RITENUTO IN FATTO
- Con l’ordinanza impugnata, il Tribunale di L’Aquila ha respinto l’istanza di riesame proposta da D.G.E. avverso quella del 14 dicembre 2021 con cui il G.i.p. dello stesso Tribunale ha disposto nei suoi confronti il divieto di dimora nel territorio di Campotosto in relazione all’accusa provvisoria di abuso di ufficio (art. 323 c.p.), commesso in qualità di Assessore di quel Comune.
In particolare, si contesta all’indagato di avere, nella citata qualità ed in concorso con l’allora Sindaco C.L., assunto P.A. come dipendente comunale con la qualifica di istruttore direttivo amministrativo (categoria D1) in violazione:
– del D.Lgs. 8 aprile 2013, n. 39, art. 20, commi 1, 4 e 5, in mancanza della dichiarazione resa dall’assunto, condannato a sua volta con sentenza non irrevocabile per il delitto di abuso di ufficio, di insussistenza di cause di inconferibilità dell’incarico ed anzi; nella piena consapevolezza del mendacio contenuto in precedenti dichiarazioni;
– del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 35-bis, in relazione all’assegnazione dello incarico a soggetto notoriamente già condannato per quel titolo di reato.
- Avverso l’ordinanza ha proposto ricorso per cassazione l’indagato che deduce quattro motivi di censura, che vengono di seguito sinteticamente esposti secondo le previsioni dell’art. 173 disp. att. c.p.p., comma 1.
2.1. Violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 39 del 2013, art. 20 e il D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 35-bis in relazione all’art. 323 c.p. e art. 273 c.p.p..
Il Tribunale ha fatto cattiva applicazione delle suddette previsioni di legge per due ordini di ragioni, il primo perché quella di cui al D.Lgs. n. 39 del 2013, art. 20, non riguarda l’instaurazione di qualsiasi rapporto di lavoro con la pubblica amministrazione ma solo gli incarichi, tassativamente previsti dall’art. 1 del decreto stesso, di carattere dirigenziale e di responsabilità amministrativa di vertice; il secondo, in quanto ai sensi dell’art. 35-bis non tutti gli incarichi sono preclusi dalla precedente condanna per quel titolo di reato, ma solo quelli che riguardino concorsi e selezioni del personale ovvero gare pubbliche o comunque affidamenti per l’acquisizione di beni, servizi e forniture.
2.2. Violazione e falsa applicazione dell’art. 309, art. 292, comma 2, lett. c) e 1 bis) in relazione all’art. 273 c.p.p. e vizi congiunti di motivazione sul punto, con riferimento all’errata interpretazione delle dichiarazioni rese dalla sig.ra M.F., dipendente del Comune di Campotosto, circa le effettive mansioni svolte dal P. nell’ambito dell’amministrazione locale ed il mancato svolgimento di attività implicanti la gestione di risorse finanziarie.
2.3. Violazione e falsa applicazione dell’art. 274 c.p.p. e vizio di motivazione apparente in ordine alla ritenuta sussistenza di esigenze cautelari.
2.4. Violazione e falsa applicazione dell’art. 275, in relazione agli artt. 285 e 289 c.p.p., nonché D.Lgs. 31 dicembre 2012, n. 235, art. 11, comma 2 e vizio di motivazione sul punto.
- Il procedimento è stato trattato in camera di consiglio con le forme e le modalità di cui al D.L. 28 ottobre 2020, n. 137, art. 23, commi 8 e 9, convertito nella L. 18 dicembre 2020, n. 176, i cui effetti sono stati prorogati dal D.L. 23 luglio 2021, n. 105, art. 7, convertito nella L. 16 settembre 2021, n. 126 ed ulteriormente dal D.L. 30 dicembre 2021, n. 228, art. 16, convertito nella L. 25 febbraio 2022, n. 15.
CONSIDERATO IN DIRITTO
- Il ricorso è manifestamente infondato e va dichiarato inammissibile.
- Palesemente infondato è il primo motivo di doglianza.
Il D.Lgs. 8 aprile 2001, n. 165, art. 35-bis rubricato come “Prevenzione del fenomeno della corruzione nella formazione di commissioni e nelle assegnazioni agli uffici” recita che “Coloro che sono stati condannati, anche con sentenza non passata in giudicato, per i reati previsti nel capo I del titolo H del libro secondo del Codice penale: a) non possono fare parte, anche con compiti di segreteria, di commissioni per l’accesso o la selezione a pubblici impieghi; b) non possono essere assegnati, anche con funzioni direttive, agli uffici preposti alla gestione delle risorse finanziarie, all’acquisizione di beni, servizi e forniture, nonché alla concessione o all’erogazione di sovvenzioni, contributi, sussidi, ausili finanziari o attribuzioni di vantaggi economici a soggetti pubblici e privati; c) non possono fare parte delle commissioni per la scelta del contraente per l’affidamento di lavori, forniture e servizi, per la concessione o l’erogazione di sovvenzioni, contributi, sussidi, ausili finanziari nonché per l’attribuzione di vantaggi economici di qualunque genere”.
