RAGIONI IN FATTO E IN DIRITTO DELLA DECISIONE
Con decreto pronunciato all’esito dell’udienza preliminare del 25.2.2016, il G.U.P. disponeva il giudizio, nei confronti di Ca.Lu., per i reati in rubrica trascritti.
All’udienza del 12.4.2016, dichiarata l’assenza di Ca.Lu., il processo veniva rinviato per la mancata comparizione dei testi.
All’udienza del 17.1.2017, presente l’imputato, il giudice, in mancanza di questioni preliminari, dichiarava aperto il dibattimento e dava la parola alle parti per le richieste istruttorie.
Il P.M. chiedeva l’esame dei testi di lista, l’esame dell’imputato e produceva referti medici e documentazione fotografica; la parte civile chiedeva l’esame dei propri testi di lista e l’esame dei testi del P.M., con riserva di produrre documentazione; la difesa chiedeva il controesame dei testi del P.M. e della parte civile e l’esame dell’imputato.
Ammesse tutte le prove richieste, si procedeva all’esame dei testi Io.Ro., Ci.Ma. e Ca.Lu..
All’udienza del 12.9.2017, presente l’imputato, esaminati i testi Gi.La. e Ci.Ca., acquisito il certificato medico redatto l’8.3.2013 da Ci.Ca., il giudice, rigettata la richiesta della difesa di ammissione ex art. 507 c.p.p. del teste Ca. Emilia, rinviava per l’esame dell’imputato e la discussione.
Alle udienze del 22.5.2018 e del 23.10.2018, assente l’imputato, il processo veniva rinviato dal G.O.T. perché avente ad oggetto reati non compresi nelle attribuzioni della magistratura onoraria.
All’udienza del 29.1.2019, assente l’imputato, questo giudice, nelle more subentrato al precedente, disponeva la rinnovazione del dibattimento; il P.M. e la parte civile si riportavano alle istanze istruttorie già avanzate; la difesa, oltre al controesame dei testi del P.M. e della parte civile, chiedeva l’esame a prova contraria di Ca.Vi., abitante sullo stesso pianerottolo della coppia Ca./Io. e più volte indicata sia dalla teste Gi.La. che da Io.Ro., in relazione ai fatti occorsi a Napoli.
Il giudice, sentite le parti, ammetteva, come da ordinanza resa a verbale, tutte le prove richieste e, non avendo la difesa dell’imputato prestato il consenso all’utilizzazione delle prove testimoniali già assunte, dichiarava comunque utilizzabili le dichiarazioni rese dalla persona offesa ex art. 190 bis c.p.p. e rinviava per risentire i testi Ci.Ma., Ca.Lu., Gi.La., Ci.Ca., nonché per escutere a prova contraria Ca.Vi..
All’udienza del 10.7.2019, presente l’imputato, escussi i testi Ci.Ma., Ca.Lu., Ci.Ca., Gi.La. e Ca.Vi., esaminato l’imputato, si fissava per la discussione l’udienza del 26.11.2019.
All’udienza indicata, presente l’imputato, acquisita la documentazione depositata dalla difesa, il giudice dichiarava chiusa l’istruttoria dibattimentale e utilizzabili tutti gli atti acquisiti nel dibattimento; quindi, le parti formulavano ed illustravano le rispettive conclusioni, come da epigrafe.
Esaurita la discussione, il giudice, all’esito della camera di consiglio, dava lettura del dispositivo, riservata la motivazione nel termine ordinario di giorni quindici.
Motivi della decisione
Le prove acquisite nel dibattimento impongono l’affermazione, al di là di ogni ragionevole dubbio, della penale responsabilità dell’imputato per tutti i reati a lui ascritti, assorbiti nel capo a) i reati contestati ai capi b), d), g), h), i) della rubrica ed esclusa l’aggravante di cui all’art. 576, co. 1, n. 1) c.p. contestata ai capi c), e) (rettificata in 14.7.2015 la data del commesso reato), f), 1).
1. Le dichiarazioni rese dalla persona offesa.
Io.Ro., esaminata all’udienza del 17.1.2017, ha dichiarato che Ca.Lu., con cui è sposata dal 29.9.1982, l’ha sempre (fin dal viaggio di nozze) disprezzata, umiliata e mortificata, ponendo in essere le seguenti condotte:
- non la chiamava mai per nome, ma solo “grassona schifosa”, “munnezza” o “troia”;
- le diceva di non essere buona nemmeno a cucinare e le impediva di telefonare alle sue amiche;
- la denigrava (“Ti schifano tutti quanti, nel palazzo ed in campagna”);
- le diceva che doveva solo servirlo (“tu stai davanti a me solo perché mi devi servire”);
- la minacciava di morte (dicendo che doveva toglierla di mezzo) e la colpevolizzava per la malattia della figlia Cl., nata nel 1983, cerebrolesa;
- le impediva di uscire con la figlia per il quartiere di residenza (Napoli – Cavalleggeri);
- le impediva di accendere la stufa e la televisione, ovvero di usare la lavatrice (doveva fare il bucato a mano);
- ha sempre manifestato disinteresse o disprezzo per lei e la figlia;
- spesso si assentava e, in una occasione, ha lasciato lei e la figlia per 11 giorni da sole “senza pane e latte”.
Dopo la morte dei suoi genitori, avvenuta nel 2008, il Ca. ha incominciato a metterle le mani addosso, distruggendola anche fisicamente, oltre che moralmente (“c’è stato l’inferno per me”).
La Io. precisava di essere stata aggredita dal Ca. numerose volte, anche davanti alla figlia, sia a Napoli, dove abitavano, sia in campagna, a Sant’Agata dei Goti, dove avevano un appartamento in una casa colonica abitata anche dai cugini e dai genitori dell’imputato e dove è stata soccorsa dai parenti di quest’ultimo (“mi ha lasciata nel sangue diverse volte a terra, soprattutto nell’ultimo episodio risalente al 24 luglio… del 2015”); in occasione delle aggressioni subite in campagna, si è recata in ospedale per farsi refertare.
