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Cassazione penale sez. VI, 20/10/2022, n.6937

Massima

L’avarizia e la taccagneria arricchiscono il quadro dei maltrattamenti la cui condotta che può essere attiva (percosse, ingiurie, minacce, umiliazioni, sopraffazioni) o anche omissiva (privazione di cibo, di assistenza, di cure), è integrata da atti ripetuti di vessazione fisica o morale, i quali singolarmente considerati possono anche non integrare un reato. Si tratta di condotte che causano una situazione di destabilizzazione psicologica, nervosa ed emotiva, oppure uno stato di prostrazione e di avvilimento tale da rendere abitualmente dolorose e mortificanti le relazioni intercorrenti con l’agente, fonte di uno stato di disagio continuo e incompatibile con normali condizioni di esistenza. L’estensione per via giurisprudenziale dell’ambito di applicazione del reato di maltrattamenti indica lo spostamento di accento dalla tutela della famiglia come istituzione, in virtù della quale il delitto in esame era stato collocato nel Titolo XI, alla tutela della persona, in particolare del soggetto debole nell’ambito di un contesto di possibile sopraffazione.

Supporto alla lettura

Maltrattamenti in famiglia

Il reato di maltrattamenti in famiglia si colloca nella parte del codice penale dedicata ai delitti contro la famiglia e l’assistenza familiare, caratterizzati dal fatto che l’offesa deriva da membri dello stesso gruppo familiare al quale appartiene la vittima.
In realtà, limitare alla famiglia l’oggetto giuridico del reato ex articolo 572 del codice penale, sarebbe fuorviante.
In primo luogo perché, anche in base alla interpretazione letterale, il bene giuridico protetto è l’integrità psicofisica e morale della vittima.
In secondo luogo perché rispetto agli altri reati previsti nel titolo XI del codice penale, il soggetto passivo non è necessariamente un familiare dell’agente, ma chiunque abbia con lui una relazione qualificata (rapporto di convivenza, sottoposizione per ragioni di autorità, affidamento per ragioni di educazione, cura, istruzione, vigilanza, custodia, esercizio di una professione o arte).
Ne consegue che l’effettivo fondamento giuridico dell’art 572 c.p. deve essere rinvenuto nella stabilità del vincolo affettivo e/o umano tra l’agente e soggetti ritenuti “deboli” ed esposti a episodi di sopraffazione da parte del soggetto “forte”, anche in applicazione di quanto previsto dalla ratificata Convezione di Lanzarote del 2007.
Tra i vari interventi che hanno modificato l’art. 572 c.p. negli anni, si ricorda:

  • la legge n. 172 del 2012 con la quale il legislatore ha incluso i semplici conviventi nel novero delle vittime di maltrattamenti;
  • la legge 69 del 2019 (c.d. Codice Rosso) che ha inasprito il regime sanzionatorio, soprattutto per contrastare episodi di c.d. violenza domestica e che ha inserito l’ultimo comma dell’articolo 572 c.p. che prevede che il minore che assiste ai maltrattamenti familiari debba essere considerato persona offesa.

Ambito oggettivo di applicazione

1. La Corte di appello di Bologna ha confermato la condanna di F.F. alla pena di anni uno e mesi cinque di reclusione per i reati di cui agli artt. 572 c.p. e alcuni episodi di lesioni (artt. 582, 585 in relazione all’art. 576 n. 1, 61 n. 2 c.p.) commessi il 21 novembre 2015, il 13 giugno 2016 e il 22 giugno 2016 in danno della moglie convivente, C.C., anche nel periodo di separazione di fatto. La sentenza ha confermato le statuizioni civili che prevedono la liquidazione del danno rimessa al giudice civile.