La disposizione prevista al comma 1 integra le leggi e regolamenti che disciplinano la formazione di commissioni e la nomina dei relativi segretari.
Nella vicenda in esame il provvedimento impugnato dà conto, in maniera incontestata, che il coindagato P.A. risultava essere stato condannato per il delitto di abuso d’ufficio con sentenza n. 423 emessa dal Tribunale di Rieti il 25 giugno 2019, allorquando venne per la seconda volta assunto presso il Comune di Campotosto (Aq) con delibera a firma dell’odierno ricorrente recante data del 29 aprile 2021.
Date le ridottissime dimensioni dell’apparato amministrativo del Comune di Campotosto, l’incarico conferitogli di istruttore direttivo amministrativo D1 comportava in realtà che egli svolgesse attività amministrativa di coordinamento tra i vari uffici e che, in forza dell’innegabile esperienza lavorativa acquisita, contribuisse all’adozione di pressoché tutte le delibere comunali, occupandosi, altresì, della gestione dei rapporti dell’ente comunale con gli enti esterni.
Inevitabile, dunque, la collaborazione con gli uffici deputati a gestire le pur limitate risorse finanziarie dell’ente comunale e corretta appare la lettura che della lett. b) della citata previsione normativa ha fornito il Tribunale.
Non poter essere assegnati “anche con funzioni direttive” ad uffici preposti alla gestione di risorse finanziarie, vuol dire letteralmente che a prescindere dalla circostanza del possesso o meno di funzioni direttive (che l’incarico attribuito al P. in effetti non prevedeva), il soggetto incaricato non può essere assegnato a ruoli anche di mera collaborazione con quegli uffici, sul rilievo che essendo stato già condannato per avere abusato del pubblico ufficio in precedenza ricoperto, viene dalla legge reputato inidoneo a ricoprire un nuovo incarico, comunque denominato, implicante la gestione di pubblico denaro.
La difesa del ricorrente omette, invece, volutamente di considerare tale profilo, concentrandosi esclusivamente sul divieto di assegnazione ad uffici deputati all’espletamento di concorsi e selezioni del personale ovvero gare pubbliche o comunque affidamenti per l’acquisizione di beni, servizi e forniture, ma da un lato l’assunto risulta, per quanto ora detto, palesemente infondato e dall’altro il Tribunale ha del pari evidenziato, anche in questo caso in maniera incontestata, che il P. già nel 2020 era stato nominato Presidente di una commissione di gara, versando, perciò, quanto meno in una delle situazioni contemplate dalle lett. a) e c) del citato D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 35-bis.
L’altro termine della doglianza riguarda, inoltre, la ritenuta violazione da parte del ricorrente del D.Lgs. n. 39 del 2013, art. 20, sotto forma di omesso avvio del procedimento disciplinare imposto dalle dichiarazioni mendaci rese dal P. in data 29 maggio e 30 giugno del 2020 di essere esente da condanne penali rilevanti, nonostante la ricordata pronuncia del Tribunale di Rieti.
Anche in questo caso la censura fa perno sul dedotto mancato conferimento al parte del P. di una qualifica dirigenziale, situazione che, nella prospettiva difensiva, lo avrebbe esentato dall’obbligo di dichiarazione ai sensi della citata previsione normativa.
Il Tribunale ha per contro ravvisato la violazione di legge, osservando che l’art. 20 esige la dichiarazione sulle cause di inconferibilità e punisce con la stessa le dichiarazioni mendaci per qualsivoglia incarico previsto dal D.Lgs. n. 39 del 2013, individuando nel cbn. disp. dell’art. 1, comma 2, lett. i) e 2, comma 2 il parametro normativo violato riguardo agli incarichi amministrativi di vertice, nel cui ambito ha ritenuto di ricomprendere, con il supporto di una delibera dell’ANAC (n. 818 del 2019), anche quelli di “raccordo tra l’organo di indirizzo politico e gli organi dirigenziali preposti alla concreta gestione amministrativa”, situazione perfettamente aderente al compito concretamente affidato al P. di fungere in pratica da supervisore dell’esiguo apparato amministrativo del Comune abruzzese.
