Svolgimento del processo
1. Con sentenza emessa in data 29 maggio 2024 la Corte di assise di appello di Perugia, parzialmente riformando la sentenza emessa in data 10 maggio 2023 dalla Corte di assise di Perugia, ha condannato A.A. alla pena di dieci anni e sei mesi di reclusione ed Euro 26.000 di multa per i reati di cui agli artt. 3 legge n. 75/1958, 12, commi 3 e 3-ter, D.Lgs. n. 286/1998, 609-bis cod. pen., commessi dal febbraio 2016 al marzo 2017 in danno di B.B., costringendola a prostituirsi e a consegnargli i proventi di tale attività, dopo averla fatta giungere clandestinamente dalla N in I, sottoponendola al rischio della vita e a gravi sofferenze, e infine costringendola con violenza a subire un rapporto sessuale.
La Corte di assise di appello ha ritenuto ampiamente credibile la testimonianza della persona offesa, sia intrinsecamente, per la sua completezza e precisione, sia estrinsecamente, in quanto confermata dalle dichiarazioni testimoniali di C.C., del car. D.D. e di E.E., persone non interessate all’esito di questo procedimento e, le ultime due, non coinvolte nella vicenda né portatrici di interessi contrapposti a quelli dell’imputato. La sua testimonianza, inoltre, è stata ritenuta confermata dagli accertamenti svolti dalla polizia giudiziaria sull’utenza telefonica indicata dalla B.B. come consegnatale dall’imputato e da lei utilizzata per contattarlo, una volta giunta in I, e dal verbale di un sopralluogo effettuato dalla polizia in data 19/08/2016 nell’abitazione occupata dall’imputato e da sua moglie, in cui vennero trovate presenti la B.B. e la C.C. nonché tracce inequivocabili di un’attività di prostituzione svolta al suo interno. Ha pertanto confermato la sussistenza di tutti i reati per i quali l’imputato è stato condannato dal giudice di primo grado, ritenendo provati sia il reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina finalizzata allo sfruttamento della prostituzione, sia quello di violenza sessuale in danno della B.B., sia infine quello di sfruttamento della prostituzione di lei, ritenendo infondate le varie richieste di esclusione o assorbimento di ciascuno di tali reati. Ha ritenuto, però, eccessiva la pena irrogata dai giudici di primo grado, e l’ha ridotta nei termini indicati.
2. Avverso la sentenza ha proposto ricorso A.A., per mezzo del difensore avv. Barbara Romoli, articolando quattro motivi.
2.1. Con il primo motivo di ricorso deduce la violazione dell’art. 606, comma 1, lett. d), cod. proc. pen. per la mancata assunzione di una prova decisiva.
Il ricorrente aveva richiesto l’acquisizione di documenti necessari per valutare l’attendibilità della persona offesa e della teste C.C., precisamente alcuni documenti che le due donne avevano presentato alla commissione territoriale per l’ottenimento della protezione internazionale, avendo saputo da fonte confidenziale che esse avevano narrato circostanze diverse circa le modalità del loro ingresso clandestino in I. Tale prova è decisiva perché, se da tale documentazione emergesse che esse hanno indicato persone diverse dal ricorrente quali soggetti che hanno curato il loro trasporto in I, ciò imporrebbe una decisione diversa circa la sua colpevolezza.
2.2. Con il secondo motivo di ricorso deduce la violazione di legge in relazione all’art. 422, comma 2, cod. proc. pen.
L’assunzione della testimonianza della persona offesa è avvenuta tramite videoconferenza, ma tale modalità è residuale e deve essere adottata solo quando motivi oggettivi impediscano la presenza in aula del testimone o dell’imputato, dovendo la prova, altrimenti, essere acquisita in dibattimento, nel pieno del contraddittorio. In questo caso nulla impediva alla persona offesa di presenziare in udienza, né vi erano ragioni di urgenza per l’acquisizione di tale prova. La delicatezza del caso richiedeva la presenza della teste, perché il video collegamento altera la genuinità della testimonianza, resa ancora più difficile dalla intermediazione di un interprete di lingua inglese in ausilio alla teste.