2. Con i motivi di ricorso, di seguito sintetizzati ai sensi dell’art. 173 disp. att. c.p.p. nei limiti strettamente indispensabili ai fini della motivazione, il ricorrente denuncia:

2.1. violazione di legge processuale, in relazione all’art. 192 cod. proc. pen., e penale, ai fini della configurabilità del reato di maltrattamenti in famiglia, e cumulativi vizi di motivazione in relazione alla necessaria verifica del giudizio di attendibilità delle dichiarazioni rese dalla persona offesa, costituita parte civile. Osserva il ricorrente che la motivazione della sentenza impugnata, che si adagia su quella di primo grado, non compie un vaglio di attendibilità, alla luce dei criteri di maggior rigore previsti dalla giurisprudenza, della persona offesa dal reato e non esamina adeguatamente i rilievi difensivi che si fondano sulle risultanze della consulenza tecnica di ufficio eseguita nella causa civile per l’affidamento della figlia minore della coppia e “dirompenti” in punto di attendibilità intrinseca della C. sottolineandone l’atteggiamento difensivo (nel corso dell’esame) ai limiti della simulazione nonché sul giudizio espresso dai consulenti “sull’impossibilità di escludere psicopatologie di personalità” e sulla sussistenza di indici che generalmente ravvisabili in soggetti che “possono manifestare risposte aggressive esagerate senza provocazione esplicita” e, infine, dubbi sull’attendibilità che possono riguardare un soggetto nei confronti del quale si è ravvisata “una struttura personologica di tipo isterico o bipolare”. Vieppiù, il giudizio di attendibilità della dichiarante era da valutare alla luce delle denunce, per il reato di sottrazione di minore, proposte dall’odierno imputato e pervenuto, a seguito di avocazione delle indagini da parte della Procura generale, alla emissione di avviso di conclusione delle indagini nonché delle risultanze della consulenza sulla “incompatibilità” delle lesioni con le vicende descritte dalla persona offesa. Gli elementi di riscontro, valorizzati nella sentenza impugnata, sono inidonei ad assolvere tale funzione sia perché autoreferenziali sia perché la persona offesa aveva avvicinato le amiche testi indirette- anche prima della loro escussione sia perché, infine, il padre della persona offesa, in merito ad uno degli episodi di lesioni, aveva riferito che le lesioni le erano state cagionate dalla figlia minore. Infine la sentenza impugnata ha obliterato la portata dell’apporto dichiarativo dei testi della difesa;

2.2. erronea applicazione della legge penale e vizio di motivazione, per illogicità o manifesta contraddittorietà, in relazione a due vicende, narrate dal padre della persona offesa (si tratta di un episodio durante il quale il dichiarante, attraverso il telefono messo in viva voce, aveva potuto udire le offese verso la figlia) e l’episodio del 22 giugno 2015 (in realtà 22 giugno 2016) in occasione del tentativo dell’imputato di entrare nell’abitazione della persona offesa per prendere la figlia. Nella ricostruzione della C. non vi è un riferimento alla lesione, della quale si sarebbe avveduta dopo alcune ore, circostanza che non è verosimile, viste le qualità personali della C. e del padre e perché non venne prestata alcuna cura, circostanze che, invece, confermano la ricostruzione del consulente dell’imputato sulla incompatibilità di tale lesione con la dinamica descritta dalla persona offesa. In una situazione conflittuale quale quella che si era venuta a determinare fra i coniugi sono inidonei a configurare il delitto di maltrattamenti sia l’episodio delle contumelie che le condizioni di “risparmio domestico” che non attingono a rilievo penale e l’erronea attribuzione all’imputato di frasi proferite dal padre. Difetta, infine, il requisito dell’abitualità;

2.3. violazione di legge e vizio di motivazione con riferimento al giudizio di responsabilità in relazione ai reati di lesione sub capi b), c) e d), per questo, fermo quanto innanzi rilevato, sulla inattendibilità della ricostruzione dell’episodio, oltre che in frontale contrasto con i rilievi del consulente di parte. In ogni caso tali episodi si collocano in un contesto complesso, quale quello della separazione e delle concitate fasi di consegna della minore e sono, dunque, privi del connotato di volontarietà.

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

1.II ricorso deve essere rigettato perché proposto per motivi infondati, ai limiti della manifesta evidenza.

