufficiente ad integrare il cosiddetto minimo costituzionale.
Quanto alle lamentate violazioni degli artt. 115 e 116 c.p.c., esse sono prive di consistenza, siccome la violazione dell’art. 115 c.p.c. può essere ipotizzata come vizio di legittimità solo denunciando che il giudice ha deciso la causa sulla base di prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli, e non anche quando si lamenti che il medesimo, nel valutare le prove proposte dalle parti, abbia attribuito maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre.
Così la violazione dell’art. 116 c.p.c. è idonea ad integrare il vizio di cui all’art. 360, comma 1°, n. 4 c.p.c., denunciabile per cassazione, solo quando il giudice di merito abbia disatteso il principio della libera valutazione delle prove, salva diversa previsione legale, e non per lamentare che lo stesso abbia male esercitato il proprio prudente apprezzamento della prova (v. Cass. 20.8.2019 n. 21505; Cass. 10.6.2016, n.11892).
Venendo ora alla doglianza formulata ex art. 360, comma 1°, n. 3) c.p.c. con riguardo alla prospettata violazione degli articoli 533,535,1147 e 2038 cod. civ., premessa la totale inconferenza del richiamo alla violazione dell’art. 533 cod. civ., che si limita a stabilire che l’erede può chiedere il riconoscimento della sua qualità ereditaria contro chiunque possiede tutti o parte dei beni ereditari a titolo di erede o senza titolo alcuno, allo scopo di ottenere la restituzione dei beni medesimi ed a prevedere l’imprescrittibilità dell’azione salvi gli effetti dell’usucapione, posto che l’azione di petizione ereditaria della figlia naturale riconosciuta, attuale ricorrente, è stata accolta, la doglianza in questione va dichiarata inammissibile ex art. 360 bis n. 1) c.p.c.
Infatti, la sentenza qui impugnata ha deciso le questioni di diritto in modo conforme alla giurisprudenza della Corte sugli articoli 535,1147 e 2038 cod. civ. e le argomentazioni addotte non offrono elementi per mutare l’orientamento della stessa, puntando peraltro ad ottenere un’inammissibile rivalutazione del materiale istruttorio da parte della Corte, giudice di legittimità, al fine di anticipare, rispetto a quanto ritenuto dalla gravata pronuncia, lo stato di malafede dei coeredi già possessori dei beni ereditari venduti, alla data in cui gli stessi erano stati convenuti in giudizio da Ca.Em. per vedere dapprima ammessa l’azione giudiziale di riconoscimento di paternità verso il de cuius e poi riconosciuta la fondatezza della stessa.
L’impugnata sentenza, infatti, si è conformata alla sentenza n. 14917/2012 di questa Corte, che – in una fattispecie del tutto analoga a quella in esame, in cui egualmente l’apertura della successione si era verificata prima dell’esercizio dell’azione per il riconoscimento giudiziale di paternità – ha affermato che il principio della presunzione di buona fede di cui all’art. 1147 cod. civ. ha portata generale e non limitata all’istituto del possesso in relazione al quale è enunciato, e il possessore di buona fede è tenuto alla restituzione dei frutti a far tempo dalla domanda giudiziale con la quale il titolare del diritto ha chiesto la restituzione della cosa, con la conseguenza che – se come nella specie non è contestato che gli originari convenuti fossero in buona fede al momento di apertura della successione – il mutamento della loro condizione soggettiva da buona fede a malafede non può essere riferito ad un’evenienza esterna alla sfera soggettiva dei convenuti, richiedendosi invece una manifestazione di volontà del titolare del diritto volta ad ottenere la restituzione dei beni, manifestazione che si verifica solo con la proposizione dell’azione di petizione ereditaria.
Nello stesso senso della citata sentenza n. 14917/2012 di questa Corte, circa l’applicazione della presunzione di possesso di buona fede dell’art. 1147, comma 3°, cod. civ. ai possessori dei beni ereditari destinatari di azioni di petizione ereditaria da parte di soggetti riconosciuti eredi dopo l’apertura della successione, si sono peraltro pronunciati anche altri provvedimenti della giurisprudenza di legittimità (Cass. 18.8.2021 n. 23111; Cass. ord. 20.8.2019 n. 21505; Cass. 6.6.2014 n. 12798), per cui la sentenza richiamata dalla Corte d’Appello di Roma non è affatto isolata, risultando semmai espressiva di un orientamento consolidato.
