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Cassazione civile sez. un., 17/01/2017, n. 964

Massima

Il ricorso per Cassazione per motivi attinenti a presunti vizi del procedimento non può essere accolto se la pronuncia impugnata si basa sull’applicazione di una norma di rito, anche se tale applicazione è ritenuta dal ricorrente erronea. L’inammissibilità del ricorso o dell’appello, derivante dalla violazione dei doveri di sinteticità e chiarezza, non configura un diniego di giustizia o un eccesso di potere giurisdizionale, che si verificano solo in caso di “radicale stravolgimento” delle norme procedurali che porti a una palese denegazione di giustizia.

Supporto alla lettura

RICORSO PER CASSAZIONE

Il ricorso per cassazione (artt. 360 e ss. c.p.c.) è un mezzo di impugnazione ordinario che consente di impugnare le sentenze pronunciate in unico grado o in grado d’appello, ma solo per errori di diritto, non essendo possibile dinanzi alla Suprema Corte valutare nuovamente il merito della controversia come in appello. Di solito è ammessa solo la fase rescindente in quanto il giudizio verte sull’accertamento del vizio e sulla sua eventuale cassazione, il giudizio rescissorio spetta al giudice di rinvio. Solo nel caso in cui non dovessero risultare necessari ulteriori accertamenti in cassazione, avvengono entrambi i giudizi.

La sua proposizione avviene nel termine (perentorio) di 60 giorni (c.d. termine breve), è previsto un ulteriore termine (c.d. lungo) che scade 6 mesi dopo la pubblicazione della sentenza.

Per quanto riguarda i motivi di ricorso l’art. 360 c.p.c dispone che le sentenze possono essere impugnate:

  • per motivi attinenti alla giurisdizione,
  • per violazione delle norme sulla competenza, quando non è prescritto il regolamento di competenza;
  • per violazione o falsa applicazione di norme di diritto e dei contratti e accordi collettivi nazionali di lavoro;
  • per nullità della sentenza o del procedimento;
  • per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti.

Inoltre può essere impugnata con ricorso per cassazione una sentenza appellabile del tribunale se le parti sono d’accordo per omettere l’appello (art. 360, c. 1, n. 3, c.p.c.), mentre non sono immediatamente impugnabili per cassazione le sentenze che decidono di questioni insorte senza definire, neppure parzialmente, il giudizio, in questo caso il ricorso può essere proposto senza necessità di riserva quando sia impugnata la sentenza che definisce, anche parzialmente il giudizio.

Il ricorso per cassazione è inammissibile (art. 360 bis c.p.c) quando il provvedimento impugnato ha deciso le questioni di diritto in modo conforme alla giurisprudenza della Corte e l’esame dei motivi non offre elementi per confermare o mutare l’orientamento della stessa, oppure quando è manifestamente infondata la censura relativa alla violazione dei principi regolatori del giusto processo.

A pena di inammissibilità sono previsiti determinati requisiti di forma:

  • la sottoscrizione da parte di un avvocato iscritto in apposito albo e munito di procura speciale;
  • l’indicazione delle parti;
  • l’illustrazione sommaria dei fatti di causa;
  • l’indicazione della procura se conferita con atto separato e dell’eventuale decreto di ammissione al gratuito patrocinio;
  • l’indicazione degli atti processuali, dei contratti o accordi collettivi o dei documenti sui quali si fonda il ricorso;
  • i motivi del ricorso con l’indicazione delle norme di diritto su cui si fondano.

Il ricorso va depositato, a pena di improcedibilità, entro 20 giorni dall’ultima notifica fatta alle parti contro le quali è proposto.

Chi intende resistere al ricorso per cassazione può depositare controricorso e deve essere fatto entro 40 giorni dalla notificazione del ricorso, insieme agli atti e ai documenti, e con la procura speciale se conferita con atto separato.