Premesso che fatti analoghi sono avvenuti anche nel 2011 e nel 2013, la Io. descriveva i seguenti episodi:
- il 29.12.2014 il Ca., a Napoli, l’ha “massacrata di botte” (“sembrava un demone, non aveva più sembianze umane, senza che gli avessi fatto del male”);
- il 4.4.2015, sempre a Napoli, il Ca. le chiuse la spalla nella porta blindata; una vicina di casa, a nome Gi., voleva chiamare i Carabinieri, ma poi non si intromise perché intervenne la sorella dell’imputato, Ca.Vi., che abita sullo stesso pianerottolo Sporta a porta”);
- il 31.5.2015, in Sant’Agata, verso le ore 17.30, mentre lei era sul balconcino con la figlia, il Ca. iniziò a minacciarla, dicendo “Zuzzò zuzzò, t’aggìa sfunnà o cranio”; alle sue rimostranze verbali, l’imputato, sollevandola per le gambe, la spinse con la schiena contro la balaustra (non si recò in ospedale, ma produceva le foto che le hanno fatto); nell’occasione intervenne Ci.Ma., moglie del cugino omonimo dell’imputato, che intimò a Ca.Lu. di toglierle le mani di dosso, altrimenti avrebbe chiamato i Carabinieri; si recò in ospedale solo sette giorni dopo, vale a dire il 7.6.2015, perché, siccome l’imputato continuava a minacciarla, svenne (ha problemi di pressione); quando si spogliò, avendo i medici visto le ecchimosi, si confidò con una dottoressa, che la invitò a sporgere denuncia; nell’occasione, telefonò anche ai Carabinieri di Sant’Agata che però non intervennero;
- nel luglio del 2015, sempre a Sant’Agata, in seguito ad un litigio dovuto alla scoperta sotto al divano della camera della figlia di compresse di viagra, il Ca., alla sua richiesta di spiegazioni, le buttò addosso le sedie della camera da pranzo e poi la colpì con una torcia sugli zigomi (siccome stava passando la processione nessuno la sentì);
- sempre nel luglio del 2015, a Sant’Agata, il Ca. la minacciò di morte con un machete (“dove ha le sue piante di ulivo… E mi disse che mi avrebbe bruciata viva e che mi avrebbe sotterrato lì, che là non mi avrebbe trovato nessuno. Me ne scappai subito sopra”);
- il 24.7.2015, sempre a Sant’Agata, l’imputato la picchiò solo perché lei, contro il suo parere, voleva uscire di casa; dopo averla afferrata per i capelli e averle messo le mani alla gola, la buttò a terra per poi colpirla con un ombrello di legno alla testa (“mi prese per i capelli… Mi tirò, tra la porta della camera da letto ed il bagno… mi mise le mani alla gola vicino al bagno… con la bambina sul letto che guardava. Poi mi tirò a terra in cucina per i capelli… Ma le botte che ho avuto… dalle foto si vede, io gli imploravo: “Lu., Lu., mi fai male” perché la testa zampillava sangue. Allora per proteggermi misi il gomito così, ma lui più gli imploravo pietà e più mi bastonava e poi mi rideva in faccia”); dopo l’aggressione (erano le ore 16.30), il Ca. andò via e ritornò solo alle ore 22.00; nel frattempo lei si recò in ospedale; i Carabinieri, nonostante la sua richiesta, non intervennero;
- il 15.11.2015 l’imputato, a Napoli, la picchiò provocandole le lesioni di cui al referto medico in atti;
- il 30.11.2015, all’atto dell’esecuzione della misura cautelare dell’allontanamento dalla casa familiare, l’imputato “ha promesso … di togliermi di mezzo, perché sono di ostacolo alla sua vita”.
La Io. precisava, altresì, che, dall’esecuzione della misura cautelare, finalmente può uscire di casa con la figlia; che ha sopportato per 30 anni senza mai denunciare perché il Ca. la ricattava, dicendole che, se si fosse rivolta alle forze dell’ordine, le avrebbe portato via la figlia, con l’aiuto della sorella Vi., “che conosce un Giudice tutelare”, ovvero paventando una sua incapacità; che non si è mai confidata con le cognate Vi. ed Em. e con i suoceri, peraltro deceduti prima dell’inizio delle violenze fisiche, ma solo con alcune amiche; che la sorella dell’imputato, Ca.Vi., abitante sullo stesso piano (“porta a porta”), ha talvolta assistito alle offese e alle minacce e certamente, dal suo appartamento, ha avuto modo di sentire il fratello mentre la picchiava, anche se non è mai intervenuta; che non ci sono mai stati veri e propri litigi tra lei ed il marito perché lei si limitava solo a subire e a gridare.
2. La credibilità delle dichiarazioni rese dalla persona offesa.
Preliminarmente si rileva che, nonostante il mutamento della persona fisica del giudice, si è ritenuta, ai sensi dell’art. 190 bis, co. 2, c.p.p., in assenza di specifiche esigenze istruttorie (non prospettate dalla difesa dell’imputato che aveva chiesto la rinnovazione dell’esame), l’utilizzabilità delle dichiarazioni rese da Io.Ro. perché persona offesa in condizione di particolare vulnerabilità, condizione ampiamente desumibile dalla notevole durata temporale delle condotte vessatorie e violente denunciate, dalla loro provenienza dal marito, dalla loro intensità e dalla particolare condizione in cui versava la vittima (madre di una figlia cerebrolesa e bisognosa di assistenza continua, economicamente dipendente dal marito).
Va poi rilevato che le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, sentenza n. 41736/2019, pronunciata dopo l’ordinanza di rinnovazione del presente dibattimento, hanno affermato il principio che la richiesta di rinnovazione delle prove assunte dal giudice diversamente composto deve contemplare la specifica indicazione delle ragioni che impongano siffatta rinnovazione, pena la manifesta superfluità della stessa.
Tanto premesso, le dichiarazioni rese da Io.Ro. – oltre ad essere intrinsecamente attendibili per genesi, precisione, costanza e coerenza – sono estrinsecamente riscontrate dalle dichiarazioni rese dagli altri testi escussi e dalla documentazione fotografica e sanitaria acquisita.
Il regime di valutazione della deposizione resa dalla persona offesa costituitasi parte civile è ormai cristallizzato dalla consolidata giurisprudenza della Corte Costituzionale e della Corte di Cassazione.
All’esito di un approfondito percorso ermeneutico che ha coinvolto anche il giudice delle leggi, si è affermato che “le dichiarazioni della persona offesa costituita parte civile possono essere poste, anche da sole, a fondamento dell’affermazione di responsabilità penale dell’imputato, previa verifica, più penetrante e rigorosa rispetto a quella richiesta per la valutazione delle dichiarazioni di altri testimoni, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell’attendibilità intrinseca del suo racconto e, qualora risulti opportuna l’acquisizione di riscontri estrinseci, questi possono consistere in qualsiasi elemento idoneo a escludere l’intento calunniatorio del dichiarante, non dovendo risolversi in autonome prove del fatto, né assistere ogni segmento della narrazione” (cfr. Cass. Sez. V, 26/3/2019 – 15/5/2019, n. 21135, nonché Cass. Sezioni Unite, 19/7/2012-24/10/2012, n. 41461 e Cass. Sez. II, 27/10/2015-20/11/2015, n. 46100).