2.Sono generici e manifestamente infondati i rilievi della difesa che denunciano cumulativi vizi di motivazione, dalla carenza di motivazione sul giudizio di attendibilità delle dichiarazioni rese dalla persona offesa a quelle che ne denunciano la contraddittorietà, a quelle, che infine, ne asseriscono la illogicità in relazione alla valorizzazione, quale elemento di riscontro, dei certificati medici attestanti le lesioni e delle dichiarazioni rese da persone vicine alla persona (il padre e alcune amiche).

Le censure della difesa, in particolare, riproducono (anche graficamente) argomentazioni sviluppate con i motivi di appello che hanno trovato adeguata risposta nella motivazione della sentenza impugnata che risulta completa ed articolata e che si è confrontata criticamente con le problematiche poste dalla difesa in merito al giudizio di attendibilità delle dichiarazioni accusatorie in linea con l’ampia motivazione della sentenza di primo grado che, a propria volta, aveva compiuto un’accurata disamina delle dichiarazioni rese dalla persona offesa descrivendo il clima di sopraffazione e i comportamenti vessatori, che già la sentenza di primo grado descrive come “peculiari”, ai quali la persona offesa era stata sottoposta. Tale riferimento, e il punto sarà oggetto di ulteriore esame, è da intendersi riconducibile al regime di risparmio domestico imposto alla persona offesa, e inizialmente condiviso o, comunque, tollerato dalla donna, ma poi divenuto a questa del tutto insopportabile, anche se non è questo solo, l’unico aspetto del sistema di vita imposto alla C..

2.1. A conforto del giudizio di attendibilità delle dichiarazioni rese dalla C., che costituiscono la struttura portante delle contestazioni e del giudizio di responsabilità ai fini della ricostruzione del clima di vessazioni e delle sopraffazioni subite,dalla persona offesa, la Corte di richiamato il contenuto delle dichiarazioni rese dalle amiche e dal padre della donna.

Quanto alle prime, pur non essendo state le dichiaranti partecipi dirette delle dinamiche familiari, la Corte di merito rileva che queste avevano illustrato, “il clima di ossessivo controllo ed isolamento in cui l’imputato aveva costretto la persona offesa, fin dall’inizio della loro convivenza e progressivamente aggravatosi dopo il matrimonio” e che hanno confermato le angherie, i soprusi e le violenze poste in essere dall’imputato nei confronti della moglie e dalla donna confidate alle amiche, che del resto potevano verificare, in occasione degli incontri con la C., il “terrore” della donna alle continue telefonate di controllo del marito, da loro direttamente percepito (cfr. pag. 8 della sentenza impugnata). Si tratta di elementi del narrato delle dichiaranti che riferiscono fatti anche risalenti nel tempo a comprova della abitualità dei comportamenti dell’imputato e che costituiscono il risultato non solo di confidenze ricevute dalla persona offesa ma anche di comportamenti da loro stesse rilevati (le continue telefonate; il terrore della C.) e che travalicano le possibili suggestioni alle quali le stesse potrebbero essere state esposte per effetto dell’avvicinamento prima della loro escussione.

2.2.Molto controversa nei motivi, ma parimenti esaminata nella sentenza impugnata (ivi, pag. 8), è la valutazione del riscontro costituito dalle dichiarazioni rese dal padre della persona offesa che è stato teste diretto sia del sistema di risparmio domestico cui l’imputato aveva costretto la persona offesa che della presenza di lividi sulle braccia della figlia. Il teste ha anche precisato che, in qualche occasione, egli aveva udito investire la donna di epiteti ingiuriosi attraverso il telefono posizionato in via voce; che aveva, inoltre, ricevuto le confidenze delle figlia su due episodi in cui il marito le aveva procurato lesioni, una volta perché il marito l’aveva scossa violentemente, mentre usciva dalla doccia facendola cadere a terra, tra il lavandino e la doccia; un’altra volta perché le aveva messo lo sgambetto, facendola rovinare a terra e, infine quando (e a tale episodio aveva direttamente assistito nel mese di giugno 2016, si tratta dell’episodio contestato al capo d), spingendo violentemente la porta blindata contro il piede della C. che si opponeva al suo ingresso in casa, l’imputato le aveva cagionato delle contusioni, oggetto di contestazione al capo d).