2.3. Con il terzo motivo deduce la contraddittorietà della motivazione.
La sentenza impugnata si riporta acriticamente alla motivazione del giudice di primo grado, senza fornire una valutazione autonoma e senza colmare le lacune motivazionali della sua sentenza, in particolare quanto alle gravi contraddizioni in cui è caduta la persona offesa, che rendono la sua testimonianza inattendibile. Tra queste contraddizioni, vi è la sua affermazione di avere ricevuto il numero di cellulare dell’imputato quando era in N, mentre è provato che tale numero è stato attivato dopo che ella era giunta in I. La sentenza non ha tenuto conto di tali contraddizioni, mentre la loro valutazione è rilevante, visto anche l’interesse della teste ad una denuncia strumentale per ottenere il permesso di soggiorno.
2.4. Con il quarto motivo di ricorso deduce la violazione di legge in relazione all’art. 3 legge n. 75/1958.
Il giudice ha applicato erroneamente la continuazione tra detta norma e quella di cui all’art. 12 D.Lgs. n. 286/1998, perché la sua fattispecie è identica a quella prevista dall’aggravante di cui al comma 3-ter dell’art. 12 T.U.I.
Il ricorrente, perciò, è stato condannato due volte per lo stesso fatto.
3. Il Procuratore generale, con requisitoria scritta, ha chiesto dichiararsi l’inammissibilità del ricorso.
Motivi della decisione
1. Il ricorso, nel suo complesso, è infondato e deve essere rigettato.
La motivazione della sentenza impugnata costituisce una “doppia conforme”, che sussiste quando “la sentenza di appello, nella sua struttura argomentativa, si salda con quella di primo grado sia attraverso ripetuti richiami a quest’ultima sia adottando gli stessi criteri utilizzati nella valutazione delle prove, con la conseguenza che le due sentenze possono essere lette congiuntamente costituendo un unico complessivo corpo decisionale” (Sez. 2, n. 37295 del 12/06/2019, Rv. 277218). Il ricorrente stesso riconosce l’unicità decisionale delle due pronunce, lamentando che la sentenza di secondo grado si sia riportata acriticamente alle ragioni argomentative di quella di primo grado.
Gli asseriti vizi motivazionali della sentenza di secondo grado, pertanto, devono essere valutati alla luce del richiamo che essa fa all’intero complesso argomentativo di quella di primo grado, potendo tale richiamo contribuire alla completezza della motivazione.
2. Il primo motivo di ricorso è infondato, e ai limiti della inammissibilità.
2.1. In primo luogo non risulta dalle sentenze di merito, né il ricorrente lo ha affermato e tanto meno dimostrato, che la prova consistente nell’acquisizione delle dichiarazioni che la persona offesa e la teste C.C. avrebbero rilasciato nell’istanza di protezione internazionale da loro presentata sia stata formalmente richiesta, ai sensi dell’art. 495, comma 2, cod. proc. pen., e non ammessa dal giudice. Questa Corte, però, ha affermato che “La mancata assunzione di una prova decisiva, quale motivo d’impugnazione ex art. 606, comma 1, lett. d) cod. proc. pen., può essere dedotta solo in relazione ai mezzi di prova di cui sia stata chiesta l’ammissione ai sensi dell’art. 495, comma 2, cod. proc. pen., sicché il motivo non potrà essere validamente articolato nel caso in cui il mezzo di prova sia stato sollecitato dalla parte attraverso l’invito al giudice di merito ad avvalersi dei poteri discrezionali di integrazione probatoria di cui all’art. 507 cod. proc. pen. e da questi sia stato ritenuto non necessario ai fini della decisione” (Sez. 2, n. 884 del 22/11/2023, dep. 2024, Rv. 285722).
La dedotta violazione dell’art. 606, comma 1, lett. d), cod. proc. pen., pertanto, deve essere dichiarata infondata, sotto un profilo formale, per la sua errata articolazione.