Ambito oggettivo di applicazione

Svolgimento del processo

Con atto notificato il 19 gennaio 2015, (omissis) proponeva ricorso per ottenere l’annullamento del verbale dell’Ufficio Centrale Regionale per le elezioni regionali della Calabria, nella parte in cui non comprendeva il ricorrente tra gli eletti.

Quest’ultimo lamentava l’erroneità del verbale di proclamazione degli eletti alla carica di Consigliere Regionale nella parte in cui gli Uffici Centrali Circoscrizionali, nella determinazione del quoziente elettorale circoscrizionale ai sensi della L. n. 108 del 1968art. 15, comma 3 non avevano tenuto conto dei voti espressi in favore delle liste provinciali che non avevano superato la soglia di sbarramento del 4%.

In particolare, deduceva che la non utilizzazione dei voti attribuiti ai soli candidati a Presidente (liste regionali) ai fini della determinazione del quoziente elettorale circoscrizionale avrebbe determinato l’effetto per cui le liste di maggioranza avrebbero acquisito un numero di seggi superiore al dovuto che, secondo quanto ritenuto da controparte doveva essere di 24 seggi, con la conseguenza che doveva scattare il premio di maggioranza di nove seggi alle liste collegate alla lista regionale vincente, L. n. 108 del 1968, ex art. 15, comma 13, n. 4 come modificata dalla L.R. n. 4 del 2010, anzichè di quattro (come è effettivamente avvenuto in forza dell’art. 15, comma 13, n. 3 cit. Legge, come modificata).

Si costituiva l’Ente Regione contestando, integralmente, il contenuto del ricorso proposto.

Proponeva intervento ad adiuvandum il partito “(omissis)”, in persona del Tesoriere nazionale e l’Avv. (omissis), in qualità di Commissario Provinciale di Cosenza del medesimo partito, nonchè in qualità di elettore del Comune di (omissis).

Si costituivano alcuni dei controinteressati.

Il T.A.R. Calabria – Catanzaro, con la sentenza n. 296/2015, dichiarato preliminarmente il difetto di legittimazione passiva dell’Ufficio Elettorale, dichiarava inammissibile l’intervento ad adiuvandum e rigettava il ricorso proposto in quanto infondato nel merito.

Con ricorso in appello il (omissis) chiedeva la riforma della sentenza impugnata, rilevando la violazione di legge, sia in relazione alla costituzione tardiva del controinteressato B. che all’erroneità ed irragionevolezza della motivazione.

Deduceva poi la violazione della L. n. 108 del 1968art. 15, comma 3, lett. a) e b) ed il contrasto con la sentenza della Corte costituzionale n. 1/2014 nonchè per la violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato ex art. 112 c.p.c..

Si costituivano la Regione Calabria ed i controinteressati già costituiti in primo grado chiedendo l’inammissibilità e/o il rigetto nel merito dell’appello.

In particolare, la difesa del signor (omissis) eccepiva l’inammissibilità del gravame per violazione dei doveri di sinteticità e chiarezza.

Il Consiglio di Stato, Sezione Quinta, con sentenza 5400/15 ha dichiarato l’inammissibilità dell’appello proposto per violazione dei doveri di sinteticità e chiarezza, evidenziando peraltro anche l’infondatezza nel merito dell’appello e della domanda di primo grado, nella parte in cui risulta intellegibile.

Avverso la detta sentenza ricorre per Cassazione il C. sulla base di due motivi cui resistono con controricorso la regione Calabria, (omissis) e (omissis).

Motivi della decisione

Con il primo motivo di ricorso il (omissis) lamenta il rifiuto di giurisdizione del Consiglio di Stato e denegazione della giustizia a seguito della pronunciata inammissibilità dell’appello per violazione dei doveri di specificità nonchè di sinteticità e chiarezza, pur non esistendo alcuna norma che preveda tale sanzione processuale. Deduce inoltre la violazione degli artt. 6 e 13 della CEDU, i quali sanciscono il diritto ad un ricorso effettivo.

