Massima

In materia di distinzione tra il reato di estorsione (art. 629 cod. pen.) e quello di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza o minaccia alla persona (art. 393 cod. pen.), l’elemento discriminante risiede nell’elemento psicologico: nell’esercizio arbitrario, l’agente persegue il conseguimento di un profitto nella ragionevole convinzione di esercitare un suo diritto, nell’estorsione, invece, l’agente intende conseguire un profitto nella piena consapevolezza della sua ingiustizia, agendo contra ius.
Assume decisivo rilievo l’esistenza o meno di una pretesa in astratto ragionevolmente suscettibile di essere giudizialmente tutelata.

Supporto alla lettura

ESTORSIONE

L’ estorsione incarna una delle figure delittuose contro il patrimonio ed è prevista dall’ ordinamento italiano all’ art.629 c.p. , che punisce ‘Chiunque, mediante violenza o minaccia, costringendo taluno a fare o ad omettere qualche cosa, procura a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno, è punito con la reclusione da cinque a dieci anni e con la multa da euro 1.000 a euro 4.000’. 

Sono previste anche specifiche circostanze aggravanti, come l’uso delle armi o di mezzi idonei ad impedire la pubblica o privata difesa, nonché l’aggravante per avere commesso il fatto da parte di persona che fa parte di un’associazione di stampo mafioso, da persona travisata o da più persone. L’analisi delle circostanze attenuanti, invece, richiede un’indagine concreta sulla personalità dell’agente e sulle modalità di esecuzione del fatto.

Quanto al rapporto con il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza o minaccia alle persone, l’orientamento prevalente nella giurisprudenza di legittimità e la dottrina unanime distinguono i delitti di cui agli artt. 393 e 629 c.p. essenzialmente in relazione all’elemento psicologico: nel primo, l’agente perseguirebbe un profitto nella convinzione ragionevole, anche se in ipotesi infondata, di esercitare un suo diritto giudizialmente azionabile; nell’estorsione, invece, l’agente perseguirebbe un profitto nella consapevolezza di non averne diritto.

Ambito oggettivo di applicazione

Svolgimento del processo

1. In via preliminare, va evidenziato che la causa è stata trattata in camera di consiglio senza la presenza delle parti, non essendo pervenuta nessuna istanza di trattazione orale, per mero errore commesso dal ricorrente in sede di invio della stessa, per come riconosciuto dallo stesso difensore.

2. Tanto evidenziato, A.A., per il tramite del proprio procuratore speciale, impugna l’ordinanza in data 20/03/2025 del Tribunale di Palermo che, in sede di riesame, ha confermato l’ordinanza in data 07/02/2025 del G.i.p. del Tribunale di Palermo, che ha disposto l’applicazione della misura della custodia cautelare in carcere in relazione al delitto di estorsione aggravata, anche ai sensi dell’art. 416-bis.1 cod. pen.

Deduce:

2. Violazione di legge e vizio di motivazione in punto di sussistenza di gravi indizi di colpevolezza e di qualificazione giuridica dei fatti.

Sotto il profilo dei gravi indizi di colpevolezza si assume che la misura cautelare è stata adottata nei confronti di A.A. sulla base di mere congetture, in assenza di elementi dimostrativi condotte violente o minacciose perpetrate da A.A. nei confronti di C.C., per la restituzione delle somme pretese da B.B., genero dello stesso A.A.

Rimarca che, in ogni caso, la pretesa di vedersi restituire delle somme di denaro è correlata a un contenzioso di natura civilistica, visto che C.C. e B.B. avevano concordemente deciso di rescindere il contratto con la restituzione della caparra, per come risulta dalla scrittura privata, sin dall’11.01.2021.

Caparra, in effetti, restituita dopo che C.C. vendeva a terzi la villetta oggetto del preliminare, per come emerge dall’intercettazione in data 04/10/2021 (progr. 10193).