2.2. Essa, peraltro, è infondata anche sotto un profilo sostanziale. La norma individua una possibile violazione solo nella mancata acquisizione di una prova “decisiva” e, secondo la giurisprudenza di legittimità, “In tema di ricorso per cassazione, deve ritenersi “decisiva”, secondo la previsione dell’art. 606, comma 1, lett. d), cod. proc. pen., la prova che, confrontata con le argomentazioni contenute nella motivazione, si riveli tale che, ove esperita, avrebbe sicuramente determinato una diversa pronuncia ovvero quella che, non assunta o non valutata, vizia la sentenza intaccandone la struttura portante” (Sez. 3, n. 9878 del 21/01/2020, Rv. 278670). Nel presente caso, al contrario, la documentazione di cui il ricorrente lamenta l’omessa acquisizione, anche qualora contenesse dichiarazioni delle due testimoni non conformi a quanto da loro narrato in merito alle modalità del loro arrivo clandestino in I, non risulterebbe decisiva per scardinare le due sentenze di merito, che hanno valutato approfonditamente l’attendibilità di tali testimoni e l’hanno ritenuta sussistente per una pluralità di ragioni, e in particolare per i numerosi riscontri sia oggettivi, derivanti dalle indagini svolte, sia dichiarativi, derivanti dalle testimonianze di persone estranee alla vicenda oggetto del processo e non interessate ad essa. La sentenza di primo grado, in particolare, ha valutato approfonditamente l’attendibilità della persona offesa, alle pagine da 34 a 41, e la sentenza di secondo grado ha evidenziato, ai fini della conferma della responsabilità del ricorrente nell’organizzazione dell’ingresso clandestino della donna in Italia, il fatto che effettivamente ella risulta averlo contattato immediatamente dopo essere giunta nel nostro Paese, direttamente dal centro di accoglienza dove era stata collocata dopo essere stata soccorsa in mare, ricavando da tale elemento oggettivo, logicamente, la prova che il ricorrente era stato indicato alla donna, quale suo contatto in Italia, già prima della sua partenza dalla Nigeria, e che egli, a sua volta, era a conoscenza dell’arrivo di lei e ne aveva già organizzato il trasferimento nella sua abitazione. Una eventuale dichiarazione diversa, resa dalla persona offesa in un diverso contesto e per altre finalità, non potrebbe risultare “decisiva” al punto da escludere la sua credibilità, stanti i riscontri sopra indicati.
2.3. La richiesta di acquisizione di detta documentazione, peraltro, qualora formalizzata, sarebbe stata legittimamente non accolta dai giudici di merito, perché generica e meramente esplorativa. Il ricorrente parla, infatti, di una documentazione non specificamente descritta, il cui contenuto è a lui stesso ignoto dal momento che, a suo dire, avrebbe solo ricevuto l’informazione, da una “fonte confidenziale” non indicata, che le due testimoni avrebbero narrato modalità diverse in merito al loro ingresso clandestino in Italia, senza neppure precisare su quali aspetti tali dichiarazioni divergerebbero da quanto dalle stesse riferito nel presente procedimento, così da consentire al giudice di valutare la rilevanza della prova stessa. Deve, pertanto, ribadirsi il principio espresso da questa Corte, secondo cui “Nel giudizio di appello, la presunzione di tendenziale completezza del materiale probatorio già raccolto nel contraddittorio di primo grado rende comunque inammissibile la richiesta di rinnovazione dell’istruzione dibattimentale che si risolva in una attività “esplorativa” di indagine, finalizzata alla ricerca di prove anche solo eventualmente favorevoli al ricorrente, non sussistendo pertanto, rispetto ad essa, alcun obbligo di risposta da parte del giudice del gravame” (Sez. 3, n. 47293 del 28/10/2021, Rv. 282633).
Anche sotto questo profilo, pertanto, la doglianza deve essere ritenuta infondata, e rigettata.
3. Il secondo motivo di ricorso è infondato. L’affermazione di un vizio rappresentato dall’essere stata la persona offesa ascoltata, in dibattimento, mediante videoconferenza, è infondata.