Il ricorrente deduce che il teste stesso aveva riferito, in dibattimento, che la persona offesa gli aveva detto che tali lividi le venivano procurati dalla figlia e che solo successivamente la C. gli aveva, invece, riferito che erano esiti delle violenze del marito e la inattendibilità del racconto della persona offesa, non superabile neppure dai riscontri, alla luce della consulenza tecnica svolta nell’interesse dell’imputato.

La sentenza impugnata, in linea con quella di primo grado, ha ritenuto attendibili le dichiarazioni del padre della persona offesa sia per la parte delle confidenze ricevute, sia in relazione agli episodi di lesione, in particolare quelle relative ai capi c) e d) che avevano trovato ulteriore conferma nel contenuto dei referti medici e, per quello sub capo d), anche nelle fotografie in atti. Correttamente la Corte non ha ritenuto condivisibile la tesi sul giudizio di inattendibilità del padre della persona offesa, proposta già con l’appello, evidenziando come la persona offesa aveva solo con il tempo trovato la forza di riferire il suo vissuto familiare, taciuto anche al padre che, dunque, ha riferito con precisione e completezza quanto da lui appreso dalla figlia in distinti momenti.

Il giudice di appello ha dato atto della particolare valenza del contenuto dei referti: quello del 14 giugno 2016 (in relazione al reato sub capo c) evidenziava che la persona offesa era “provata e sofferente” ed aveva attribuito le lesioni riscontrate a “diversi diverbi avuti con il marito”; anche il referto sub capo d) indica l’anamnesi della paziente che coincide perfettamente, ed è pertanto stata posta a conforto del giudizio di attendibilità della dichiarante, con il racconto dell’episodio fatto dalla vittima e dal padre.

La sentenza impugnata ha esaminato criticamente le diverse conclusioni alle quali era pervenuto, con riguardo alla eziologia delle lesioni, il consulente di parte dell’imputato sulla scorta di argomentazioni in fatto del tutto logiche e coerenti e non suscettibili, pertanto, di revisione in questa sede. La sentenza evidenzia come le modalità della presa dell’aggressore; la durata della pressione esercitata, quanto alle lesioni del 13 giugno 2016; la tipologia delle calzature indossate dalla vittima e la modalità di opposizione alle spinte della porta, giustificano il giudizio di inattendibilità delle conclusioni del consulente di parte che risultano “frutto di speculazione teorica sulle possibili cause della lesione” quanto al fatto reato sub capo c), inconferenti e non convincenti, con riguardo al reato di lesioni sub capo d).

Le dichiarazioni rese nella immediatezza delle visita al pronto soccorso – come detto univoche nella indicazione della causa delle lesioni refertate, quanto al primo episodio; il convergente racconto della C. e del padre, oltre alla documentazione fotografica, con riferimento alle seconde corroborano il giudizio di attendibilità della dichiarante, giudizio affatto incrinato dal rilievo che costei (medico come il padre) non se ne sarebbe avveduta nella immediatezza quando e’, invece, del tutto naturale che la contusione (rispetto all’abrasione di immediata percezione) si riveli anche a distanza di ore dall’evento traumatico che l’ha cagionata e che, nel momento in cui è stata constatata, ha determinato l’accesso al pronto soccorso per la refertazione.

Sulla base del giudizio di attendibilità della persona offesa deve confermarsi anche la conclusione della “volontarietà” delle lesioni cagionate che, pur inserendosi in un contesto di concitazione, sono riconducibili, per le modalità esecutive, ad una vera e propria aggressione e non frutto del caso o di movimenti bruschi.

Gli elementi acquisiti, sulla scorta di un compendio probatorio multiforme, non sono suscettibili di ridimensionamento neppure attraverso le dichiarazioni dei congiunti dell’imputato che, viceversa, denotano un atteggiamento di condivisione dei valori sui quali l’imputato aveva costruito il rapporto con la C.. Anche per tale aspetto, dunque, il denunciato vizio di motivazione non appare ravvisabile.