Pertanto, quando la persona offesa rappresenta il principale (se non il solo) testimone che abbia avuto la percezione diretta del fatto da provare e sia, quindi, sostanzialmente l’unico soggetto processuale in grado di introdurre tale elemento valutativo nel processo, affinché la sua deposizione possa essere posta a fondamento del giudizio di colpevolezza dell’imputato, occorre sottoporla ad una puntuale analisi critica, mediante la comparazione con il rimanente materiale probatorio acquisito (laddove ciò sia possibile), utilizzabile per corroborare la sua dichiarazione, ovvero attraverso un esame attento e penetrante della testimonianza, condotto con rigore e spirito critico, che investa l’attendibilità della dichiarazione e la credibilità soggettiva di chi l’abbia resa e che, tuttavia, non sia improntato da preconcetta sfiducia nei confronti del teste.
In applicazione dell’enunciato canone di valutazione, ritiene il giudicante che Io.Ro. sia assolutamente credibile e che le sue dichiarazioni, attendibili e confortate in molteplici segmenti della narrazione anche da plurimi elementi estrinseci, siano idonee a fondare un giudizio di certezza in ordine alla penale responsabilità di Ca.Lu. in ordine a tutti i reati a lui ascritti.
E’ stato possibile, in primo luogo, apprezzare la credibilità soggettiva della deposizione della persona offesa.
Io.Ro., visibilmente commossa nel corso dell’esame, ha ricostruito la sua trentennale relazione coniugale con l’imputato senza mai far emergere sentimenti di astioso rancore, ma solo di profonda delusione.
L’approccio della Io. alla dialettica dibattimentale è apparso, nonostante la drammaticità dei fatti denunciati, assolutamente equilibrato.
L’esigenza, chiaramente manifestata dalla Io., di salvaguardare, nell’interesse della figlia Cl. celebrolesa, l’unità familiare dà contezza delle ragioni per le quali ha sopportato così a lungo le sofferenze prima esclusivamente morali e, dal 2008, anche fisiche che le venivano inflitte senza denunziare il coniuge e senza attivare la procedura di separazione.
Tale forma di resistenza, secondo un dato di comune esperienza, è molto diffusa, vuoi per pudore e per la conseguente volontà di non esternare le disavventure familiari, vuoi perché la scelta di interrompere la convivenza coniugale e di attivare una procedura di separazione, soprattutto se in presenza di figli minori o disabili, appare spesso un evento talmente drammatico da far apparire le violenze e le prevaricazioni come il male minore.
Nella fattispecie in esame, è chiaramente emerso che tale resistenza della Io. era dovuta anche alla paura delle conseguenze che una eventuale denuncia nei confronti del marito avrebbe potuto determinare.
La Io. – che ha sempre cercato di nascondere le violenze subite, confidandole solo a poche persone – si è decisa a ricorrere agli organi della persecuzione penale solo quando ha acquisito, a causa dell’intensificazione delle aggressioni fisiche e delle privazioni da parte del marito, la consapevolezza dell’insostenibilità della situazione.
Sul piano dell’attendibilità intrinseca, le dichiarazioni della persona offesa sono precise e circostanziate: i fatti narrati sono collocati in un ben preciso contesto spazio-temporale, appaiono pienamente rispondenti a criteri logici e non si ravvisano contraddizioni di fondo nella narrazione.
2.1.1 riscontri estrinseci acquisiti.
Le dichiarazioni della persona offesa – sia con riguardo alla reiterazione delle violenze e delle vessazioni, sia con riguardo ai più significativi episodi oggetto di autonoma contestazione – hanno poi trovato estrinseco riscontro in numerosi altri elementi di prova emersi dall’istruttoria dibattimentale, aventi anche valenza dimostrativa autonoma.
Vengono innanzitutto in rilievo le dichiarazioni rese dai testi – assolutamente estranei al contesto familiare e non aventi alcuna ragione di contrasto con l’imputato – Gi.La. e Ci.Ca..
Gi.La., vicina di casa a Napoli dei coniugi Ca./Io. fin dal 2005, ha dichiarato che Io.Ro., negli ultimi anni, nel corso di occasionali incontri avvenuti sui rispettivi balconi (adiacenti), le ha più volte mostrato i segni delle violenze fisiche subite (lividi, ecchimosi), confidandole che il responsabile era il marito, delle cui reazioni aveva timore, tanto che la Gi. consigliò alla Io. di rivolgersi ad un centro antiviolenza; la teste ha poi affermato che, finché il Ca. abitava con la moglie, non ha mai visto la Io. in strada, né da sola, né con la figlia o il marito; solo dopo l’allontanamento del Ca. dalla casa familiare, per effetto del provvedimento cautelare applicato dall’A.G., ha visto la Io. uscire di casa con la figlia; inoltre, non ha mai visto il Ca. con la figlia Cl. in strada.
Gi.La. ha poi riferito sull’episodio avvenuto il 4.4.2015, dichiarando di essere uscita dall’abitazione a seguito delle urla provenienti dal pianerottolo e di aver visto la Io. che cercava di rientrare in casa, in ciò ostacolata da un soggetto dalla voce maschile che, dall’interno, azionava la porta in modo da impedirle ciò (la Io. urlava ed era “come chiusa nella porta e quindi subiva dei colpi sul braccio e c ‘erano chiaramente delle urla maschili e femminili e… quindi c ‘era un litigio in corso”); la discussione era molto accesa e la voce maschile – che pronunciava insulti – cercava di tenere la Io. fuori, sul pianerottolo (“lei resistendo rimase con questo braccio per metà dentro e per metà fuori e veniva colpita. Poi riuscì ad entrare”); la Gi. rientrò in casa perché la sorella dell’imputato, Ca.Vi., abitante sullo stesso pianerottolo e presente al fatto, le disse che avrebbe provveduto lei a chiamare i Carabinieri (mai intervenuti).
Ci.Ca. – cardiologa di fiducia dei genitori sia del Ca. che della Io., nonché di quest’ultima – ha dichiarato che Io.Ro., dopo la morte di entrambi i genitori, le confidò di subire violenze sia verbali che fisiche da parte del marito; nel 2012 o 2013, fu chiamata dalla Io. per una ferita lacero-contusa al capo e, nonostante il suo invito, la Io. non volle, per paura, recarsi al pronto soccorso, ma le chiese (era il suo modo di difendersi) di redigere il certificato medico acquisito agli atti; nell’occasione, la Ci. non ritenne di chiamare i Carabinieri per non andare contro la volontà della Io., che “ha sempre cercato di nascondere queste cose” (“la signora è stata sempre reticente a fare una denuncia”); inoltre, le condizioni non erano critiche (la ferita, procurata con una spazzola, aveva lacerato la pelle ma non c’era perdita di sangue).
