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Cassazione penale sez. VI, 30/10/2018, n.12198

Massima

La coltivazione non autorizzata di piante dalle quali siano estraibili sostanze stupefacenti è penalmente rilevante, anche se realizzata per l’uso personale del prodotto, quando è accertata l’effettiva capacità della sostanza, ricavata o ricavabile, di produrre un effetto drogante con concreto pericolo di aumento di disponibilità dello stupefacente e di sua ulteriore diffusione.

Supporto alla lettura

Definizione: Nel nostro ordinamento giuridico, la detenzione di sostanze stupefacenti è sanzionata dal DPR n. 309/1990, ed in particolare dall’articolo 73, per il caso di detenzione ai fini di spaccio e dall’art.75, per il caso di detenzione al fine di utilizzo personale.
All’interno della fattispecie ex art 73 dpr 309 del 90 che punisce il reato di spaccio di droga pena è ridotta in due casi: quando si tratta di droghe leggere e, nel caso dell’art 73 comma 5, quando è ravvisabile il fatto di lieve entità, comunemente conosciuto come “piccolo spaccio”.
La premessa da fare, pertanto, è che in Italia il possesso di sostanze stupefacenti, anche di quantità minime, a prescindere dall’uso personale di droga o meno, non è consentito dalla legge, quindi comunque si va incontro a sanzioni, nei casi più gravi, di natura penale, nei casi meno gravi, di natura amministrativa. La detenzione di sostanza stupefacente per uso personale non è reato, ma un illecito amministrativo. Ciononostante le conseguenze per colui il quale sia trovato in possesso di droga non sono da poco: sarà compromessa la patente di guida (saranno obbligatori esami tossicologici per valutare la persistenza della idoneità alla guida), il porto d’armi, il permesso di soggiorno, il passaporto e la carta di identità per l’espatrio.

Ambito oggettivo di applicazione

RITENUTO IN FATTO

  1. Con sentenza n. 4507/2017 la Corte di appello di Firenze, parzialmente riformando la decisione del Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Pisa, ha riconosciuto P.F. responsabile del reato D.P.R. n. 9 ottobre 1990, n. 309, ex art. 73, comma 5, capo A – per avere coltivato 10 piante di marjuana in 6 secchi (dentro uno sgabuzzino nella sua abitazione), illuminandole con una lampada) e detenuto gr. 40 di foglie di marjuana stese per terra a essiccare – e, concedendo le circostanze attenuanti generiche equivalenti alla recidiva, ha rideterminato la pena, mentre ha dichiarato non doversi procedere per il reato ex art. 697 c.p. (capo B), perchè estinto per prescrizione.
  2. Nel ricorso presentato dal difensore di P. si chiede l’annullamento della sentenza deducendo: a) vizio della motivazione e inosservanza e erronea applicazione del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5, per avere trascurato di valutare se la concreta condotta di coltivazione ha leso il bene giuridico tutelato dalla norma incriminatrice, considerando, peraltro, che il perito che ha esaminato le piante ha ritenuto “praticamente pari al limite” il quantitativo di principio attivo rinvenuto nei reperti utilizzati e che, le foglie di marijuana sono state rinvenute in parte su una sedia e in parte a terra, a conferma della loro destinazione a uso personale; b) vizio della motivazione e violazione dell’art. 99 c.p. per avere fondato il riconoscimento della recidiva solo sui precedenti penali dell’imputato relativi a reati di indole differente rispetto a quelli per i quali si procede; c) omessa motivazione del rigetto del motivo di appello sulla non applicazione delle circostanze attenuanti generiche nella massima estensione; d) vizio della motivazione e violazione dell’art. 133 c.p., nel determinare una pena superiore al minimo edittale.

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

  1. Il ricorso è manifestamente infondato.

1.1. Relativamente al primo motivo, va ribadito che la coltivazione non autorizzata di piante dalle quali siano estraibili sostanze stupefacenti è penalmente rilevante, anche se realizzata per l’uso personale del prodotto, quando è accertata l’effettiva capacità della sostanza, ricavata o ricavabile, di produrre un effetto drogante con concreto pericolo di aumento di disponibilità dello stupefacente e di sua ulteriore diffusione (Sez. U, n. 28605 del 24/04/2008, Rv. 239920; Sez. 4, n. 17167 del 27/01/2017, Rv. 269539; Sez. 6, n. 8058 del 17/02/2016, Rv. 266168). La punibilità per la coltivazione va esclusa solo se il giudice ne accerta la concreta inoffensività, che si ha se risulta sostanzialmente irrilevante l’aumento di disponibilità della droga e non prospettabile alcun pericolo di sua ulteriore diffusione (Sez. 3, n. 36037 del 22/02/2017 – dep. 21/07/2017, Rv. 27180501; Sez. 4, n. 3787 del 19/01/2016, Rv. 265740; Sez. 6, n. 5254 del 10/11/2015, dep. 2016, Rv. 265641). Nel caso in esame, come precisato nella sentenza impugnata, l’imputato aveva allestito quanto necessario per sviluppare una coltivazione non episodica di marijuana destinata alla vendita (considerando che egli non fa uso di droga nè svolge un lavoro) al pari delle foglie di marijuana illecitamente detenute.

1.2. Relativamente al secondo motivo di ricorso, va rilevato che la Corte di appello ha riconosciuto le circostanze attenuanti generiche equivalenti alla recidiva adeguatamente evidenziando la “più accentuata pericolosità” dell’imputato connessa ai reati per i quali si procede.

1.3. Relativamente al terzo motivo di ricorso, la mancanza di motivazione del rigetto del motivo di appello sulla non applicazione delle circostanze attenuanti generiche nella massima estensione è del tutto coerente con il loro riconoscimento come non più che equivalenti alla recidiva reiterata, nel limite di quanto consentito dall’art. 69 c.p., comma 4.

1.4. Relativamente al quarto motivo di ricorso, deve osservarsi che la determinazione della pena-base nella misura di 9 mesi di reclusione per il capo A risulta (nell’arco che va dai sei mesi ai quattro anni) prossima al minimo edittale – tanto più se si considera la rilevanza della continuazione interna per la detenzione di foglie di marijuana – e, pertanto, adeguatamente motivata con la valutazione che P. aveva avviato una attività di “coltivazione non proprio minimale”.

  1. Dalla inammissibilità del ricorso deriva ex art. 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonchè al pagamento a favore della Cassa delle Ammende della somma che risulta congruo determinare in Euro 2000.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro duemila in favore della Cassa delle Ammende.

Così deciso in Roma, il 30 ottobre 2018.

 

Allegati

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