Svolgimento del processo
(omissis) conveniva innanzi al tribunale di Roma (omissis), (omissis), (omissis), la s.r.l. (omissis), chiedendo l’esecuzione specifica a norma dell’art. 2932 c.c. dell’obbligo di concludere la vendita delle quote della società, il risarcimento dei danni da inadempimento, il pagamento di eventuali sopravvenienze passive verificatesi nella situazione patrimoniale della società.
Lo (omissis) e la (omissis) aderivano alla domanda di esecuzione specifica dell’obbligo di contrarre; resistevano alle altre domande; proponevano domanda riconvenzionale di risarcimento dei danni.
La (omissis) conveniva, a sua volta, lo (omissis), il (omissis), la società innanzi allo stesso tribunale e, lamentando violazione del diritto di prelazione discendente dalla sua qualità di socia, proponeva domanda di riscatto e di risarcimento dei danni.
Le cause venivano riunite; il tribunale, quindi, accoglieva la domanda di esecuzione specifica dell’obbligo di contrarre e rigettava le altre.
Lo (omissis) e la (omissis) proponevano appello principale; il (omissis) appello incidentale.
Gli appellanti principali deducevano che nelle more del giudizio di appello era intervenuta transazione che aveva definito ogni pendenza e chiedevano che venisse dichiarata cessata la materia del contendere; l’appellante incidentale si opponeva, deducendo che la transazione si era risolta di diritto per inadempimento delle controparti.
La Corte di Appello di Roma, con sentenza resa il 21 maggio 1999, emetteva declaratoria di cessazione della materia del contendere, considerando che le parti avevano rinunciato ad ogni diritto e si erano impegnate ad abbandonare le controversie pendenti; che quanto dedotto al Bracco non rilevava ai fini della declaratoria e doveva essere accertato in autonomo giudizio.
Per la cassazione di tale sentenza il (omissis) ha proposto ricorso affidato a tre motivi; lo (omissis), in proprio e quale erede della (omissis), ha resistito con controricorso illustrato con memoria.
Motivi della decisione
Con il primo motivo il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 100 c.p.c.
Affinché il giudice possa emettere declaratoria di cessazione della materia del contendere – sostiene – è necessario che tutte le parti ammettano e riconoscano che è venuta meno ogni ragione di contrasto sicché non hanno più interesse alla prosecuzione del giudizio ed alla pronuncia di merito.
Se, pertanto, alcuna delle parti, pur ammettendo che è intervenuto un accordo astrattamente idoneo a porre termine alla controversia, ne disconosca l'”effettiva valenza transattiva” e chieda la pronuncia nel merito, il giudice non può dichiarare la cessazione della materia del contendere e la declaratoria ugualmente emessa è viziata per violazione dell’art. 100 c.p.c.
Con il secondo motivo il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c., sostenendo che è viziata di extrapetizione la sentenza che dichiari la cessazione della materia del contendere, ancorché una parte abbia dedotto che non è intervenuto atto idoneo a costituire mutamento della situazione sostanziale, come nella specie, in cui viene eccepita la risoluzione per inadempimento della transazione e chiesta la pronuncia nel merito.
Con il terzo motivo il ricorrente lamenta omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione, sostenendo che la corte di merito si è limitata ad accertare che in corso di causa le parti hanno stipulato la scrittura 3 marzo 1996 senza verificare se esse avessero concordemente riconosciuto alla scrittura l’idoneità ad annullare ogni loro interesse alla prosecuzione del giudizio.
I motivi vanno esaminati congiuntamente per la intima connessione.
Nella transazione intervenuta in corso di causa la giurisprudenza di questa Corte individua fatto idoneo a determinare cessazione della materia del contendere.
Si distingue la transazione novativa da quella semplice: nella prima si verifica l’estinzione del rapporto preesistente e la sostituzione di esso con altro oggettivamente diverso per contenuto e fonte costitutiva; nella seconda rimangono fermi il precedente rapporto e la relativa fonte, ma si introducono mutamenti dell’assetto sostanziale dei diritti e degli obblighi che sul piano processuale si configurano come fatti modificativi, impeditivi o estintivi del diritto azionato.
L’una e l’altra forma di transazione eliminano la posizione di contrasto fra le parti e fanno venire meno l’interesse delle stesse ad una pronuncia sulla domanda come proposta o come evolutasi in corso di causa, correlativamente determinando l’inutilità della pronuncia medesima.
Il collegamento all’interesse ha consentito di dare base normativa all’istituto.