Alle condivisibili considerazioni svolte dal Tribunale, il Collegio aggiunge quella che, oltre alla lett. i) del citato art. 1, la lett. k) contempla, anche, gli “incarichi dirigenziali esterni”, nel cui novero ricomprende, tra gli altri, quelli di funzione dirigenziale nell’ambito degli uffici di diretta collaborazione, conferiti a soggetti non muniti della qualifica di dirigente pubblico, situazione che, sempre a causa delle esigue dimensioni dell’apparato amministrativo comunale, si attagliava pienamente al P., collocato di fatto in posizione di diretta collaborazione con l’organo di vertice dell’ente locale.
Tanto, poi, ciò corrisponde alla realtà della situazione concretamente determinatasi che il Tribunale ricorda come, l’odierno ricorrente – subentrato nel ruolo di Sindaco al coindagato C. e con questi alternatosi nel tempo alla carica di primo cittadino di Campotosto – avesse già una volta ratificato tutte le delibere comportanti l’esercizio di poteri di spesa a firma del P., giusta determina del 19 marzo 2021 (pag. 4 ordinanza).
Deve essere, pertanto, ribadita la totale inconsistenza delle censura difensive sul punto e la correttezza della statuizione del Tribunale secondo cui l’obbligo di dichiarazione di precedente condanna e la preclusione da questa derivante non riguardano solo gli incarichi dirigenziali, ma tutti quelli che comportino una diretta collaborazione con figure dirigenziali e comunque la gestione di risorse finanziarie, aspetto che, vale ripeterlo, la difesa deliberatamente ignora nel descrivere la figura professionale del ricorrente (pag. 7 ricorso).
- Sgomberato il campo da una presunta violazione da parte del Tribunale dei parametri normativi di riferimento, il secondo ed il terzo motivo di ricorso vanno dichiarati inammissibili o in quanto afferenti in maniera diretta al merito della accusa provvisoria o perché palesemente infondati.
Oggetto del secondo motivo di ricorso è la dedotta erronea interpretazione che il Tribunale avrebbe operato delle dichiarazioni rese dalla funzionaria del Comune di Campotosto, M.F., in ordine alle effettive mansioni svolte dal ricorrente nell’ambito della compagine amministrativa comunale.
Il Tribunale ha affrontato in maniera specifica il tema a pag. 4 dell’ordinanza, rilevando come dalle dichiarazioni rese dalla M., il P. avesse svolto, anche durante il secondo incarico (quello, cioè, oggi incriminato), l’attività in precedenza condotta di contribuire all’adozione delle delibere di impegno del Comune verso l’esterno, adottando vari provvedimenti, por la maggior parte implicanti impegni di spesa, che avevano, infatti, reso necessaria la successiva ratifica da parte del ricorrente (v. supra).
Trattasi di considerazioni pertinenti ai fatti del procedimento ed esposte in maniera congrua che non meritano censure di ordine logico, il solo che possa autorizzare in questa sede un intervento della Corte di cassazione.
Quanto al terzo motivo di ricorso, riferito alla dedotta insussistenza di esigenze cautelari, esso concerne un aspetto della vicenda cui l’ordinanza impugnata dedica oltre tre pagine (dalla 6 alla 9) della motivazione.
Il Tribunale ha, invero, dato conto in maniera congrua delle ragioni che lo inducono a paventare un altissimo pericolo di recidiva nel reato – il ricorrente e’, come già precisato, l’attuale Sindaco del Comune di Campotosto – anche alla luce del fatto che dopo un primo interrogatorio reso al G.i.p., in cui aveva depositato il decreto sindacale n. 2 del 4 febbraio 2021 con cui il predecessore aveva revocato al P. l’incarico finallora ricoperto, il successivo 26 marzo 2021 l’allora Sindaco C. aveva formulato nuova richiesta al Comune di Longone Sabino (Ri) con l’intento di assumere nuovamente il P., con incarico cd. a scavalco, ciò avvenendo il giorno successivo alla notifica al ricorrente dell’avviso ex art. 415-bis c.p.p., seguito poi dall’effettiva assunzione, a firma del D.G., in data 29 aprile 2021.
Ad avviso non solo del Tribunale ma anche di questo Collegio, la vicenda ora illustrata è di per sé sufficiente a dimostrare la pervicace volontà del ricorrente di mantenere all’interno della compagine comunale il P., per ragioni non meglio chiarite ma comunque in palese spregio alle regole di assunzione dei dipendenti comunali, venendo in tal modo precluso l’accesso all’amministrazione di soggetti estranei tramite le ordinarie modalità di selezione del personale amministrativo.