Evidenza che il ruolo di A.A. viene riconosciuto come marginale dallo stesso Tribunale, così mancando ogni possibilità di attribuirgli una condotta estorsiva, là dove la sua presenza sui luoghi dimostra soltanto il suo interessamento privato alla vicenda.

Aggiunge che la pretesa economica di B.B. era legittima e azionabile in giudizio, così potendosi configurare al più il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, dovendosi fare riferimento alla scrittura privata datata 11/01/2021, con la quale le parti avevano concordato che C.C. avrebbe restituito a B.B. le somme ricevute a titolo di caparra.

Secondo il ricorrente va esclusa anche l’aggravante di cui all’art. 416-bis.1 cod. pen. nei confronti di A.A.

A tale riguardo si osserva che l’aggravante della modalità mafiosa viene attribuita ad A.A. sulla base del contenuto di una conversazione intercettata che non è riferibile all’odierno ricorrente, attesa la natura soggettiva dell’aggravante.

3. Inosservanza di norma processuale e vizio di motivazione in relazione alla sussistenza di esigenze cautelari e alla scelta della misura.

Si assume che non sussistono esigenze cautelari perché manca il requisito dell’attualità, visto che i fatti risalgono al 2022 e che la somma è stata restituita a B.B., così mancando l’occasione per reiterare il reato.

Si rimarca la portata eccessivamente afflittiva della misura carceraria, lesiva del principio di proporzionalità.

Motivi della decisione

1. Il ricorso è infondato.

1.1. La questione principale sollevata con il ricorso è quella della qualificazione giuridica del fatto come estorsione o come esercizio arbitrario delle proprie ragioni.

Per sciogliere la questione sarà necessario ricostruire brevemente i fatti, così come riassunti nell’ordinanza impugnata e in parte narrati da C.C., vittima del reato.

La vicenda delittuosa trova origine in un rapporto negoziale intercorso tra C.C. e B.B., i quali stipulavano un contratto preliminare di compravendita con cui i due si impegnavano, rispettivamente, a vendere e ad acquistare una villetta. In occasione del perfezionamento di tale accordo negoziale, B.B. versava a C.C. una somma pari a 36.000,00 Euro (circa 40.000,00 Euro dirà lo stesso C.C.) a titolo di caparra.

Al contratto preliminare non seguiva la stipula del contratto definitivo e C.C. tratteneva per sé la somma ricevuta.

In relazione a tale fase della vicenda, il Tribunale riporta le dichiarazioni di C.C., che così vengono riassunte alla pagina 12 dell’ordinanza impugnata: “In data 31.08.2022 veniva escusso a sommarie informazioni C.C., il quale, confermava di avere avuto un contenzioso insorto nel luglio 2020, con B.B. per un atto preliminare relativo alla vendita di una villetta, senza poi arrivare alla stipula del contratto definitivo, ricevendo una caparra di circa 40.000,00 euro. Il C.C. spiegava che, dopo sei/otto mesi dalla conclusione del preliminare, il B.B., non avendo ottenuto il mutuo dalla banca, lo aveva autorizzato a vendere la villetta ad altro acquirente, pretendendo tuttavia la restituzione della caparra nel momento in cui avesse venduto la villetta”.

La somma non veniva restituita e B.B. si rivolgeva all’odierno ricorrente e – sostanzialmente – al clan (Omissis) per riscuotere la somma.

L’esito negativo dell’attività di recupero della somma attuata da D.D., A.A. e F.F. (questi ultimi, rispettivamente suocero e cognato di B.B.), tutti appartenenti al clan (Omissis), inducevano gli stessi a rivolgersi a E.E., appartenente al clan (Omissis), egemone sul territorio di residenza di C.C..

E.E., insieme ad A.A., si attivava effettivamente per il recupero della somma di denaro, esercitando ripetute violenze e minacce in danno di C.C., al quale chiedeva – oltre alla somma pretesa da B.B. – anche un’ulteriore somma, non precisata, da destinare ai detenuti.

Infine, la villetta veniva effettivamente venduta da C.C., che corrispondeva a B.B. la somma da lui pretesa, in data 04/10/2021 (per come risulta dalla conversazione intercettata al progr. 10193).