Con il secondo motivo di ricorso eccepisce la violazione o falsa applicazione dell’art. 3 c.p.a., comma 2, art. 74 c.p.a.art. 55 c.p.a., comma 7, art. 40 c.p.a., comma 1, lett. c) e d), art. 101 c.p.a., comma 1; art. 132 c.p.c., comma 2 e art. 118 disp. att. c.p.c.; art. 366 c.p.c., comma 1; art. 120 c.p.a., comma 6, ed il pedissequo decreto del Presidente del Consiglio di Stato n. 40 del 25 maggio 2015.

Va in primo luogo rammentato che la sentenza impugnata ha per oggetto due ricorsi riuniti recanti rispettivamente i numeri 2844/15 e 2980/15. Mentre il primo è stato dichiarato inammissibile, il secondo è stato rigettato nel merito.

Deve pertanto ritenersi che il ricorso, ancorchè non contenga alcuna specificazione in proposito, censuri esclusivamente la pronuncia della sentenza del Consiglio di Stato riguardante il primo dei due ricorsi amministrativi.

Venendo all’esame dei due motivi proposti, questi, tra loro strettamente connessi, possono essere trattati congiuntamente e si rivelano inammissibili.

La sentenza impugnata ha rilevato (v. pg 12) che l’art. 40 c.p.a. e art. 101 c.p.a., comma 1, espressamente prevedono che i motivi del ricorso devono essere specifici e che eventuali motivi proposti in violazione di detto principio sono inammissibili.

Tale motivazione corrisponde al dato normativo dal momento che l’art. 40 citato, a seguito della riforma operata dal D.Lgs. n. 160 del 2012, applicabile ratione temporis, prevede quanto segue.

1. Il ricorso deve contenere distintamente:

a) gli elementi identificativi del ricorrente, del suo difensore e delle parti nei cui confronti il ricorso è proposto;

b) l’indicazione dell’oggetto della domanda, ivi compreso l’atto o il provvedimento eventualmente impugnato, e la data della sua notificazione, comunicazione o comunque della sua conoscenza;

c) l’esposizione sommaria dei fatti;

d) i motivi specifici su cui si fonda il ricorso;

e) l’indicazione dei mezzi di prova;

f) l’indicazione dei provvedimenti chiesti al giudice;

g) la sottoscrizione del ricorrente, se esso sta in giudizio personalmente, oppure del difensore, con indicazione, in questo caso, della procura speciale.

2. I motivi proposti in violazione del comma 1, lett. d), sono inammissibili.

A sua volta l’art. 101 c.p.a., comma 1, stabilisce che “Il ricorso in appello deve contenere l’indicazione del ricorrente, del difensore, delle parti nei confronti delle quali è proposta l’impugnazione, della sentenza che si impugna, nonchè l’esposizione sommaria dei fatti, le specifiche censure contro i capi della sentenza gravata, le conclusioni, la sottoscrizione del ricorrente se sta in giudizio personalmente oppure del difensore con indicazione, in questo caso, della procura speciale rilasciata anche unitamente a quella per il giudizio di primo grado.

Da tali dati normativi risulta con tutta chiarezza che il Consiglio di Stato si è attenuto alle disposizioni normative del processo amministrativo ritenendo che la mancanza di specificità dei motivi, individuati nella mancata suddivisione dell’atto di appello tra lo svolgimento del processo, attuato con la tecnica del copia ed incolla, e l’esposizione di specifici motivi in ragione della commistione all’interno di questi ultimi fra “argomenti, domande, eccezioni e richieste istruttorie”, costituiva un motivo di inammissibilità in ragione della espressa disposizione dell’art. 40 c.p.a. riferibile al ricorso di primo grado che ha ritenuto applicabile in virtù di una medesima ratio anche all’atto di appello.

Corretta o meno che sia tale interpretazione estensiva, il Consiglio di stato non ha decampato dai limiti interni della giurisdizione facendo comunque applicazione di una previsione di inamissibilità espressamente stabilita dal codice di procedura amministrativa in relazione alla fattispecie concreta approfonditamente analizzata.