Tale indirizzo giurisprudenziale, oltre a tener conto dell’espressa disposizione di richiamo alla disciplina possessoria dell’art. 535, comma 1°, cod. civ. e della specificazione contenuta nel terzo comma di tale articolo – per la quale si considera possessore di buona fede colui che ha acquistato il possesso dei beni ereditari in buona fede, ritenendo per errore di essere erede (o unico erede insieme agli altri chiamati al momento dell’apertura della successione), salvo che l’errore dipenda da colpa grave, e del secondo comma di tale articolo, per il quale l’obbligo restitutorio dell’erede in caso di alienazione a terzi del bene ereditario si limita al prezzo, o al corrispettivo ricevuto, se la buona fede esistente all’apertura della successione permane anche al momento dell’alienazione, avendo altrimenti ad oggetto il valore del bene stesso (come previsto dalla disciplina generale dell’art. 2038, comma 2°, cod. civ.) -, considera che il diritto del figlio naturale riconosciuto di accettare l’eredità deriva solo dal passaggio in giudicato della sentenza di riconoscimento di tale status, che è una sentenza di accertamento per la quale non è ipotizzabile una provvisoria esecutività, e che a sua volta è il presupposto per l’esercizio dell’azione di petizione ereditaria volta alla restituzione dei beni ereditari.
3) Col secondo motivo la ricorrente lamenta – in relazione all’art. 360, comma 1°, n. 3) e 5), c.p.c. – la violazione e/o falsa applicazione degli articoli 533,535,1147,2038 e 2697 cod. civ., in quanto la Corte d’Appello di Roma avrebbe violato il principio dell’onere della prova della buona fede gravante sul possessore dei beni ereditari.
Deduce la ricorrente che – anche a voler ritenere applicabile la presunzione di buona fede dell’art. 1147, comma 3°, cod. civ. a favore dei convenuti in possesso dei beni ereditari alla data dell’apertura della successione di Ch.Ar. (omissis), trattandosi di una presunzione iuris tantum – la Corte d’Appello di Roma l’avrebbe dovuta considerare superata sulla base delle circostanze di fatto (nascita di una figlia naturale dall’unione di Ca.An. con Ch.Ar., che alla madre della ricorrente aveva fornito tramite un amico il denaro occorrente per l’acquisto dell’immobile di R. in cui Ca.An. e la figlia Ca.Em. si erano stabilite, oltre a sostenere le spese per il parto) riferite dalla Ca.Em. e non contestate dai convenuti, circa la conoscenza da parte dei coeredi Ch. della pretesa avanzata dalla Ca.Em. sin dal momento in cui aveva rivendicato la sua qualità di figlia naturale del de cuius, anche tenendo conto che solo la partecipazione del defunto nella Snc Ch.Ar. e Ch.Cl. era stata ceduta tra l’apertura della successione del (omissis) ed il 14.4.1983, mentre tutti gli altri beni ereditari (azioni Condospa, terreno in R. località (omissis), negozio in R. via (omissis), terreno e fabbricato in R. via (omissis)) erano stati alienati dagli eredi apparenti dopo l’instaurazione nei loro confronti del giudizio di accertamento prima dell’ammissibilità e poi della fondatezza dell’azione per dichiarazione giudiziale di paternità naturale da parte della Ca.Em.
La ricorrente richiama, inoltre, la sentenza n. 3281/1981 di questa Corte, secondo la quale “nel caso di indebita ricezione di una cosa, l’alienazione del bene ricevuto in buona fede effettuata dopo la conoscenza dell’obbligo di restituirlo è giuridicamente equiparata all’alienazione della cosa ricevuta in mala fede, con la conseguenza che in entrambi i casi l’alienante è obbligato a restituire non il corrispettivo dell’alienazione – come nell’ipotesi di alienazione di cose, ricevute in buona fede, effettuata prima di conoscere l’obbligo di restituzione – bensì il valore del bene alienato”.