Proprio la ricostruzione della cessazione della materia del contendere in termini di carenza di interesse è stata utilizzata dalle sezioni unite di questa Corte nella sentenza 28 settembre 2000, n. 1048, per comporre il contrasto venutosi a creare sulla natura della pronuncia dichiarativa nel senso che tale pronuncia non è idonea ad acquistare efficacia di giudicato sulla pretesa fatta valere, ma solo sul venire meno dell’interesse.
Corollario è che la parte può riproporre la medesima domanda e la parte, contro la quale è proposta, per ottenerne il rigetto deve sollevare l’eccezione “rei per transactionem finitae”.
La dottrina, che aveva segnalato che la transazione comporta il rigetto della domanda per infondatezza sopravvenuta piuttosto che la declaratoria di carenza di interesse, osservando come la sentenza che, nonostante la transazione, accogliesse la domanda sarebbe non tanto inutile quanto “contra ius”, ha manifestato il proprio dissenso, rilevando che, se la transazione dà luogo ad una modificazione estintiva del diritto controverso, la pronuncia di cessazione della materia del contendere è di merito e, come tale, idonea al giudicato sostanziale sulla pretesa.
Se la transazione è endoprocessuale e, cioè, avviene nell’ambito del processo, non ha bisogno di essere provata, formando, al pari di qualsiasi altro elemento processuale, oggetto di valutazione del giudice; la stessa cosa si verifica quando la transazione è extraprocessuale, ma è ammessa dalle parti, in quanto in tale caso è pacifica ed il fatto pacifico non va provato; in entrambi i casi la transazione costituisce, insomma, fatto interno al processo, come tale direttamente accertabile dal giudice (Cass. 27 aprile 1994, n. 4017).
Se la transazione extraprocessuale non è pacifica tra le parti, sorge la necessità di provarla ed a questo fine il giudice deve ammettere i mezzi istruttori richiesti, salvo che non escluda che la transazione allegata sia astrattamente idonea ad eliminare radicalmente e senza residui l’oggetto della controversia; nel qual caso deve rifiutarne l’ammissione (Cass. 22 gennaio 1997, n. 622; Cass. 16 ottobre 1993, n. 10241).
Una volta che sia acquisita la prova della transazione o questa risulti dagli atti o sia ammessa dalle parti, il giudice deve dichiarare anche di ufficio la cessazione della materia del contendere, non avendo più il potere-dovere di pronunciare nel merito (Cass., S.U., 28 settembre 2000, n. 1048).
Diversamente avviene se una parte chieda la declaratoria di cessazione della materia del contendere e l’altra si opponga, chiedendo la pronuncia nel merito.
In questa ipotesi, se l’opposizione nasce da disaccordo sulla rilevanza giuridica della transazione, secondo un orientamento giurisprudenziale il giudice non può emettere la declaratoria di cessazione della materia del contendere (Cass. 8 maggio 1998, n. 4672; Cass. 20 maggio 1998, n. 5029; Cass. 27 aprile 2000, n. 5383) e secondo altro orientamento può, invece, emetterla (Cass. 27 aprile 1994, n. 4017; Cass. 12 luglio 1984, n. 4079).
Come è stato rilevato, il primo orientamento si collega alla convinzione che la declaratoria di cessazione della materia del contendere richieda l’abbandono delle richieste originarie ed in una certa misura si pone in contrasto con la pacifica ammissibilità della declaratoria di ufficio.
In nessun caso il giudice può, tuttavia, emettere la declaratoria, ove la parte nell’opporsi alla relativa richiesta eccepisca la nullità, annullabilità, inefficacia della transazione ovvero (se si tratta di transazione semplice o non novativa) la risoluzione della stessa per inadempimento (Cass. 9 novembre 1984, n. 5659).
Dai principi sopra esposti si è discostata la sentenza impugnata, la quale ha dichiarato la cessazione della materia del contendere nonostante che l’attuale ricorrente si fosse opposto ed avesse dedotto che la transazione si era risolta, per cui va cassata con rinvio per nuovo esame ad altra sezione della corte di appello di Roma, incaricata di provvedere anche sulle spese del giudizio di cassazione.
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso; cassa la sentenza impugnata e rinvia anche per le spese del giudizio di cassazione ad altra Sezione della Corte di Appello di Roma.
Così deciso in Roma nella Camera di Consiglio della Terza Sezione Civile della Corte di Cassazione il 29 ottobre 2002.
DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 10 FEB. 2003