Tanto basterebbe ad escludere che nella fattispecie si sia verificato un caso di denegata giustizia.

Quanto agli ulteriori aspetti della mancanza di sinteticità e chiarezza, questa Corte di cassazione ha già avuto modo di chiarire che queste condizioni sono ora fissate nel nostro ordinamento dall’art. 3 c.p.a., comma 2, che esprime un principio generale del diritto processuale, destinato ad operare anche nel processo civile la cui mancanza, espone il ricorrente al rischio di una declaratoria di inammissibilità dell’impugnazione, in quanto rischia di pregiudicare l’intelligibilità delle questioni, rendendo oscura l’esposizione dei fatti di causa e confuse le censure mosse alla sentenza gravata, con ciò ponendosi in contrasto con il principio di ragionevole durata del processo, costituzionalizzato con la modifica dell’art. 111 Cost., e, per altro verso, con il principio di leale collaborazione tra le parti processuali e tra queste ed il giudice risolvendosi, in definitiva, in un impedimento al pieno e proficuo svolgimento del contraddittorio processuale (cfr. Cass. n. 11199/12, Cass. n. 21297/16).

Sotto tali profili la pronuncia di inammissibilità del Consiglio di Stato trova ulteriore giustificazione.

E’ appena il caso di rammentare che il principio della sinteticità degli atti processuali è riconosciuto dalla legislazione dell’Unione europea dal momento che l’art. 58 del Regolamento di procedura della Corte di giustizia dell’Unione europea recita: “Lunghezza degli atti processuali. Salvo quanto disposto da norme specifiche del presente regolamento, la Corte, mediante decisione, può stabilire la lunghezza massima delle memorie o delle osservazioni depositate dinanzi ad essa. Tale decisione è pubblicata nella Gazzetta ufficiale dell’Unione europea”.

Anche alla luce di tali ultime considerazioni deve escludersi la sussistenza di ogni violazione degli att. 6 e 13 Cedu.

Ciò comporta che non vi è stato alcun diniego di giustizia frutto di un radicale stravolgimento nella applicazione delle norme di riferimento.

Sul punto è appena il caso di ricordare la costante giurisprudenza di queste Sezioni Unite secondo cui è configurabile l’eccesso di potere giurisdizionale con riferimento alle regole del processo amministrativo solo nel caso di radicale stravolgimento delle norme di rito, tale da implicare un evidente diniego di giustizia e non già nel caso di mero dissenso del ricorrente nell’interpretazione della legge. (ex plurimis Cass sez un. 24468/13;Cass., sez. un., 14 settembre 2012, n. 15428).

L’ulteriore censura, con cui si prospetta una erronea applicazione dell’art. 120 c.p.a., comma 6, come modificato dal D.Lgs. n. 90 del 2014, per non essere tale norma ed il conseguente Decreto del Presidente del Consiglio di Stato n. 40 del 2015 applicabili ratione temporis riguardano l’erronea applicazione delle norme processuali e rientrano quindi nei limiti interni della giurisdizione senza che ciò possa costituire un diniego di giurisdizione.

In ogni caso, non può non rilevarsi che la sentenza oggetto di ricorso ha dato espressamente atto che la normativa in questione non era applicabile alla fattispecie onde la doglianza sarebbe comunque destituita di fondamento in radice non essendo state le disposizioni in esame poste a base della decisione ma solamente addotte come ulteriori argomenti a sostegno della decisione stessa.

Segue alla soccombenza la condanna del ricorrente alle spese di giudizio liquidate come da dispositivo.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese di giudizio in favore di ciascuno dei controricorrenti liquidate in favore di ciascuno in Euro 3000,00 oltre Euro 200,00 per esborsi oltre accessori di legge e spese forfettarie.

Così deciso in Roma, il 20 dicembre 2016.

Depositato in Cancelleria il 17 gennaio 2017

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