Sostiene che, in base alla stessa, gli eredi Ch., avendo alienato i beni ereditari nella consapevolezza della possibile esistenza di un’altra coerede, quella Ca.Em. che li aveva già convenuti in giudizio per vedere giudizialmente accertata la paternità naturale del de cuius nei suoi confronti, avrebbero dovuto essere equiparati agli acquirenti del possesso dei beni ereditari in malafede e condannati, quindi, a restituirle il valore di detti beni e non solo il corrispettivo percepito, essendovi peraltro ampia giurisprudenza di legittimità (citata a pagina 21 del ricorso) che escludeva la buona fede del possessore in caso di dubbio dello stesso circa la possibile appartenenza del bene ad un terzo.
Ciò illustrato, rileva il collegio che il richiamo alla violazione dell’art. 360 comma primo n. 5) c.p.c. è inammissibile, in quanto non risultano individuati puntualmente gli atti difensivi in cui la ricorrente avrebbe dedotto fatti storici precisi e decisivi che non sarebbero stati considerati dall’impugnata sentenza, che del resto ha ritenuto decisivo che l’accertamento con efficacia di giudicato dello status di figlia naturale riconosciuta del de cuius di Ca.Em., costituente il necessario presupposto dell’azione di petizione ereditaria, si sia avuto solo col passaggio in giudicato della sentenza del Tribunale di Roma n. 4234 del 28.6.2002, che al pari dell’esercizio dell’azione di petizione ereditaria del 7.2.2005 è stato successivo all’apertura della successione di Ch.Ar. del (omissis), ed ha quindi fatto riferimento alla presunzione di buona fede del possesso esistente in capo ai convenuti eredi apparenti al momento dell’anteriore data dell’apertura della successione di Ch.Ar. (omissis) in base all’art. 1147, comma 3°, cod. civ., correttamente individuando però l’oggetto della dovuta restituzione nel corrispettivo anziché nel valore dei beni ereditari venduti dopo l’inizio del giudizio di accertamento della paternità naturale secondo la previsione dell’art. 535, comma 2°, cod. civ., ma prima dell’esercizio dell’azione di petizione ereditaria della Ca.Em.
Quanto alle violazioni dell’art. 360, comma 1°, n. 3) c.p.c. e degli articoli 533, 535, 1147 e 2038 cod. civ., va richiamato quanto già esposto in relazione al primo motivo, aggiungendo che la richiamata e risalente sentenza n. 3281/1981 di questa Corte non faceva riferimento ad un’ipotesi di esercizio di azione di petizione ereditaria nei confronti dell’erede apparente possessore dei beni ereditari governato dall’art. 535 cod. civ., ma ad un’ipotesi di alienazione di cosa ricevuta indebitamente ex art. 2038 cod. civ., in cui peraltro l’alienante aveva acquisito conoscenza dell’obbligo di restituzione del bene già prima dell’alienazione.
Diversamente, nella fattispecie che viene qui in rilievo, l’accertamento con efficacia di giudicato dello status di figlia naturale riconosciuta di Ca.Em. e della sua conseguente legittimazione all’esercizio della petizione ereditaria è sopravvenuto e non anteriore alle alienazioni a terzi dei beni ereditari, per cui gli eredi apparenti sono stati riconosciuti tenuti alla restituzione del solo prezzo ricevuto per la vendita dei beni ereditari ex art. 535, comma 2°, cod. civ. con la rivalutazione monetaria e gli interessi compensativi fatti decorrere dalla notifica dell’azione di petizione ereditaria.
Inammissibile è, poi, la doglianza relativa alla violazione dell’art. 2697 cod. civ.