La Ci. riferiva che la Io., a causa delle vessazioni fisiche e morali subite dal marito, ha manifestato episodi di tachicardia ed extrasistole (non aveva una patologia organica, ma erano fenomeni reattivi).
L’oppressivo controllo svolto dall’imputato su Io.Ro. emergeva palese dalle dichiarazioni rese dalla tese in ordine alle prestazioni professionali espletate in favore della persona offesa.
Ci.Ca., infatti, ha affermato che la Io. non poteva allontanarsi liberamente dalla propria abitazione e, in quelle rare occasioni in cui ha avuto la necessità di visite specialistiche, doveva preventivamente chiedere il permesso al marito, che non le consentiva di uscire senza validi motivi (“non aveva la libertà delle sue scelte”); visitava la Io., per lo più, al domicilio perché, a causa della figlia, la stessa non poteva recarsi né in ospedale, né presso lo studio; Ca.Lu. non era presente alle visite, ma, nel corso di occasionali incontri, sindacò le sue scelte terapeutiche, sostenendo l’inopportunità che la moglie assumesse il farmaco prescrittole; sollecitata in merito dal Ca., riferì a quest’ultimo che, con la moglie, nel corso delle visite, parlavano solo di questioni mediche e non di problematiche familiari; per consentire alla Io. di presentare al denuncia, dovette simulare un day-hospital pomeridiano.
Il quadro probatorio fin qui emerso ha ricevuto significative conferme – sia con riguardo alla reiterazione delle violenze e delle vessazioni, sia con riguardo ai singoli episodi contestati – dalle dichiarazioni rese da Ca.Lu., cugino omonimo dell’imputato, e dalla di lui moglie, Ci.Ma..
Ca.Lu., premesso di non aver mai personalmente assistito ad alcun litigio, ha affermato che, in una occasione, mentre si trovava nella sua abitazione ubicata all’interno della masseria di Sant’Agata dei Goti dove avevano un appartamento anche i coniugi Ca./Io., a seguito di “un trambusto fuori”, vide Io.Ro., sanguinante, che stava parlando al cellulare con i Carabinieri, con cui anche lui interloquì, i quali però riferirono che non sarebbero intervenuti; siccome il sangue scorreva dal viso della Io., dato che l’ambulanza tardava ad arrivare, l’accompagnò in Ospedale; durante il tragitto, la Io. gli disse “che aveva preso delle botte in testa” dal marito; talvolta la Io., in sua presenza, ha confidato alla moglie Ci.Ma. le violenze subite dal marito, facendole vedere dei lividi che aveva vicino alle braccia; qualche volta la Io. ha mostrato anche a lui i lividi vicino alla gamba, dicendo che si trattava di calci subiti nel corso delle discussioni avute con il marito; a Sant’Agata, non ha mai visto l’imputato occuparsi della figlia (si limitava a portare la spesa a casa); ha visto, a Sant’Agata, la Io. e la figlia qualche volta uscire di casa; quando ha incontrato i coniugi Ca./Io. a Napoli, sembravano una famiglia normale.
Ci.Ma. ha dichiarato che a maggio, mentre stava nel cortile della masseria di Sant’Agata, sentì Io.Ro. chiedere aiuto dal balcone della sua abitazione (trattasi di un pianerottolo con un muretto intorno); la Io. era già a terra ed il Ca. cercava di prenderla per le gambe; a tanto, intimò al Ca. di togliere le mani di dosso alla Io., minacciando, altrimenti, di chiamare i Carabinieri; a ciò il Ca. lasciò la presa e disse alla Ci. di farsi i fatti suoi; la Ci. precisava di aver visto, nell’occasione, il Ca. picchiare la moglie con la mazza della scopa.
La teste si soffermava poi sull’episodio occorso il 24.7.2015, affermando che un pomeriggio, a fine luglio, a seguito delle urla della Io., si recò nel suo appartamento e, mentre saliva, vide Ca.Lu. scendere le scale con un ombrello in mano per andar via; entrata in casa, ha visto che la Io. era ferita alla testa (più di una lacerazione) con copiosa fuoriuscita di sangue; quindi l’ha soccorsa con un asciugamano per tamponare la ferita, il tutto mentre doveva accudire anche la figlia; era la stessa Io. a chiamare i Carabinieri, che però non sono intervenuti; la Io. le disse che il marito l’aveva colpita con l’ombrello; quindi Ca.Lu., marito della Ci., accompagnava la Io. in ospedale, mentre la Ci. accudiva la figlia; l’imputato tornava dopo 5/6 ore e riferiva che non dovevano intervenire nei fatti suoi.
La teste precisava che raramente si recava nell’abitazione della Io. nella masseria e che si incontravano per lo più in cortile; in alcune occasioni ha sentito i coniugi discutere nell’abitazione, ma non è intervenuta; la Io. chiedeva aiuto solo quando la situazione era critica; i rapporti tra moglie e marito non sono mai stati molto familiari, forse per una questione di mentalità (“non c’è mai stata una famiglia”); essendosi recata a Napoli raramente e solo in occasione di eventi particolari, la Ci. non era in grado di riferire sui rapporti tra l’imputato, la moglie e la figlia.
Ad ulteriore riscontro dell’attendibilità della propalazione accusatoria vi sono i referti medici di pronto soccorso rilasciati dalla ASL di Benevento, “P.O. Sant’Alfonso Maria De’ Liguori”, il 7.6.2015, il 21.7.2015 e il 24.7.2015, in relazione alle lesioni patite il 31.5.2016, il 14.7.2015 e il 24.7.2015, nonché il referto di pronto soccorso rilasciato dall’Ospedale “San Paolo” di Napoli il 15.11.2015.
Orbene in tutti questi referti i sanitari hanno raccolto le dichiarazioni di Io.Ro., che ha riferito di essere stata aggredita dal marito, diagnosticando autonomamente delle lesioni perfettamente compatibili con il narrato della persona offesa.
2.2. Le dichiarazioni dell’imputato e della teste Ca.Vi.; la documentazione prodotta all’udienza del 26.11.2019.
La ricostruzione che precede non è contraddetta dalla diversa versione resa dall’imputato in sede di esame, dalle dichiarazioni rese dalla sorella Ca.Vi. e dalla documentazione prodotta dalla difesa all’udienza del 26.11.2019.