Tale forma di audizione è stata disposta, dal giudice di primo grado, per l’impossibilità di ottenere la presenza in aula della testimone, in quanto stabilmente residente in Germania. Diversamente da quanto sostenuto dal ricorrente, essa non lede il principio del contraddittorio, essendo assicurato il diretto colloquio delle parti e dei giudici con la testimone, anche se attraverso il collegamento a distanza, ed essendo quindi assicurata la genuinità della deposizione. Del tutto infondata, inoltre, è l’affermazione di una alterazione di tale genuinità per la presenza di un interprete, necessitata dal fatto che la donna parla la lingua inglese: la presenza dell’interprete si sarebbe resa necessaria anche se l’esame si fosse svolto nell’aula di udienza, ed il fatto che anche l’imputato, stante la sua origine nigeriana, parla e capisce la lingua usata dalla teste gli consentiva di verificare direttamente il contenuto della sua dichiarazione, e di rilevare eventuali errori di traduzione da parte dell’interprete.
L’assunzione di dichiarazioni testimoniali attraverso un sistema di impianto audiovisivo a circuito chiuso, peraltro, non solo non è vietata dall’ordinamento, ma è addirittura prevista dalla stessa legge, che la autorizza in presenza di determinati presupposti. L’art.147-bis disp. att. cod. proc. pen. prevede, infatti, la possibilità di disporre che l’esame in dibattimento si svolga mediante un collegamento audiovisivo, anche a distanza, quando si tratti di persone sottoposte a programmi o misure di protezione, ovvero nel caso di gravi difficoltà ad assicurare la comparizione delle persone che devono essere sottoposte ad esame (vedi Sez. 1, n. 2607 del 04/12/1997, dep. 1998, Rv. 209959). L’art. 498, comma 4 quater, cod. proc. pen., inoltre, prevede che la persona offesa vulnerabile, in particolare se vittima del reato di cui all’art. 609-bis cod. pen., contestato in questo procedimento, possa essere ascoltata in modalità protetta. Anche tale norma, pertanto, dimostra che l’audizione a distanza non è vietata dall’ordinamento, che anzi la prevede in presenza di specifiche circostanze. Essa, inoltre, è stata ritenuta, da questa Corte, non violare alcun principio costituzionalmente garantito (vedi Sez. 3, n. 58318 del 09/11/2018, Rv. 274739).
Deve peraltro precisarsi che il richiamo all’art. 422, comma 2, cod. proc. pen., contenuto nel ricorso, è inconferente, non risultando che l’esame della persona offesa sia stato disposto quale attività di integrazione probatoria disposta dal giudice, e che, in ogni caso, l’inosservanza di detta norma comporta una nullità relativa e non assoluta, in quanto non incidente sulla partecipazione dell’imputato e del suo difensore, e attinente solo alle modalità di assunzione di una prova e non alla sua ammissibilità, per cui essa avrebbe dovuto essere eccepita nel termine di cui all’art. 182, comma 2, cod. proc. pen.
4. Anche il terzo motivo del ricorso è infondato, e deve essere rigettato.
La doglianza circa il vizio motivazionale della sentenza impugnata, che non avrebbe valutato le numerose contraddizioni contenute nella deposizione della persona offesa, già trascurate dalla sentenza di primo grado, è in parte generica, in quanto lamenta l’omessa valutazione di “numerose contraddizioni” senza indicarle in modo specifico, non consentendo, così, di verificare l’effettiva sussistenza di una carenza, illogicità o contraddittorietà della motivazione.
L’unica contraddizione illustrata è quella relativa all’avere la donna affermato di avere ricevuto prima di partire dalla N l’indicazione dell’utenza su cui contattare l’imputato, una volta giunta in I, mentre tale utenza risulta essere stata attivata solo poco più di un mese prima del suo sbarco, molti mesi dopo la sua partenza. La sentenza impugnata, però, ha valutato tale doglianza, alla pag. 14, e l’ha ritenuta irrilevante, ritenendo significativo, e confermativo della credibilità della persona offesa, il fatto che ella ha effettivamente chiamato tale utenza, appena giunta in Italia, e che essa corrispondeva ad un telefono stabilmente collocato a Perugia, luogo di residenza dell’imputato, e intestato ad un uomo più volte trovato in compagnia di quest’ultimo. Tale motivazione appare logica, essendo effettivamente rilevante non il particolare dell’avere o meno la donna posseduto già in N un’utenza riferibile all’imputato, ma il fatto di averla avuta sicuramente con sé al momento dello sbarco in Italia, tanto da contattarla immediatamente, mentre si trovava nel centro di accoglienza.