1.2. Il Tribunale ha ritenuto configurabile il delitto di estorsione osservando che la richiesta di restituzione della somma di denaro era accompagnata da un interesse proprio di E.E., costituito dalla necessità di ribadire il controllo sul territorio e dalla richiesta di una somma ulteriore rispetto a quella pretesa da B.B., destinata ai detenuti del clan.

2. Così ricostruiti i fatti, per verificare la correttezza della qualificazione giuridica ritenuta dal Tribunale, occorre fare riferimento ai principi dettati dalle Sezioni Unite in tema di distinzione tra il reato di estorsione e quello di esercizio arbitrario delle proprie ragioni (Sez. U, n. 29541 del 16/07/2020, Filardo).

2.1. In tale pronuncia è stato precisato che i delitti di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza o minaccia alla persona e di estorsione, pur caratterizzati da una materialità non esattamente sovrapponibile, si distinguono essenzialmente in relazione all’elemento psicologico: nel primo, l’agente persegue il conseguimento di un profitto nella convinzione non meramente astratta ed arbitraria, ma ragionevole, anche se in concreto infondata, di esercitare un suo diritto, ovvero di soddisfare personalmente una pretesa che potrebbe formare oggetto di azione giudiziaria; nel secondo, invece, l’agente intende conseguire un profitto nella piena consapevolezza della sua ingiustizia.

Con l’ulteriore precisazione che “ai fini dell’integrazione del delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, la pretesa arbitrariamente coltivata dall’agente deve, peraltro, corrispondere esattamente all’oggetto della tutela apprestata in concreto dall’ordinamento giuridico, e non risultare in qualsiasi modo più ampia, atteso che ciò che caratterizza il reato in questione è la sostituzione, operata dall’agente, dello strumento di tutela pubblico con quello privato, e l’agente deve, quindi, essere animato dal fine di esercitare un diritto con la coscienza che l’oggetto della pretesa gli possa competere giuridicamente (Sez. 5, n. 2819 del 24/11/2014, dep. 2015, Angelotti, Rv. 263589; Sez. 2, n. 46288 del 28/06/2016, Musa, Rv. 268362). Pur non richiedendosi che si tratti di pretesa fondata, ovvero che il diritto oggetto dell’illegittima tutela privata sia realmente esistente, deve, peraltro, trattarsi di una pretesa non del tutto arbitraria, ovvero del tutto sfornita di una possibile base legale (Sez. 5, n. 23923 del 16/05/2014, Demattè, Rv. 260584; Sez. 2, n. 46288 del 28/06/2016, Musa, Rv. 268362), poiché il soggetto attivo deve agire nella ragionevole opinione della legittimità della sua pretesa, ovvero ad autotutela di un suo diritto in ipotesi suscettibile di costituire oggetto di una contestazione giudiziale avente, in astratto, apprezzabili possibilità di successo (Sez. 2, n. 24478 del 08/05/2017, Salute, Rv. 269967)”.

Ai fini della distinzione tra i reati di cui agli articoli 393 e 629 cod. pen. assume, pertanto, decisivo rilievo l’esistenza o meno di una pretesa in astratto ragionevolmente suscettibile di essere giudizialmente tutelata: nel primo, il soggetto agisce con la coscienza e la volontà di attuare un proprio diritto, a nulla rilevando che il diritto stesso sussista o non sussista, purché l’agente, ragionevolmente, ritenga di poterlo legittimamente realizzare; nell’estorsione, invece, l’agente non si rappresenta, quale impulso del suo operare, alcuna facoltà di agire in astratto legittima, ma tende all’ottenimento dell’evento di profitto mosso dal solo fine di compiere un atto che sa essere contra ius, perché privo di giuridica legittimazione, per conseguire un profitto che sa non spettargli.