3.Non è revocabile in dubbio che l’elemento in apparenza dotato di maggior efficacia dimostrativa sul punto della “inattendibilità” della persona offesa è costituito dalle risultanze della consulenza tecnica di ufficio disposta nel giudizio di separazione per l’affidamento della figlia minore della coppia e che ha determinato l’affidamento della minore ai servizi sociali. Il ricorrente ha richiamato espressamente (e sono riportati nel Ritenuto in fatto) le conclusioni dei consulenti sulla personalità della donna replicando gli argomenti che già con i motivi di appello (cfr. in particolare pag. 5 della sentenza impugnata per l’analitica disamina) erano stai allegati a comprova della complessa e travagliata sequenza della separazione iniziando dalla finalità della donna di “eliminare” la figura paterna dal rapporto della figlia passando attraverso comportamenti diretti a trasmettere alla minore ansie e sentimenti di contrarietà verso il padre; al ritardo della denuncia di maltrattamenti, taciuti in sede di domanda di separazione, ed emersi solo in un momento successivo. Il panorama si completa, nella prospettazione difensiva, con il riferimento alla denuncia della persona offesa verso l’educatrice che seguiva gli incontri padre-figlia e con la pendenza di un procedimento a carico dell’odierna persona offesa per le ostilità poste in essere nel corso degli incontri della minore con l’imputato.

Ritiene il Collegio che correttamente la Corte di appello (pag. 10 della sentenza impugnato) non ha condiviso il giudizio negativo sui connotati di personalità della persona offesa sconfessati dagli elementi di prova acquisiti e dal giudizio di attendibilità intrinseca della dichiarante, fondato sugli elementi evincibili direttamente dall’attività istruttoria svolta nel dibattimento penale, e che il giudice di primo grado – all’esito di un procedimento di acquisizione della prova fondato sul contraddittorio – aveva formulato sulla teste evidenziandone, oltre agli elementi di credibilità estrinseca innanzi illustrati, anche i tratti di attendibilità intrinseci che attengono alla chiarezza, dettaglio, costanza nel tempo della narrazione risultata conforme a quella resa in fase di indagini (non essendo emerse discrepanze in assenza di contestazioni di rilievo); alla genuinità delle dichiarazioni, attestata dalla chiara sofferenza manifestata dalla teste nel corso dell’esame, dai sentimenti di vergogna e paura raccontati che le avevano impedito, per lungo tempo, di allontanarsi dal marito.

Premesso che la consulenza di parte richiamata dalla difesa è culminata nel giudizio di inaffidabilità di entrambi i genitori (quindi anche dell’imputato) con l’affidamento della minore ai servizi sociali e collocazione presso la madre, rileva il Collegio che la Corte di merito ha anche richiamato, a giustificazione dell’atteggiamento difensivo verso i consulenti e protettivo verso la figlia tenuti dalla persona offesa, le risultanze della consulenza di parte della parte civile che ne ha evidenziato la veridicità del racconto comprovata dalle modalità espressive attraverso cui il soggetto narrante recupera tracce mnestiche estremamente dolorose e ha un corrispondente stato emotivo di grave turbamento psichico. Spiega, il consulente della parte civile, come la C. da donna solare, in salute e aperta al futuro, in esito alla convivenza con il marito, sia divenuta persona isolata, abbia perso le autonomie personali riducendosi progressivamente a persona affetta da disturbo post traumatico da stress, con momenti di aperta angoscia e idee suicidali. Una situazione psicologia, causata, conclude il giudice di appello, evidentemente dai maltrattamenti subiti dal marito che costituisce la ragione degli atteggiamenti difensivi tenuti dalla donna verso l’imputato dopo la separazione e nel corso dell’azione civile.

4.Tale conclusione, oggetto, come anticipato, di analitico esame e giustificazione logica completa e asseverata dal richiamo a composite fonti di conoscenza, riporta al centro dell’attenzione i rilievi della difesa sulla ritenuta configurabilità del reato di maltrattamenti che, in particolare nel corso dell’odierna udienza, i difensori del ricorrente hanno messo in dubbio sia con riferimento alla durata dei comportamenti maltrattanti sia per la configurabilità della stessa condotta tipica. L’attenzione delle difese si è concentrata, in particolare, sull’aspetto dell’atteggiamento di “risparmio domestico” in cui sarebbe consistita la condotta maltrattante.