La sentenza impugnata ha altresì valutato, alle pagine 14 e 15, altre presunte contraddizioni contenute nella deposizione della persona offesa, censurate nell’atto di appello: anche in relazione ad esse la motivazione appare congrua, esaustiva e logica, esente perciò dal vizio di contraddittorietà dedotto in questo motivo di ricorso. La genericità della deduzione, peraltro, non consente di comprendere per quale specifica ragione la motivazione della sentenza di secondo grado sarebbe, secondo il ricorrente, viziata.
5. È infondato, infine, anche il quarto motivo di ricorso.
La lettura delle due norme violate rende evidente la loro diversità, e la conseguente impossibilità di un assorbimento dell’una nell’altra.
L’art. 12, comma 3-ter, D.Lgs. n. 286/1998, punisce chi compie atti diretti a procurare l’ingresso illegale in Italia di una persona straniera, al fine di destinarla alla prostituzione. L’art. 3, comma 1, n. 8), legge n. 75/1958, punisce chi, in qualsiasi modo, sfrutti la prostituzione altrui. La norma del D.Lgs. n. 286/1998, pertanto, costituisce una condotta diversa e antecedente a quella di sfruttamento della prostituzione, in quanto punisce chi procura l’ingresso dello straniero a tale fine, anche se poi lo straniero non si prostituisce o se, per altri motivi, non si verifica lo sfruttamento della sua attività di prostituzione.
Tra i due reati può esservi una sovrapponibilità della condotta materiale con riferimento all’ipotesi di cui all’art. 3, comma 1, n. 4), legge n. 75/1958, che punisce chiunque recluti una persona al fine di farla prostituire, e all’ipotesi del mero favoreggiamento della prostituzione, punito anch’esso dall’art. 3, comma 1, n. 8), legge n. 75/1958: in tal caso, questa Corte ha affermato che deve applicarsi la norma del T.U.I., stante la clausola di riserva stabilita dall’art. 12, comma 5, T.U.I. (vedi Sez. 3, n. 46223 del 02/10/2013, Rv. 257858)
Nel presente caso, però, al ricorrente è stata contestata la diversa condotta materiale dell’avere sfruttato la prostituzione della persona offesa, facendosi consegnare i relativi proventi, condotta diversa dal favoreggiamento, ed autonoma rispetto a quella dell’averle procurato l’ingresso illegale: la pena, pertanto è stata applicata in relazione a due condotte diverse, e la giurisprudenza di legittimità ha affermato con chiarezza che il concorso materiale è configurabile tra il delitto di favoreggiamento della prostituzione, in relazione ad uno straniero entrato o trattenutosi illegalmente in Italia, e quello di sfruttamento della stessa (vedi Sez. 3, n. 41404 del 07/07/2011, Rv. 251299).
La sentenza impugnata ha valutato la doglianza relativa all’asserita duplicità di condanna per la medesima condotta, e l’ha respinta, alle pagina 17 e 18, per la ragione sopra indicata. Tale motivazione appare logica e conforme al dettato normativo, per cui tale doglianza deve essere disattesa.
6. Sulla base delle considerazioni che precedono il ricorso deve pertanto essere respinto, e il ricorrente deve essere condannato al pagamento delle spese processuali.
Stante la natura di uno dei reati contestati, devono omettersi i dati identificativi del condannato e della persona offesa, come previsto dall’art. 52, comma 5, D.Lgs. 196/2003.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a norma dell’art. 52 D.Lgs. 196/03 in quanto imposto dalla legge.
Conclusione
Così deciso in Roma, il 9 luglio 2025.
Depositato in Cancelleria il 15 settembre 2025.
