Svolgimento del processo
L’Agenzia delle Entrate – Direzione Provinciale di Bari, in persona del Direttore pro tempore, con ricorso notificato in data 30.11.2020, poi iscritto a ruolo in data 2.12.2020 e depositato in data 4.12.2020 nella Segreteria di questa Corte (all’epoca denominata Commissione Tributaria Regionale), proponeva appello avverso la sentenza n. 385/04/2020 della Commissione Tributaria Provinciale di Bari e ne chiedeva la riforma con vittoria delle spese di lite del doppio grado di giudizio.
La sentenza di primo grado (alla cui parte espositiva in fatto per ragioni di sintesi nella presente sede si rimanda) aveva accolto in parte il ricorso proposto dalla s.r.l. R. (d’ora in avanti per brevità, la contribuente) avverso l’atto di irrogazione di sanzioni n. ——/2018, emesso nei suoi confronti dalla Direzione Provinciale di Bari dell’Agenzia delle Entrate in data 10.12.2018 e notificato in data 13.12.2018, a mezzo del quale – con riferimento all’anno di imposta 2013 – erano confermate le contestazioni degli illeciti previsti dall’art. 6 comma 8 D. Lgs. n. 471/97 e dall’art. 13 comma 1 d.lgs. n. 471/97 ed inflitte delle sanzioni pecuniarie rispettivamente pari ad € 6.833,41 e ad € 3.324,50;
il trattamento sanzionatorio applicato con l’atto impugnato rimandava all’atto di contestazione n. ——/2017, in precedenza notificato e non impugnato, che era quindi confermato.
La contribuente era incolpata di avere effettuato acquisti di materie prime dai propri fornitori non documentati dalla relativa fatturazione (e non regolarizzati tramite il successivo ricorso all’autofatturazione); e di non avere corrisposto nel mese di giugno 2013 l’i.v.a. periodica per un ammontare pari ad € 11.081,67.
La Commissione Provinciale accoglieva il ricorso ed affermava che gli illeciti contestati dalla contribuente erano insussistenti poiché la prova presuntiva che avrebbe dovuto dimostrarne la consumazione era inconsistente.
L’Agenzia delle Entrate chiedeva l’integrale riforma della sentenza, impugnandola per mezzo dei motivi oggetto dell’atto di appello innanzi richiamato; essa lamentava il difetto di motivazione della sentenza nonché la violazione degli artt. 41 bis d.p.r. n. 600/73, 6 e 13 d. lgs. n. 471/97.
La contribuente si costituiva in giudizio a mezzo di proprie controdeduzioni con le quali chiedeva il rigetto del gravame.
In data 10.3.2025 si svolgeva la discussione e questa Corte, previo differimento della camera di consiglio ai sensi dell’art. 35 comma 2 d. lgs. n. 546/92, in data 9.4.2025 deliberava la decisione.
Motivi della decisione
La motivazione della presente sentenza viene redatta in conformità alle previsioni contenute nell’art. 118 commi 1 e 2 att. c.p.c..
L’appello è infondato e va respinto per le ragioni che di seguito si espongono.
Il motivo di gravame, sostanzialmente unitario, dispiegato dall’ufficio impositore è privo di pregio.
L’art. 6 comma 8 d. lgs. n. 471/97 (nella formulazione vigente ratione temporis ossia nell’anno di imposta 2013), prevede che “Il cessionario o il committente che, nell’esercizio di imprese, arti o professioni, abbia acquistato beni o servizi senza che sia stata emessa fattura nei termini di legge o con emissione di fattura irregolare da parte dell’altro contraente, è punito, salva la responsabilità del cedente o del commissionario, con sanzione amministrativa pari al cento per cento dell’imposta, con un minimo di euro 258, sempreché non provveda a regolarizzare l’operazione con le seguenti modalità (8):
a) se non ha ricevuto la fattura, entro quattro mesi dalla data di effettuazione dell’operazione, presentando all’ufficio competente nei suoi confronti, previo pagamento dell’imposta, entro il trentesimo giorno successivo, un documento in duplice esemplare dal quale risultino le indicazioni prescritte dall’articolo 21 del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633, relativo alla fatturazione delle operazioni;
b) se ha ricevuto una fattura irregolare, presentando all’ufficio indicato nella lettera a), entro il trentesimo giorno successivo a quello della sua registrazione, un documento integrativo in duplice esemplare recante le indicazioni medesime, previo versamento della maggior imposta eventualmente dovuta”.