2.2. Le Sezioni Unite hanno altresì osservato e precisato che “un orientamento ha ritenuto che integra sempre gli estremi dell’estorsione aggravata dal c.d. “metodo mafioso” (già art. 7 D.L. n. 152 del 1991, conv. L. n. 203 del 1991, ora art. 416-bis.1 cod. pen.), e non dell’esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza o minaccia alle persone ugualmente aggravato, la condotta consistente in minacce di morte o gravi lesioni personali formulate dal presunto creditore e da un terzo estraneo al rapporto obbligatorio in danno della persona offesa, estrinsecatesi nell’evocazione dell’appartenenza di entrambi ad una organizzazione malavitosa di tipo mafioso, per l’estrema incisività della forza intimidatoria esercitata, costituente indice del fine di procurarsi un profitto ingiusto, esorbitante rispetto al fine di recupero di somme di denaro sulla base di un preteso diritto (Sez. 2, n. 34147 del 30/04/2015, P.G. in proc. Agostino, Rv. 264628). L’orientamento non può essere condiviso, poiché la formulazione dell’art. 416-bis.1 cod. pen. non consente di affermare che la circostanza aggravante in oggetto sia assolutamente incompatibile con il reato di cui all’art. 393 cod. pen.; residua al più la possibilità di valorizzare l’impiego del c.d. “metodo mafioso”, unitamente ad altri elementi, quale elemento sintomatico del dolo di estorsione”.

2.3. In riferimento all’atteggiarsi del concorso di persone in relazione al reato di ragion fattasi, nella sentenza Filardo è stato osservato che “la giurisprudenza di questa Corte ha tradizionalmente affermato che, per configurare il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni in luogo di quello di estorsione, nel caso in cui la condotta tipica sia posta in essere da un terzo a tutela di un diritto altrui, occorre che il terzo abbia commesso il fatto al solo fine di esercitare il preteso diritto per conto del suo effettivo titolare, dal quale abbia ricevuto incarico di attivarsi, e non perché spinto anche da un fine di profitto proprio, ravvisabile ad esempio nella promessa o nel conseguimento di un compenso per sé, anche se di natura non patrimoniale (Sez. 2, n. 11282 del 2/10/1985, Conforti, Rv. 171209); qualora il terzo agente – seppure inizialmente inserito in un rapporto inquadrabile ex art. 110 cod. pen. nella previsione dell’art. 393 stesso codice – inizi ad agire in piena autonomia per il perseguimento dei propri interessi, deve ritenersi che tale condotta integri gli estremi del concorso nel reato di estorsione ex artt. 110 e 629 cod. pen. (Sez. 2, n. 8836 del 05/02/1991, Paiano, Rv. 188123; Sez. 2, n. 4681 del 21/03/1997, Russo, Rv. 207595; Sez. 5, n. 29015 del 12/07/2002, Aligi, Rv. 222292; Sez. 5, n. 22003 del 07/03/2013, Accarino, Rv. 255651).

Questo orientamento va condiviso e ribadito.

Due sono i punti di partenza di questa ulteriore disamina, necessariamente costituiti dai principi in precedenza affermati:

– il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni ha natura di reato proprio non esclusivo.

– il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con minaccia o violenza alle persone e quello di estorsione si differenziano tra loro in relazione all’elemento psicologico.

Di conseguenza, se, ai fini della distinzione tra i reati de quibus, alla partecipazione al reato di terzi concorrenti non creditori (abbiano, o meno, posto in essere la condotta tipica) non è possibile attribuire rilievo decisivo, risulta, al contrario, determinante il fatto che i terzi eventualmente concorrenti ad adiuvandum del preteso creditore abbiano, o meno, perseguito (anche o soltanto) un interesse proprio.

Ove ciò sia accaduto, i terzi (ed il creditore) risponderanno di concorso in estorsione; in caso contrario, ove cioè i concorrenti nel reato abbiano perseguito proprio e soltanto l’interesse del creditore, nei limiti in cui esso sarebbe stato in astratto giudizialmente tutelabile, tutti risponderanno di concorso in esercizio arbitrario delle proprie ragioni.