Tale violazione, infatti, censurabile per cassazione ai sensi dell’art. 360 comma primo n. 3) c.p.c., è configurabile soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne era onerata secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni e non, invece, laddove, come nel caso di specie, oggetto di censura sia la valutazione che il giudice abbia svolto delle prove proposte dalle parti (vedi ex multis, Cass. ord. 7.10.2021 n. 27225; Cass. 20.4.2020, n. 7919; Cass. 29.5.2018, n.13395; Cass. 13.2.2018, n. 3450; Cass. 17.6.2013, n. 15107), non potendosi richiedere alla Corte di legittimità una nuova ricostruzione in punto di fatto della fattispecie, riservata ai giudici di merito.
4) Col terzo motivo, la ricorrente lamenta – in relazione all’art. 360, comma 1°, n. 3), 4) e 5) c.p.c., la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2697 cod. civ., nonché degli articoli 115 e 116 c.p.c., per violazione del principio dell’onere della prova ed errata valutazione del valore probatorio della dichiarazione di successione non contestata, in relazione ad un deposito bancario.
Lamenta, in particolare, la ricorrente che la Corte d’Appello di Roma abbia ritenuto non provata l’esistenza, alla morte di Ch.Ar. (omissis), del conto corrente bancario n. (omissis) al medesimo asseritamente intestato presso la Banca di Roma, agenzia (omissis), sul quale secondo la denuncia di successione presentata dagli altri eredi del predetto risultava il deposito della somma di Lire 68.233.855, maggiorata, in base a quanto comunicato da tale banca, di Lire 6.500.000 al netto delle ritenute fiscali, per complessive Lire 74.733.855, con l’argomentazione che la dichiarazione di successione da sola non era considerata neppure come idonea prova dell’accettazione tacita dell’eredità (Cass. n. 10796/2009) e che il Tribunale di Roma considerava la produzione dei certificati storici catastali e della documentazione concernente le iscrizioni e trascrizioni nel ventennio anteriore all’apertura della successione (o di relazione notarile sostitutiva) come condizione di procedibilità del giudizio di divisione ereditaria, indispensabile per accertare la sussistenza del diritto dominicale in capo alle parti del giudizio e l’esistenza di altri eventuali litisconsorti necessari. Aggiunge la ricorrente che la sentenza n. 868 del 16.1.2017 della Corte di cassazione ha riconosciuto che la dichiarazione di successione, pur non comportando ex se l’accettazione tacita dell’eredità in quanto atto preordinato essenzialmente a finalità fiscali, ha comunque valore indiziario, da valutare in rapporto agli altri documenti prodotti (certificato di morte e di stato di famiglia) dovendosi tener conto anche della mancata contestazione ad opera delle controparti.
Deduce, ulteriormente, la ricorrente che la sentenza n. 25349 del 2.12.2009 della Corte di cassazione ha annullato la sentenza della Corte d’Appello di Roma impugnata in quel caso per non avere attribuito alcun valore probatorio, neppure di carattere indiziario, ad una denuncia di successione non contestata dai convenuti, che ben poteva provare l’esistenza di beni ulteriori rispetto agli immobili.
La ricorrente evidenzia, infine, l’inconferenza del richiamo alla prassi interpretativa del Tribunale di Roma circa la documentazione richiesta ai fini della procedibilità della domanda di divisione giudiziale dei beni immobili, in un’ipotesi in cui si trattava di un deposito bancario di denaro, e sottolinea come la petitio hereditatis, a differenza dell’azione di rivendicazione, essendo fondata sull’allegazione dello stato di erede, presuppone solo la prova di esso e dell’esistenza dei beni nell’asse ereditario al momento dell’apertura della successione e non invece la prova della proprietà dei beni attraverso una serie di regolari passaggi durante il tempo necessario alla maturazione dell’usucapione (Cass. 30.8.2012 n.14732; Cass. 16.1.2009 n. 1074; Cass. 22.7.2004 n.13785; Cass. 15.3.2004 n. 5252; Cass. 2.8.2001 n. 10557).
Osserva il collegio che occorre premettere che – in relazione all’art. 360, comma 1°, n. 5), c.p.c. – non è stato individuato il fatto storico decisivo oggetto di discussione tra le parti che non sarebbe stato considerato, mentre in relazione all’art. 360 comma 1°, n. 4) c.p.c. ed alle violazioni degli articoli 115 e 116 c.p.c. valgono le considerazioni già svolte alla precedente pagina 7 di questa sentenza, da intendersi qui richiamate.