L’imputato, nel negare di aver mai picchiato o aggredito la moglie, indicava nella possessività della Io. le ragioni del loro pessimo rapporto, così fin dall’inizio del matrimonio, affermando di essersi solo limitato a difendersi dalla sua furia, scatenata dalla profonda gelosia che aveva nei suoi confronti, spesso sfociata in aggressioni fisiche, commesse anche con l’ausilio di un coltello.
Senza offrire elementi per contestualizzare i fatti narrati, l’imputato affermava che, in una occasione, i sanitari dell’Ospedale “San Paolo” di Napoli gli refertarono gg. 10 di prognosi per graffi al viso e sul collo (non denunciò il fatto perché gli dissero che avrebbero potuto togliergli la figlia); in altra occasione, è dovuto rimanere a casa per 15 gg. a causa della ferita di cui ha ancora il segno; in un’altra occasione ancora, andò al lavoro con un dito sanguinante; infine una volta, solo perché si era lamentato che la pasta era scotta, la moglie gli dette una pugnalata.
A sostegno delle affermazioni dell’imputato, la difesa produceva, all’udienza del 26.11.2019, un certificato medico di pronto soccorso rilasciato a Ca.Lu. il 29.12.2014, alle ore 17.07, attestante “ferite da graffio alla fronte ed al collo”, con prognosi di giorni 7, per riferita aggressione al proprio domicilio da parte di persona conosciuta.
Con riguardo all’episodio del 24.7.2015, il Ca. affermava di aver colpito la moglie con un ombrello, nel corso di un litigio dovuto a motivi di gelosia, solo perché la stessa, impugnando in una mano un coltello e nell’altra un vaso, minacciò di sfondargli la testa (“Ti sfondo la testa”); nell’immediatezza, la Io. non ebbe perdite di sangue e solo dopo l’imputato apprese che si era fatta male.
Nel negare gli altri episodi, il Ca. precisava che i lividi presenti sulle braccia della moglie erano dovuti alle siringhe che faceva (non aveva i capillari e subito comparivano le macchie nere; dovevano farle sette-otto volte i buchi); alla visione delle foto raffiguranti lividi anche in altre parti del corpo, l’imputato riferiva di ricordare solo i segni neri sulle braccia; quindi aggiungeva che la Io., quando decise di separarsi, gli disse: “Tu a tua figlia non la vedrai mai, non uscirai mai con tua figlia, anche se lo dice un Giudice. Se vengono i Carabinieri non apro la porta. Se lo dice un Giudice, io accoltello prima a te e poi al Giudice”.
Quanto alle deposizione dei suoi parenti (Ci.Ma. e Ca.Lu.), l’imputato affermava che essi non sono attendibili perché la Io. li ha più volte gratificati con soldi e regali.
Riscontri alle affermazioni dell’imputato non possono ravvisarsi nelle dichiarazioni della sorella Ca.Vi. – che sia a Napoli che a Sant’Agata dei Goti abita in un appartamento confinante con quello dei coniugi Ca./Io. (in entrambi gli edifici, vi è solo una parete che separa i due appartamenti) – perché, in alcuni passaggi, favorevoli all’accusa, in altri, apodittiche o contraddittorie, in altri ancora, in contrasto con le fonti di prova testimoniale disinteressate acquisite agli atti.
La predetta ha dichiarato che i rapporti tra il fratello e la moglie, fin dai primi anni di matrimonio, anche a causa della nascita della bambina cerebrolesa, sono stati “disastrosi” e costellati da “bruttissimi episodi” (“c’erano litigate furibonde”)) la ragione di tale conflittualità è stata ravvisata dalla teste, in linea con quanto dichiarato del congiunto, nel carattere possessivo della Io., sia nei confronti dell’imputato che della figlia, nella sua tendenza a vivere segregata in casa, nella sua incapacità a gestire la malattia di Cl., nonché nelle numerose fissazioni che aveva.
Tuttavia, in merito alla ricostruzione dei rapporti tra l’imputato e la moglie, le dichiarazioni della Ca. sono contraddittorie perché se, da un lato, ha affermato che il fratello era succube della Io. (tanto che sia lei che i suoi familiari lo invitavano ad imporsi), dall’altro, contraddittoriamente, ha dichiarato che “comunque lui si impone su altre cose. A volte quando discutevano le imposizioni lui ce le ha anche, però per tanti versi è lei che ha la buona su mio fratello. Perché sono due caratteri molto forti”.
Ma la deposizione della Ca. è caratterizzata anche da altre rilevanti intrinseche contraddizioni.
In ordine all’episodio del 4.4.2015, la Ca. dapprima affermava che la Io., nel rientrare in casa dopo essere stata da lei per lamentarsi del comportamento del fratello, andò inavvertitamente a sbattere con la mano contro la porta di ingresso, che l’imputato stava chiudendo; nel corso della stessa deposizione, nel ritornare sull’episodio, la Ca., però, affermava che la Io. mise il braccio (non più la mano) per entrare mentre l’imputato stava chiudendo la porta (“lei spingeva la porta per cui mio fratello cercava di chiuderla. Disse: “torna da dove sei venuta””; “Lei mise il braccio, interpose il braccio per poter aprire, per farsi forza. Quindi penso che in quel frangente ovviamente si sia stretto il braccio. Dopo di che lei dopo indietreggiò e lui richiuse la porta”).
In ogni caso, la teste ammetteva che, mentre la Io. era da lei per lamentarsi del fratello, quest’ultimo bussò alla sua abitazione per sollecitare la moglie a rientrare in casa perché la figlia doveva mangiare.
In ordine all’episodio del presunto ferimento al dito subito dall’imputato ad opera della moglie, la Ca. si è limitata a riferire il racconto ricevuto dal fratello, secondo cui la moglie, con un coltello, nel corso di un litigio, lo aveva ferito al dito e graffiato in volto.
Il certificato medico acquisito, per la natura delle lesioni accertate (“ferite da graffio alla fronte ed al collo”), non riscontra l’episodio del ferimento al dito.
Considerazioni analoghe valgono per l’episodio del 24.7.2015, a cui la teste non era presente ed in ordine al quale la stessa ha riportato la versione appresa dal fratello, secondo cui, nel corso di un litigio, la Io., per trattenerlo, afferrò l’ombrello che l’imputato aveva in mano e, nel tirarlo, se lo conficcò in testa, perché il Ca. lasciò la presa.