Le censure formulate dalla difesa, a prescindere da quella del tutto destituita di fondamento di motivazione apparente, finiscono, pertanto, per attingere il merito delle valutazioni operate dal Tribunale, senza configurare vizi di legge ovvero di motivazione suscettibili di disarticolarne il significato, del tutto chiaro ed esposto in maniera immune da critiche di ordine logico – argomentativo.
- Manifestamente infondato e’, infine, anche il quarto motivo di ricorso, concernente la pretesa illegittimità della misura coercitiva in atto.
Quella in concreto applicata nei confronti del ricorrente è il divieto di dimora di cui all’art. 283 c.p.p., ma la tesi difensiva è che, per la sua struttura e per il suo concreto funzionamento, da essa conseguono in maniera surrettizia effetti analoghi alla misura interdittiva di cui all’art. 289 c.p.p., che al comma 3, ne esclude l’applicazione agli uffici elettivi ricoperti per diretta elezione popolare, come sarebbe nella fattispecie per la carica di Sindaco attualmente ricoperta dal ricorrente.
La difesa, tuttavia, omette del tutto di considerare la giurisprudenza di questa Corte di legittimità formatasi sul tema.
E’ stato, infatti, già affermato il principio che è legittima l’applicazione di una misura cautelare coercitiva a persona che ricopre un ufficio elettivo per diretta investitura popolare, nonostante il divieto previsto dall’art. 289 c.p.p., comma 3, di applicare a tale soggetto la misura interdittiva della sospensione dall’esercizio di un pubblico ufficio o servizio; tale disposizione, infatti, non può essere interpretata in termini estensivi, pena la violazione del principio di uguaglianza (Sez. 6, n. 20405 del 15/04/2014, Scialfa, Rv. 259684 in fattispecie di ordinanza applicativa degli arresti domiciliari nei confronti di un consigliere regionale).
E in maniera ancor più specifica rispetto al caso in esame, che è legittima l’applicazione a persona che ricopre un ufficio elettivo per diretta investitura popolare (nella specie, sindaco di un comune) della misura cautelare del divieto di dimora, anche se la stessa produce di fatto effetti assimilabili alla misura interdittiva della sospensione dall’esercizio di un pubblico ufficio o servizio, vietata dall’art. 289 c.p.p., comma 3, perché questa disposizione non può essere interpretata in termini estensivi, pena la violazione del principio di uguaglianza (Sez. 6, n. 44896 del 22/10/2013, Franceschi, Rv. 257272).
Lo stesso ricorrente ricorda, inoltre, che il D.Lgs. n. 235 del 2012, art. 11, comma 2, prevede che l’amministratore locale che sia risultato destinatario di una misura custodiale ovvero del divieto di dimora, sia sospeso dalla carica, per il tempo di durata della cautela, anche se dal contenuto del dettato normativo trae argomenti di non immediata comprensione quanto all’incidenza sulla portata applicativa dell’art. 289 c.p.p., comma 3, (v. pag. 31 ricorso).
Alla luce delle predette coordinate normative ed ermeneutiche appare, dunque, manifestamente infondata la tesi sostenuta in ricorso secondo cui, nell’ipotesi in cui il destinatario del provvedimento cautelare sia persona investita di un ufficio elettivo, effettuata la valutazione di cui all’art. 275 c.p.p., qualora la misura adeguata e proporzionata risulti quella prevista dall’art. 289 c.p.p. o altra equipollente il giudice dovrà arrestarsi dinanzi al divieto normativo imposto dal comma 3 di tale previsione; ove viceversa, la misura adeguata risulti altra e più grave, anche di natura coercitiva, il giudice potrà certamente applicarla, con le dovute conseguenze circa la sospensione temporanea della funzione amministrativa.
La prospettazione può essere altrimenti sintetizzata nel senso che ove il soggetto rivestito di carica elettiva pubblica si dimostri meritevole della custodia cautelare o degli arresti domiciliarti, questi andranno certamente applicati, diversamente ogni misura di fatto assimilabile all’interdizione dalle funzioni risultando preclusa, dal che traspare con evidenza la lettura incostituzionale, per violazione del principio di eguaglianza dinanzi alla legge (art. 3 Cost.), che in tal modo si pretende di operare del sistema delle misure coercitive personali a esclusivo beneficio dei soggetti investiti di cariche elettive, da cui la manifesta infondatezza della censura.
- Alla dichiarazione d’inammissibilità dell’impugnazione segue, come per legge, la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento di una somma in favore della Cassa delle Ammende, che stimasi equo quantificare in Euro tremila.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle Ammende.
Così deciso in Roma, il 24 marzo 2022.
Depositato in Cancelleria il 26 aprile 2022