Il terzo motivo è, inoltre, inammissibile anche per la parte in cui si lamenta la violazione dell’art. 2697 cod. civ., in quanto in realtà non ci si duole del fatto che la Corte d’Appello di Roma abbia erroneamente individuato il soggetto gravato dall’onere di provare che nel patrimonio del defunto Ch.Ar. fosse ricompreso il conto corrente bancario n. (omissis) al medesimo intestato presso la Banca di Roma, agenzia (omissis), onere che senza indiscutibilmente gravava sulla Ca.Em., che aveva esercitato l’azione di petizione ereditaria anche al fine di vedere ricompresi non meglio precisati depositi bancari nel patrimonio del de cuius Ch.Ar. all’apertura della successione (omissis) per ottenere la restituzione del loro valore, ma del fatto che la Corte d’Appello di Roma abbia ritenuto non assolto tale onere probatorio da parte di Ca.Em.
L’impugnata sentenza ha, infatti, reputato a tal fine insufficiente, in difetto di altra documentazione, la menzione del suddetto conto, peraltro non incluso tra i beni ereditari individuati dal CTU nominato, nella denuncia di successione presentata dal solo Ch.Cl. (e non da tutti i coeredi della Ca.Em.), della quale il giudice di primo grado aveva evidenziato la valenza meramente fiscale.
Il giudice di secondo grado ha negato valore probatorio con l’argomento che – secondo la giurisprudenza di legittimità (Cass. n. 10796/2009, e nello stesso senso vedi anche la sentenza n. 868 del 16.1.2017 richiamata nel ricorso) la dichiarazione di successione al più poteva costituire elemento indiziario, che solo insieme ad altri elementi probatori poteva valere per dimostrare l’intervenuta accettazione tacita dell’eredità, aggiungendo poi la considerazione che il Tribunale di Roma assumeva necessaria, perfino ai fini della procedibilità del giudizio di divisione, la produzione (evidentemente in relazione ai beni immobili) dei certificati storici catastali e della documentazione concernente le iscrizioni e trascrizioni nel ventennio anteriore, o della relazione notarile sostitutiva, e non di una semplice denuncia di successione, ritenendo evidentemente quest’ultima insufficiente per dimostrare la sussistenza dei diritti dominicali del de cuius.
La ricorrente non può, poi, sollecitare la Corte di legittimità a sostituirsi al giudice di merito nell’effettuare una diversa valutazione del materiale probatorio fornito ai fini dell’inclusione del summenzionato conto corrente bancario di Ch.Ar. nel patrimonio ereditario, tanto più che neppure sono stati forniti elementi sufficienti, attraverso il richiamo a specifici atti processuali delle parti nel giudizio di primo grado, al fine di dimostrare che l’esistenza del suddetto conto corrente e della somma di denaro su esso depositata indicata in ricorso non fosse stata contestata dagli altri coeredi, che la dichiarazione di successione, proveniente peraltro da un solo coerede e volta ad una mera finalità fiscale, non era certo indirizzata alla Ca.Em. e non poteva avere valore di confessione stragiudiziale e quindi di prova legale, e che non sono stati neppure indicati gli ulteriori elementi indiziari che avrebbero dovuto dimostrare, insieme alla dichiarazione di successione, l’inclusione tra i beni del de cuius del conto corrente in questione all’apertura della successione.