La dinamica riferita dall’imputato è contrastata dall’entità delle lesioni subite dalla Io., come evincibili dal certificato medico acquisito (“traumatismo cutaneo con contusione del braccio sinistro ed una escoriazione del cuoio capelluto”, con prognosi di giorni 10) e apprezzate da Ci.Ma. nell’immediatezza (la Ci., accorsa immediatamente dopo, riferiva che la Io. era ferita alla testa, con plurime lacerazioni e copiosa fuoriuscita di sangue); inoltre la Ci., entrata in casa immediatamente dopo il fatto, nulla ha riferito circa l’anomala presenza di un vaso o di un coltello (i colpi ricevuti in testa con l’ombrello avrebbero dovuto far cadere dalle mani della Io. il vaso ed il coltello impugnati per minacciare ed aggredire l’imputato).
Stessa valenza – de relato e prive di sufficienti riscontri – assumono le dichiarazioni rese da Ca.Vi. in ordine alle finalità difensive delle azioni poste in essere dal fratello contro la moglie.
La teste dichiarava, infatti, di aver spesso sentito, essendo le pareti dei rispettivi appartamenti confinanti, il fratello e la moglie litigare in modo anche violento (“litigate c’erano perché ecco si sentivano colluttazioni, vetri rotti, si sentivano movimenti di pareti”); il giorno dopo vedeva il fratello pieno di graffi; alla sua richiesta di spiegazioni (“Ma cosa avete combinato?”), l’imputato si giustificava dicendole: “Ma io mi dovevo difendere, perché lei comunque mi ha strappato gli occhiali, mi ha rotto questo”; la teste precisava di non sapere cosa realmente avvenisse tra i due; nel corso dei litigi intervenuti sul pianerottolo, a cui ha assistito, i due si minacciavano a vicenda.
La finalità difensiva prospettata dall’imputato non è suffragata, per la sua unicità, dal certificato medico prodotto all’udienza del 26.11.2019, che ben può trovare una sua logica spiegazione in una, peraltro occasionale, reazione della Io. alle vessazioni subite dal marito; inoltre l’indicata finalità difensiva è contrastata, come si dirà nel paragrafo seguente, dalle convergenti dichiarazioni rese da Gi.La. e Ci.Ca., che portano ad escludere una sostanziale capacità oppositiva o reattiva da parte della persona offesa.
Confermative dell’attendibilità della propalazione accusatoria sono, infine, le dichiarazioni rese dalla Ca. in ordine ai lividi che la Io. aveva alle braccia.
In merito la teste ha affermato che, prima della separazione, la Io. le disse che i lividi che aveva alle braccia erano dovuti alla cura che stava facendo presso la dott.ssa Ci. e alla fragilità che presentava (non trovavano la vena per le iniezioni); solo quando la situazione con il fratello si aggravò, la Io. incominciò a dirle che il responsabile dei lividi era il fratello, che la picchiava.
Orbene, sul punto, assumono pregante valore le dichiarazioni rese da Ci.Ca., che ha affermato che la Io. non presentava alcuna fragilità capillare e non soffriva di coagulo patia (“abbiamo fatto tutti gli accertamenti”).
La riconducibilità all’imputato dei lividi riscontrati sul corpo della Io. è confermata dalla circostanza, chiaramente evincibile dalla documentazione fotografica acquista agli atti, che gli stessi erano presenti non solo sulle braccia, ma anche sulle gambe e sul volto.
Quindi l’assunto dell’imputato, secondo cui i lividi presenti sulle braccia della moglie erano dovuti alle cure che ella faceva, è destituito di qualsivoglia fondamento.
La dichiarazione resa in merito dalla sorella – secondo cui la Io., per lungo tempo, le disse che i lividi che presentava erano dovuti alle siringhe che faceva – non fanno altro che confermare quanto detto dalla Ci. e dalla Gi., secondo cui la Io. tendeva a nascondere le violenze subite.
Va poi rilevato che Ca.Vi. ha ammesso che, negli ultimi tre anni, la Io. le confidò che il fratello la picchiava.
L’affermazione della Ca., secondo cui il fratello non ha mai impedito alla moglie di uscire di casa (anzi la spronava a fare ciò), è contraddetta dalla deposizione di Gi.La. che, conformemente all’accorata deposizione della persona offesa, ha affermato che, dopo l’esecuzione della misura cautelare dell’allontanamento dalla casa familiare, ha visto la Io. uscire di casa con la figlia.
L’ordinanza del G.I.P. di Napoli del 4.10.2019-24.10.2019, di archiviazione dei procedimenti penali nn. 17801/16 e 37563/17 R.G.N.R. instaurati nei confronti, dell’imputato per i reati di atti persecutori e violazione degli obblighi di assistenza familiare a seguito delle denunce proposte da Io.Ro. per fatti successivi al novembre del 2015, prodotta dalla difesa all’udienza del 26.11.2019, non scalfisce la credibilità delle dichiarazioni rese dalla persona offesa perché da essa non si desume in alcun modo la falsità dei fatti denunciati dalla Io..
Per quanto attiene alla condotta persecutoria, il G.I.P. ha ritenuto non l’insussistenza delle condotte minacciose e moleste denunciate dalla Io., ma la loro inidoneità lesiva ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 612 bis c.p.
Per quanto attiene alla condotta di violazione degli obblighi di assistenza familiare, il G.I.P. ha escluso il reato per effetto del pignoramento presso terzi eseguito dalla Io..
Alcuna falsa accusa è stata, quindi, mossa dalla Io. nei confronti del Ca. dopo la separazione del novembre 2015, come peraltro desumibile anche dal fatto che il giudice procedente non ha ritenuto dover trasmette gli atti alla Procura della Repubblica per il reato di cui all’art. 368 c.p.
Alla luce di quanto esposto deve, quindi, ritenersi la piena credibilità delle dichiarazioni rese da Io.Ro..
3.1 reati contestati.
La costante reiterazione, da parte dell’imputato, durante la convivenza coniugale, delle condotte ingiuriose, minacciose, prepotenti, vessatorie e, dal 2008, anche violente denunciate da Io.Ro. rende certamente configurabile il delitto di cui all’art. 572 c.p. contestato al capo a) della rubrica.
Le prove acquisiti hanno, infatti, dimostrato una costante ripetizione, da parte dell’imputato e in danno della moglie convivente, di comportamenti che, lungi dal manifestarsi quali sporadici, appaiono espressione di una condotta abitualmente offensiva.
L’imputato ha, con assoluta continuità, ponendo in essere le condotte contestate, umiliato, offeso e disprezzato la moglie, aggredendola anche fisicamente in numerose occasioni e segregando in casa lei e la figlia disabile.
Dal compendio probatorio acquisito è chiaramente emerso lo stato di prostrazione psicologica in cui è precipitata la Io. a seguito della condotta abitualmente offensiva del marito.