Non appare inopportuno precisare che, di conseguenza, nei casi in cui ricorra la circostanza aggravante della c.d. “finalità mafiosa” (art. 416-bis.1 cod. pen.: essere “i delitti punibili con pena diversa dall’ergastolo commessi… al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste” dall’art. 416-bis cod. pen.), la finalizzazione della condotta alla soddisfazione di un interesse ulteriore (anche se di per sé di natura non patrimoniale) rispetto a quello di ottenere la mera soddisfazione del diritto arbitrariamente azionato, comporta la sussumibilità della fattispecie sempre e comunque nella sfera di tipicità dell’art. 629 cod. pen., con il concorso dello stesso creditore, per avere agevolato il perseguimento (anche o soltanto) di una finalità (anche soltanto lato sensu) di profitto di terzi.

D’altro canto, questa Corte ha già chiarito che non è configurabile il reato di ragion fattasi, bensì quello di estorsione (in concorso con quello di partecipazione ad associazione per delinquere), allorché si sia in presenza di una organizzazione specializzata in realizzazione di crediti per conto altrui, la quale operi, in vista del conseguimento anche di un proprio profitto, mediante sistematico ricorso alla violenza o ad altre forme di illecita coartazione nei confronti dei soggetti indicatile come debitori (Sez. 2, n. 1556 del 01/04/1992, Dionigi, Rv. 189943; Sez. 2, n. 12982 del 16/02/2006, Caratozzolo, Rv. 234117)”.

3. Così tracciate le differenze tra esercizio arbitrario delle proprie ragioni ed estorsione, va puntualizzato che, vertendosi in un caso di condotta tipica realizzata da un soggetto terzo rispetto al titolare della pretesa economica che si assume tutelabile in giudizio, occorre verificare se gli agenti, con la condotta minacciosa e/o violenta, intendessero perseguire un interesse proprio e ulteriore rispetto a quello della restituzione della caparra pretesa da B.B.. Interesse proprio e ulteriore che, vale la pena ribadirlo, può essere di per sé di natura non patrimoniale rispetto a quello di ottenere la mera soddisfazione del diritto arbitrariamente azionato.

Vale rimarcare come sia D.D. e i A.A., da una parte, sia E.E., fossero terzi rispetto alla pretesa economica di B.B.

Tale preliminare osservazione marginalizza tutte le argomentazioni sviluppate dalla difesa circa la qualificazione della caparra come confirmatoria o meno, cui sono collegate le ulteriori osservazioni spese per sostenere la fondatezza giuridica della pretesa di B.B. di vedersi restituita la somma consegnata a C.C. in occasione della stipulazione del contratto preliminare.

Il tema centrale del presente giudizio, invece, si mostra quello di stabilire se i terzi, nel realizzare la condotta tipica, intendessero perseguire un interesse proprio e ulteriore rispetto al soddisfacimento della pretesa di B.B. di ottenere la restituzione della somma versata a C.C..

3.1. In relazione a ciò, il Tribunale ha osservato che la condotta di E.E. trovava una spinta finalistica diversa e ulteriore rispetto a quella di costringere C.C. a restituire le somme ricevute da B.B.

Si legge, a tale proposito, nell’ordinanza impugnata: “decisivo, poi, al fine di inquadrare le condotte degli indagati nel delitto di cui all’art. 629 cod. pen., appare, come in precedenza anticipato, l’interesse personale di E.E., membro di vertice dell’articolazione territoriale di S del clan (Omissis), il quale nella vicenda non ha agito nell’esclusivo interesse del creditore, ma anche al fine di agevolare il clan mafioso di appartenenza. Infatti, la positiva attività di mediazione svolta dal E.E. e dal ricorrente era precipuamente funzionale, per un verso, a rafforzare l’egemonia del clan mafioso di appartenenza sul territorio di loro competenza, in quanto dimostrativa della capacità del gruppo di risolvere controversie relative a rapporti obbligatori sorti nel territorio di loro competenza e di condizionamento delle attività economiche, e, per altro verso, al conseguimento di uno specifico vantaggio patrimoniale per il patrimonio del clan da destinare ai sodali detenuto, traendo quindi, in tal modo, un profitto sicuramente indebito dalla consumazione del reato” (si veda pag. 17 dell’ordinanza impugnata).