Quanto all’invocata sentenza n. 25349 del 2.12.2009 della Corte di cassazione, essa ha cassato con rinvio la sentenza di appello che non aveva attribuito alcun valore, neppure indiziario, alla dichiarazione di successione prodotta in ordine all’esistenza nel patrimonio ereditario di alcuni beni mobili in essa riportati, sia in quanto, in quel caso, la dichiarazione di successione risultava sottoscritta da tutti i coeredi, mentre nel caso specifico è stata sottoscritta solo da Ch.Cl., sia in quanto, in quel caso, risultavano prodotti altri documenti (un verbale di inventario e la lettera di un legale delle parti, che facevano riferimento ai beni mobili riportati anche nella dichiarazione di successione) aventi un’ulteriore valenza indiziaria, e non c’era stata contestazione sull’inclusione dei beni mobili nel compendio ereditario. Diversamente, nel caso qui in esame, non risulta allegata la produzione di documenti bancari, o di altro genere, diversi dalla dichiarazione di successione, a riprova dell’esistenza e consistenza del conto corrente bancario all’apertura della successione, e non sono stati offerti riferimenti specifici agli atti processuali del giudizio di primo grado di tutte le parti per dimostrare che l’inclusione e la consistenza del conto corrente bancario di Ch.Ar. alla data del (omissis) fosse stata tempestivamente allegata e non fosse stata fatta oggetto di specifica contestazione, uscendo cosi dal thema probandum, essendo stato anzi escluso il conto corrente bancario dal patrimonio ereditario ricostruito dal CTU.
La petitio hereditatis, prevista dall’art. 533 cod. civ., ha natura di azione reale, volta a conseguire il rilascio di beni ereditari da colui che li possegga vantando un titolo successorio che non compete (possessor pro herede) ovvero senza alcun titolo (possessor pro possessore). Essa presuppone l’accertamento della qualità di erede dell’attore o di diritti che a lui spettano jure haereditario (Cass. n. 15217/2022; Cass. n. 7871/2021; Cass. n. 5252/2004).
È vero che, nonostante l’affinità del petitum, la petitio hereditatis si differenzia dalla rei vindicatio, come sostenuto nel ricorso, in quanto si fonda sull’allegazione dello stato di erede, ed è diretta a conseguire non il riconoscimento di un singolo diritto su una cosa determinata, ma il riconoscimento dell’universum jus defunti nell’erede, nel quale è compreso il diritto anche su una o più cose (Cass. n. 15217/2022, cit., e Cass. n.2114/1967), ed è vero che tale differenza permane anche quando abbia per oggetto beni determinati che si assumono appartenenti all’eredità, perché si fonda pur sempre sull’allegazione di uno status, l’universum jus ereditario, ed ha per oggetto beni che vengono riguardati come elementi costitutivi dello universum jus, ma ciò non toglie che l’attore debba fornire la prova dell’appartenenza del bene ereditario al de cuius al momento dell’apertura della successione, anche se non la cosiddetta probatio diabolica propria della rivendica, e la prova dell’appartenenza e consistenza del conto corrente bancario in questione di Ch.Ar. alla data della sua morte non è stata considerata raggiunta.
5) In definitiva, alla stregua delle argomentazioni complessivamente svolte, il ricorso va integralmente respinto. Le spese del presente giudizio, liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza e vanno interamente poste a carico di Ca.Em. ed in favore dei controricorrenti Ca.Ca., Ca.St. e Ch.Ma. (tenuto conto del valore della causa e delle distinte attività difensive esercitate, specificamente della circostanza che i soli difensori di Ca.St. e Ca.Ca. hanno depositato anche la memoria ex art. 380-bis.1. c.p.c.), mentre nulla va disposto per le spese per quanto riguarda l’intimato Ch.Cl.
Occorre dare atto che sussistono i presupposti processuali di cui all’art. 13 comma 1-quater D.P.R. n. 115/2002 per imporre un ulteriore contributo unificato a carico della ricorrente, se dovuto.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso di Ca.Em. e la condanna al pagamento delle spese processuali del giudizio di legittimità, che liquida, a favore dei controricorrenti Ca.Ca. e Ca.St., in Euro 200,00 ciascuno per spese ed Euro 8.700,00 ciascuno per compensi, oltre IVA, CPA e rimborso spese generali del 15%, ed a favore di Ch.Ma. in Euro 200,00 per spese vive ed Euro 7.700,00 per compensi, oltre IVA, CPA e rimborso spese generali del 15%.
Visto l’art. 13 comma 1-quater D.P.R. n. 115/2002 dà atto che sussistono i presupposti per imporre un ulteriore contributo unificato a carico della ricorrente, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Seconda Sezione civile della Corte di cassazione, in data 27 febbraio 2024.