Le dichiarazioni dell’imputato, secondo cui si sarebbe limitato a difendersi dalle aggressioni della moglie, sono assolutamente inattendibili.
Oltre a quanto già esposto nel precedente paragrafo in ordine all’episodio del 24.7.2015, la dedotta finalità difensiva è in contrasto con le fonti di prova testimoniali e documentali acquisite, attestanti le violenze fisiche a cui la Io. è stata reiteratamente sottoposta almeno dal 2008.
In merito, le dichiarazioni rese da Ca.Vi. in ordine alle ferite più volte riscontrate sul fratello (un taglio al dito in una occasione; graffi al volto in più occasioni), da quest’ultimo attribuite all’azione offensiva della moglie, nella misura in cui accreditano alla vittima una capacità oppositiva o di reattiva contrapposizione nei litigi, appaiono scarsamente credibili perché in contrasto con le convergenti dichiarazioni di testi estranei al contesto familiare (Gi.La. e Ci.Ca.), secondo cui la Io. era terrorizzata dal Ca. e faceva di tutto per nascondere le violenze.
La reazione della Io. attestata dal referto medico del 29.12.2014 non consente, per la sua sporadicità, di escludere lo stato di soggezione della persona offesa a fronte dei soprusi abituali posti in essere dal maltrattante, né, tanto meno, consente di escludere la sussistenza dell’elemento psicologico, che consiste nella coscienza e volontà di sottoporre il familiare ad una abituale condizione di soggezione psicologica e di sofferenza.
In proposito si rileva che, secondo consolidato orientamento giurisprudenziale, al fine di ritenere configurato il reato in questione non è richiesta una totale soggezione della vittima all’autore del fatto, in quanto la norma, nel reprimere l’abituale attentato alla dignità e al decoro della persona, tutela la normale tollerabilità della convivenza; ne consegue che anche le sporadiche reazioni vitali ed aggressive della vittima non consentono di escludere lo stato di soggezione della persona offesa a fronte dei soprusi abituali posti in essere dal maltrattante, né, tanto meno, consentono di escludere la sussistenza dell’elemento psicologico, che consiste nella coscienza e volontà di sottoporre la persona di famiglia ad un’abituale condizione di soggezione psicologica e di sofferenza (Cass. Sez. III, 20/3/201811/10/2018, n. 46043).
Orbene, nel caso di specie, non vi è dubbio che le condotte minacciose, offensive, violente ed aggressive poste in essere dall’imputato abbiano ingenerato nella Io. un profondo stato di sofferenza, paura e sconforto ed è altrettanto palese che l’imputato aveva piena consapevolezza e volontà di perpetrare le proprie condotte a danno della moglie e del quieto vivere familiare.
In definitiva, la sistematica reiterazione, da parte del Ca., di condotte ingiuriose, minacciose, prepotenti, costrittive e violente, sfociate negli allarmanti episodi sopra descritti, ha certamente determinato un clima oppressivo, umiliante e di sistematica sopraffazione.
Inoltre detti atti manifestano chiaramente l’esistenza di un programma criminoso unitario, rappresentato dalla coscienza e volontà di sottoporre la moglie alla propria condotta abitualmente offensiva.
Deve, quindi, ritenersi integrato il delitto di maltrattamenti in famiglia contestato al capo a) della rubrica.
Per quanto attiene agli altri reati contestati, va preliminarmente rilevato che, per costante orientamento giurisprudenziale, il reato di cui all’art. 572 c.p. assorbe il delitto di minacce, anche gravi, quando esse non siano finalizzate a conseguire l’impunità per il delitto di maltrattamenti in famiglia (cfr. Cass. Sez. II, 13/12/2012-4/4/2013, n. 15571; Cass. Sez. Ili, 7/4/2016-3/3/2017, n. 10497).
Non essendo, con riguardo alle minacce contestate ai capi b), d), g), h), i) della rubrica, in alcun modo emersa l’indicata finalità (le minacce erano finalizzate non a conseguire l’impunità per il delitto di cui all’art. 572 c.p., ma solo ad attuare siffatto delitto), deve ritenersi l’assorbimento dei capi b), d), g), h), i) nel capo a).
A diverse conclusioni deve, invece, pervenirsi con riguardo al reato di lesioni personali lievi contestato ai capi c), e), f), I) della rubrica.
Detto reato non è, infatti, assorbito in quello di maltrattamenti in famiglia se l’autore della condotta ha avuto non solo l’intenzione di maltrattare ma anche quella di ledere l’integrità fisica del oggetto passivo (Cass. Sez. V, 18/7/2018-27/9/2018, n. 42599; conf. Cass. n. 50208/2015).
Nella fattispecie in esame, le circostanze in cui sono state cagionate le lesioni personali contestate nei capi sopra indicati, come emerse dall’istruttoria dibattimentale svolta, dimostrano chiaramente l’intenzione del Ca. di ledere l’integrità fisica della moglie, ancorché ciò sia avvenuto nell’ambito di un regime di vita vessatorio.
Alcun dubbio poi che quelle inferte alla persona offesa in occasione delle aggressioni perpetrate il 31.5.2015 (“postumi di traumatismi contusivi dei tessuti molli diffusi sul corpo”, con prognosi di giorni 5), il 14.7.2015 (“ecchimosi multiple al braccio sinistro, al terzo inferiore avanbraccio sinistro e alla radice della coscia sinistra”, con prognosi di giorni 6), il 24.7.2015 (“traumatismo cutaneo con contusione del braccio sinistro ed una escoriazione del cuoio capelluto”, con prognosi di giorni 10) e il 15.11.2015 (“contusione traumatica con ecchimosi all’avambraccio dx e contusioni escoriate multiple per il corpo”, con prognosi di giorni 7) siano lesioni, da cui è derivata una malattia, dovendosi intendere per essa qualsiasi alterazione anatomica o funzionale dell’organismo, ancorché, come nel caso in esame, localizzata, di lieve entità e non influente sulle condizioni organiche generali, onde lo stato di malattia perdura fino a quando sia in atto il suddetto processo di alterazione (cfr. Cass. Sez. V, 29/9/2010-10/12/2010, n. 43763, relativa alle escoriazioni; Cass. Sez. V, 6/5/2014-2/10/2014, n. 40978, relativa al trauma contusivo; Cass. Sez. VII, 31/5/201614/7/2016, n. 29786, relativa alla contusione; Cass. Sez. VI, 13/1/2010-22/3/2010, n. 10986, relativa alle ecchimosi).
Sussiste, con riguardo a tutti i delitti in disamina, l’aggravante di cui all’art. 582, in relazione all’art. 576, co. 1, n. 5) c.p. perché le lesioni personali sono state cagionate in occasione della commissione del delitto di maltrattamenti in famiglia.