3.2. Va osservato che la finalità perseguita da E.E. di rafforzare l’egemonia sul territorio del clan (Omissis) non viene messa in discussione dal ricorrente, il quale, invece, si duole della mancanza di condotte minacciose e/o violente realizzate da D.D., eventualmente evocative di un sodalizio mafioso e, in quanto tali, utili a far ritenere sussistente sia l’estorsione, sia l’aggravante di cui all’art. 416-bis.1 cod. pen., declinata nel senso delle modalità mafiose.

La questione così sollevata dalla difesa, però, non coglie il tema principale, che è quello di stabilire se A.A. fosse partecipe e consapevole della condotta realizzata da E.E. che – con le caratteristiche descritte dal Tribunale – è chiaramente riconducibile al paradigma dell’estorsione aggravata ai sensi dell’art. 416-bis.1 cod. pen., perché finalizzata al perseguimento di fini propri di E.E. e perché diretta al perseguimento dell’interesse del clan di ribadire la propria egemonia sul territorio, oltre che evocativa del sodalizio mafioso, con la richiesta di denaro per i detenuti.

Il tema del concorso di A.A. nella condotta di E.E. è stato affrontato e risolto dal Tribunale, che – come visto – ha ritenuto che l’odierno ricorrente fosse partecipe delle finalità perseguite da E.E. e a lui accomunato nella volontà di ribadire l’egemonia mafiosa nel territorio di loro competenza e il loro potere di condizionamento.

I giudici del riesame hanno messo in rilievo i numerosi contatti avuti dall’odierno ricorrente con E.E., anche in violazione della misura degli arresti domiciliari, cui si trovava sottoposto l’indagato all’epoca dei fatti, così dimostrandosi il suo primario interesse e pieno coinvolgimento al recupero del denaro, al punto di violare il regime restrittivo.

Il Tribunale ha altresì osservato che dall’attività d’indagine era emerso un interesse corale di A.A., di F.F. e di D.D., ossia dagli appartenenti al clan (Omissis), al recupero delle somme pretese da B.B.

Tanto viene ricavato dalla lettura incrociata delle intercettazioni (sunteggiate alle pagine 2 e ss. dell’ordinanza impugnata) dalla quale i giudici vedono emergere l’interesse dei A.A. al recupero del credito asseritamente vantato da B.B.; dalla sequenza temporale degli incontri, con particolare riferimento a quello avvenuto il 04/09/2021 tra D.D. e E.E., all’esito del quale quest’ultimo attivava A.A. affinché rintracciasse C.C. per menarlo, farlo pagare e fargli comprendere quali sarebbero state le conseguenze della sua eventuale disobbedienza; alle indicazioni contenute nelle intercettazioni, riferibili a A.A.

La piena compartecipazione e comunanza di A.A. (e D.D.) alla finalità di E.E. di affermare la propria egemonia sul territorio emerge sin dai primi contatti tra gli appartenenti al clan (Omissis) (D.D. e A.A., appunto) e E.E., per come emerge dalla conversazione intercettata il 23/08/2021 (n. 3717) nel corso della quale A.A., nel chiedere l’intervento di E.E., mette in rilievo come C.C. avesse reagito in maniera spavalda e impertinente alla loro richiesta di pagamento e alla minaccia di farlo raggiungere da soggetti terzi.

Tanto è un chiaro segnale di come gli appartenenti al Clan (Omissis) chiedessero a E.E. di riaffermare la propria forza intimidatrice sul territorio, attraverso la risoluzione della questione.

Di tale precisa finalità si trova eco e conferma nella conversazione del 17/09/2021 (progr. 6733), nel corso della quale E.E. (dopo l’ennesimo incontro con D.D.) ribadiva a C.C. di avere garantito per lui con persone pericolose del clan (Omissis), così emergendo ulteriormente come la risoluzione della vicenda contrattuale intercorsa tra B.B. e C.C. avesse assunto un valore simbolico e dimostrativo dell’egemonia dei clan sul territorio.