E’ indubitale, a fronte della genericità della fattispecie incriminatrice, la necessità di leggere la condotta di maltrattamenti in termini di tipicità e tassatività poiché è compito del giudice ordinario evitare che – a fronte della descrizione, per certi versi, non particolarmente tipizzata del fatto represso – la norma incriminatrice possa colpire anche fatti che luoghi comuni riconducono alla nozione di maltrattamenti ricomprendendo in tale nozione comportamenti concretamente privi di ogni connotato di pericolosità e di idoneità all’offesa del bene giuridico.

Le osservazioni della difesa non sono, tuttavia, condivisibili.

Non occorrono molte parole per evidenziare che il rapporto matrimoniale impegna ciascuno dei coniugi ad un progetto di vita che riguarda anche le spese e il risparmio.

L’art. 143 c.c. afferma che con il matrimonio i coniugi, ciascuno in relazione alle proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro professionale o casalingo, si impegnano a contribuire ai bisogni della famiglia dopo la precisazione che con il matrimonio il marito e la moglie acquistano gli stessi diritti e assumono i medesimi doveri.

E’ prevedibile e ragionevole che con il matrimonio i coniugi stabiliscano anche uno stile di vita, magari improntato al risparmio, anche rigoroso e non necessitato, ma è indiscutibile che tale stile di vita debba essere condiviso e non possa essere imposto, men che mai in quelle che sono le minimali e quotidiane esigenze di vita in casa e accudimento personale.

Il tema che viene in rilievo non e’, dunque, il risparmio domestico, ma la condivisione o imposizione di tale stile di vita.

La persona offesa, invece, ha riferito vere e propri modalità di imposizione e coartazione del “risparmio domestico” che non solo le state conculcate dall’imputato ma che sono state accompagnate da modalità di controllo del marito sulla moglie che, anche per la loro pervasività, sono sconfinate in un vero e proprio regime e assillo, tale da cagionare alla persona offesa uno stato di ansia e frustrazione.

La sentenza di primo grado e quella di appello contengono un campionario di comportamenti davvero singolare sulle modalità di risparmio domestico alle quali, peraltro in mancanza di necessità impellenti poiché entrambi i coniugi avevano un lavoro e uno stipendio, l’imputato intendeva sottomettere la persona offesa, come la scelta dei negozi in cui fare la spesa (che potevano essere solo quelli notoriamente a costo contenuto); le caratteristiche dei prodotti (che non potevano essere di marca e dovevano essere prodotti in offerta) sia per la casa che per l’abbigliamento, comportamenti accompagnati da modalità di controllo particolarmente occhiute e afflittive, tanto che la C. era costretta a buttare via gli scontrini; a nascondere gli acquisti; a lasciare la spesa a casa dei genitori; a chiedere alle amiche di dire che le avevano regalato qualcosa che aveva acquistato.

Analoghe modalità impositive e costrittive connotavano anche la vita domestica della C. e le più intime e personali cure per la sua persona e la gestione del rapporto con la figlia (la persona offesa ha riferito che era costretta ad utilizzare solo due strappi di carta igienica; a recuperare, per il successivo reimpiego, in una bacinella l’acqua utilizzata per lavarsi il viso o per fare la doccia, che poteva fare solo una volta a settimana; ad utilizzare solo una posata e un piatto per pasto).

I rilievi del marito, poi, non si esaurivano nella mera critica di suoi comportamenti diversi da quelli impostile perché i rilievi alla contravvenzioni delle regole erano accompagnati da espressioni ingiuriose e offensive che erano ben presto trasmodate dalla critica per la mancata attenzione alle spese (l’epiteto sprecona) a giudizi totalizzanti sulla persona per la sua inettitudine che le veniva continuamente rinfacciata (…tu sei nessuna…tu sei un’insicura…il tuo lavoro lo sanno fare tutti), culminati, a fronte delle difficoltà avute durante il parto, nelle affermazioni “taci, le donne che partoriscono perdono la testa, è un dato di fatto, lo dicono le statistiche e lo dice la storia die popoli, e accompagnati da aggressioni fisiche fra le quali, oltre a spinte e strattonamenti, quella di “tirarle la faccia”, prendendola per le guance e urlandole contro.