Sussiste, con riguardo a tutti i reati in disamina, l’aggravante di cui all’art. 582, in relazione all’art. 577, co. 1 c.p. (erroneamente è indicato il co. 2, ma ciò non influisce sulla completezza della contestazione perché, in fatto, l’aggravante è stata precisamente contestata con il richiamo della qualità di coniuge) per essere state le lesioni commesse contro il coniuge.
Non sussiste, invece, per alcuno dei reati in disamina, l’aggravante di cui all’art. 582, in relazione all’art. 576, co. 1, n. 1) c.p. perché la circostanza aggravante di cui all’art. 61, co. 1, n. 2) c.p. non è configurabile in relazione al reato di lesioni personali lievi commesso in attuazione della condotta propria del delitto di maltrattamenti in famiglia, “atteso che il nesso teleologico necessario per la sussistenza della suddetta aggravante esige che le azioni esecutive dei due diversi reati che pone in relazione siano distinte'” (Cass. Sez. VI, 19/1/2016-11/2/2016, n. 5738).
4. Le circostanze attenuanti generiche e la continuazione.
Non sussistono – in considerazione dell’amplissima durata temporale dei maltrattamenti posti in essere dall’imputato, della notevole gravità delle singole condotte vessatorie, della pervicacia dimostrata dall’imputato nella loro commissione e dell’assenza di elementi sintomatici di effettiva resipiscenza – i presupposti per riconoscere a Ca.Lu. le circostanze attenuanti generiche.
Le circostanze attenuanti generiche non possono, infatti, essere intese come oggetto di una benevola e discrezionale concessione del giudice, ma come il riconoscimento di situazioni particolari non comprese tra gli indici da valutare ai sensi dell’art. 133 c.p.p., ovvero che presentino connotazioni tanto rilevanti e speciali da esigere una più incisiva, particolare, considerazione.
Nella fattispecie in esame, non emergono, al di là della formale incensuratezza dell’imputato (elemento normativamente irrilevante), situazioni di speciale rilevanza che possano giustificare una attenuazione della pena.
Considerata l’omogeneità ontologica dei reati, la contiguità temporale degli stessi, il contesto finalistico unitario dell’azione evidenziato dalle analoghe modalità di svolgimento dei fatti, deve ritenersi la sussistenza, ex art. 81 cpv. c.p., di un medesimo disegno criminoso in ordine alle fattispecie ascritte all’imputato.
Il reato più grave va individuato, tenuto conto di tutte le aggravanti, in quello di cui al capo a), perché, a parità di massimo, più gravemente punito nel minimo edittale dalla legge.
5. La determinazione della pena ed altre statuizioni.
Valutati tutti i criteri di cui all’art. 133 c.p., si reputa congrua la pena di anni quattro di reclusione, così determinata: pena base, per il reato contestato al capo a) della rubrica, anni tre e mesi sei di reclusione; aumentata di mesi uno e giorni quindici a titolo di continuazione per ciascuno dei reati di lesioni personali contestati.
La pena base è stata determinata in misura superiore al minimo edittale di anni due in considerazione degli elementi esposti in sede di diniego delle circostanze attenuanti generiche.
L’aumento per la continuazione è stato determinato, nella misura indicata, in considerazione dell’intrinseca gravità di ciascun reato satellite. L’imputato va condannato al pagamento delle spese processuali.
Ai sensi dell’art. 29 c.p., Ca.Lu., essendo la condanna riportata per il reato più grave superiore ad anni tre ed inferiore ad anni cinque, deve essere dichiarato interdetto dai pubblici uffici per la durata di anni cinque.
Ai sensi dell’art. 64 bis disp. att. c.p.p., va disposta la trasmissione di copia della presente sentenza al giudice civile che procede al giudizio di separazione personale tra Ca.Lu. e Io.Ro. (procedimento n. 28248/15 n. R.G.).
6. Le questioni civili.
Ca.Lu. deve essere condannato a risarcire i danni patrimoniali e morali cagionati alla costituita parte civile per effetto dei reati commessi.
Le prove acquisite non consentono la liquidazione dei danni subiti da Io.Ro. che va, pertanto, demandata al giudice civile.
L’imputato va condannato al pagamento delle spese processuali in favore della costituita parte civile, non sussistendo giusti motivi per la compensazione, totale o parziale.
Nella fattispecie in esame, tenuto conto della difficoltà del procedimento, devono essere applicati i valori medi.
In definitiva deve essere liquidata, in favore della parte civile, la somma di Euro 3.933,00, secondo il prospetto che segue:
1) fase di studio (comprensiva dell’esame e studio degli atti, delle consultazioni con il cliente): Euro 450,00;
2) fase introduttiva (comprensiva della costituzione di parte civile): Euro 540,00;
3) fase dibattimentale (comprensiva della partecipazione alle udienze): Euro 1.080,00;
4) fase decisoria (comprensiva della discussione orale): Euro 1.350,00; Totale parziale: Euro 3.420,00
Rimborso forfetario 15%: Euro 513,00 Totale: Euro 3.933,00
P.Q.M.
Letti gli artt. 533 e 535 c.p.p., dichiara, al di là di ogni ragionevole dubbio, Ca.Lu. colpevole dei reati a lui ascritti ai capi a) – in esso assorbiti i reati contestati ai capi b), d), g), h), i) della rubrica – c), e) (rettificata in 14.7.2015 la data del commesso reato), f), l) dell’imputazione e, esclusa l’aggravante di cui all’art. 576, co. 1°, n. 1) c.p. contestata ai capi c), e), f), l), unificati i reati dal vincolo della continuazione, ritenuto più grave il reato sub a), lo condanna alla pena di anni quattro di reclusione, oltre al pagamento delle spese processuali. Letto l’art. 29, co. 1°, c.p., dichiara Ca.Lu. interdetto dai pubblici uffici per la durata di anni cinque. Letti gli artt. 538-541 c.p.p. condanna Ca.Lu. al risarcimento dei danni in favore di Io.Ro., patte civile costituita, danni da liquidarsi in separato giudizio, oltre alla rifusione delle spese processuali sostenute dalla costituita parte civile che liquida in € 3.933,00, oltre LV.A. e c.P.A. come per legge. Letto l’art. 64 bis disp. att. c.p.p., dispone la trasmissione di copia della presente sentenza al giudice civile che procede al giudizio di separazione personale tra Ca.Lu. e Io.Ro. (procedimento n. 28248/15 N.R.G.). Così deciso in Napoli il 26 novembre 2019