Da ciò discende che il Tribunale ha correttamente qualificato la condotta contestata a D.D. ai sensi dell’art. 629 cod. pen. e non ai sensi dell’art. 393 cod. pen., in ragione della sua piena e consapevole partecipazione alla condotta materiale realizzata da E.E..

A fronte di una motivazione che ha correttamente inquadrato i temi che coinvolgevano la posizione di D.D., i motivi d’impugnazione relativi alla sussistenza di gravi indizi di colpevolezza si concentrano sull’esistenza o meno di una caparra confirmatoria eventualmente stipulata tra B.B. e C.C. e sulla sussistenza di condotte materiali di minaccia e/o violenza riconducibili a D.D., così risultando trascurato il tema della compartecipazione del ricorrente alla condotta estorsiva realizzata da E.E. con modalità mafiose e con finalità agevolative del clan.

Tema, invece, affrontato e correttamente risolto dal Tribunale, per come emergente da quanto fin qui esposto, dal che discende l’infondatezza del ricorso in punto di gravi indizi di colpevolezza.

4. A eguale conclusione si perviene in relazione alle esigenze cautelari, rispetto alle quali – diversamente da quanto sostenuto dal ricorrente – si rinviene una motivazione adeguata, logica, non contraddittoria, oltre che aderente ai principi di diritto fissati da questa Corte con riguardo allo statuto cautelare vigente rispetto a reati ammantati dalla mafiosità.

I giudici hanno spiegato che non sono emersi elementi concreti per ritenere superata la presunzione di pericolosità dell’indagato e quella di adeguatezza della misura carceraria di cui all’art. 275, comma 3, cod. proc. pen..

A tale proposito va osservato che nel ricorso non vengono evidenziati elementi dotati della concretezza, patologicamente trascurati dal Tribunale, utili a superare tali presunzioni.

Il Tribunale ha anche affrontato il tema dell’attualità delle esigenze cautelari e ha osservato che A.A. risulta attualmente collegato agli ambienti della criminalità organizzata, così risultando ininfluente la data dei fatti al 2022, in ragione della persistenza della sua pericolosità.

I giudici hanno evidenziato la personalità incline al delitto di A.A., oltre che la callidità dimostrata nel perseguire i propositi delinquenziali e l’abitualità nel reato, attestata dai numerosi precedenti penali.

In presenza di tutti tali elementi di allarme sociale a carico di A.A., coniugata all’assenza di elementi concreti a suo favore, la negazione degli arresti domiciliari (ancorché con braccialetto elettronico) e l’applicazione della misura carceraria risulta una scelta imposta dalla legge e non correlata a un giudizio di inaffidabilità dell’indagato.

Da qui la correttezza del provvedimento impugnato e la correlata infondatezza di tutti i motivi d’impugnazione in punto di esigenze cautelari, con cui la difesa si duole sostanzialmente della negazione degli arresti domiciliari per l’omessa motivazione circa le ragioni per cui i giudici avrebbero ritenuto che A.A. non avrebbe rispettato le prescrizioni imposte con la misura domiciliare, così introducendo temi ultronei rispetto a quelli qui rilevanti.

5. Segue il rigetto del ricorso e la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.

6. Una copia del presente provvedimento deve essere trasmessa, a cura della Cancelleria, al Direttore dell’Istituto penitenziario, ai sensi dell’art. 94, comma 1-ter, disp. att. cod. proc. pen., in quanto dalla sua pronuncia non consegue la rimessione in libertà del detenuto.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Manda alla cancelleria per gli adempimenti di cui all’art. 94, comma 1-ter, disp. att. cod. proc. pen.

Conclusione

Così deciso in Roma, il 22 luglio 2025.

Depositato in Cancelleria il 17 settembre 2025.

Allegati

    [pmb_print_buttons]

    Accedi