Emblematica (vedi sul punto la sentenza di primo grado, a pag. 5) della vera e propria condizione di sudditanza imposta alla coniuge la circostanza in cui, avendo la persona offesa gettato un tovagliolino di carta, l’imputato l’aveva presa, portata davanti all’immondizia e prelevato il tovagliolino stringendola le aveva detto “questo, vedi, si può utilizzare ancora” e ciò detto lo aveva aperto e aggiunto “questo si può tagliare addirittura in dieci pezzi”, ingiuriandola. O, ancora, la circostanza, verificatasi nel mese di settembre 2015, quando aveva tentato di costringerla a mangiare gli avanzi di pappa della bambina dicendole che avrebbe dovuto inginocchiarsi e mangiare la pappa avanzata, il tutto accompagnato da ingiurie.

Risulta evidente, dall’univoco quadro descritto nelle sentenze di merito che la persona offesa era stata sottoposta ad un risalente (la coppia si era conosciuta nel 2008; i due avevano iniziato a convivere nei primi mesi del 2009 e si erano poi sposati nel 2013 e solo nel mese di settembre 2015 la C. aveva presentato istanza di separazione) ed ingravescente sistema di vita contraddistinto da condotte di denigrazione, mortificazioni, ingiurie – oltre al clima di isolamento sociale alla quale l’aveva progressivamente ridotta -, sistema di vita che il ricorso, appiattito sulle condizioni di risparmio domestico, non ha neppure preso in considerazione omettendo qualsiasi confronto con le modalità esecutive e con il regime di controlli che l’imputato aveva attuato nel corso degli anni per “conformare” ai propri desiderata i comportamenti della moglie.

Lineare e logica e’, dunque, la motivazione con la quale i giudici di appello hanno confermato la solidità del quadro probatorio asseverante l’abitualità delle condotte maltrattanti dell’imputato che si è risolta in comportamenti impositivi e inutilmente vessatori e mortificanti, protrattisi per anni e funzionali alla costruzione di un sistema di vita domestico, inizialmente tollerato dalla persona offesa – che ha precisato di avere già scoperto tali atteggiamenti durante la convivenza ma che aveva ritenuto potessero attenuarsi nel tempo – e che, invece, con il matrimonio e la nascita della bambina si erano aggravati tanto che avevano finito, e questo le aveva dato la spinta per la separazione, con il riguardare anche il rapporto della C. con la figlia che, secondo il ricorrente, non doveva mostrare verso la bambina comportamenti e parole troppo dolci e affettuosi (non poteva, ad es. chiamarla amore) che l’avrebbero resa insicura chiamandola invece, cozza o vongola.

Nel caso in esame, correttamente i comportamenti dell’imputato, riguardati sia sotto l’aspetto oggettivo che soggettivo, sono stati sussunti nel reato di maltrattamenti perché le condotte seriali tenute denotano a chiare lettere sia l’abitualità che un comportamento impositivo del proprio volere realizzato sia con atti o parole che offendono il decoro e la dignità della persona (le descritte ingiurie e contumelie rivolte alla persona offesa ma anche i commenti tesi a sminuirla come donna, come madre e come medico), aggressivi (si pensi allo scuotimento, allo strattonamento, al tirarle le guance urlando), e attraverso un sistema di vere e proprie proibizioni capaci di produrre sensazioni dolorose ancorché tali da non lasciare traccia e che si sono risolte in un sistema di sofferenze lesivo del patrimonio morale del soggetto passivo e che hanno reso abitualmente dolorose le relazioni familiari determinando uno stato di avvilimento e frustrazione.

5.Segue al rigetto del ricorso la condanna dell’imputato al pagamento delle spese processuali e alla rifusione delle spese sostenute dalla parte civile nel presente giudizio che si liquidano, in linea con le previsioni di cui al D.M. n. 55 DEL 2014 come da dispositivo.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Condanna, inoltre, l’imputato alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile C.C. che liquida in complessivi Euro 3510, oltre accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 20 ottobre 2022.

Allegati

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