Come si evince dalla lettura della norma, l’illecito ascritto alla contribuente reprime la mancata o incompleta documentazione (o formalizzazione, mediante emissione di una fattura tempestiva e completa di tutti gli elementi previsti dall’art. 21 d.p.r. n. 633/72) di un’operazione commerciale effettivamente conclusa con un cedente o commissionario puntualmente individuato; la norma in sostanza pone a carico del cessionario dei beni o del committente della prestazione di un servizio l’obbligo di pretendere da esso il tempestivo rilascio di una fattura completa di tutte le informazioni contemplate dall’art. 21 d.p.r. n. 633/72 e ne punisce l’inosservanza con la sanzione pecuniaria da essa contemplata.
Tale violazione fa il paio con quella prevista dal comma 1 del medesimo art. 6 che sanziona l’omologo contegno omissivo del cedente dei beni o del prestatore dei servizi oggetto dell’operazione commerciale.
La descrizione della condotta repressa dall’art. 6 comma 8 d. lgs. n. 472/97 esige, ai fini dell’integrazione dell’illecito tributario, che: 1) sia individuata una operazione commerciale, conclusa dall’incolpato e dalla sua controparte contrattuale, dolosamente o colposamente sottratta all’obbligo di fatturazione; 2) sia identificato il cedente del bene o il prestatore del servizio nei confronti del quale l’autore dell’illecito abbia manifestato connivenza o collusione, non pretendendo il rilascio della fattura (passiva).
Orbene, nel caso di specie, l’ufficio impositore non ha dimostrato l’esistenza di questi due essenziali elementi costitutivi della fattispecie descritta dalla norma repressiva.
L’atto di contestazione n. ——/2017, che nel suo contenuto recepisce in modo tanto integrale quanto acritico il contenuto del p.v.c. redatto in data 10.6.2016 dalla Compagnia di Trani della Guardia di Finanza, imputa all’appellata di avere acquistato senza il rilascio di alcuna fattura merce o materie prime per un controvalore pari ad € 32.540,03.
Non è dato conoscere i termini (entità delle singole cessioni, epoca delle cessioni, modalità di consegna della merce, etc.) delle operazioni commerciali che avrebbero integrato il trasferimento o la consegna di tale merce (ed il suo conseguente ingresso nelle scorte di magazzino dell’appellata); né tantomeno è dato conoscere l’identità del fornitore o dei fornitori di tali beni, con cui tali operazioni commerciali sarebbero state concluse.
Tali elementi della fattispecie avrebbero dovuto oggetto di dimostrazione fornita dall’ufficio impositore e non lo sono stati; non può infatti pretendersi che tale dimostrazione sia fornita dall’appellata (né tantomeno alcuna norma autorizza una simile inversione dell’onere della prova, tanto più inammissibile se si pone mente al fatto che oggetto della presente disputa è soltanto l’applicazione della disciplina sanzionatoria).
Se così non fosse, apparirebbe prive di senso la previsione dell’ultima parte del comma 8 dell’art. 6, che disciplina le modalità di regolarizzazione dell’illecito attraverso l’istituto della c.d. “autofatturazione”.
Il contenuto di tale previsione presuppone infatti che sia a priori identificato il cedente dei beni o il prestatore dei servizi con cui l’autore dell’illecito ha concluso l’operazione commerciale non documentata (o non correttamente documentata); in caso contrario, la sequenza procedimentale concepita per ottenere la regolarizzazione non sarebbe in concreto suscettibile di pratica realizzazione poiché non vi sarebbe una fattura incompleta (lett. b) o un’operazione commerciale perfezionata (lett. a).
Il materiale probatorio fornito dall’appellante a sostegno della pretesa punitiva, tutto raccolto all’interno del p.v.c. del 10.6.2016, appare inadeguato ed insufficiente ai fini del soddisfacimento dell’onere probatorio su di essa gravante; l’articolato coacervo di presunzioni adoperato allo scopo di dimostrare l’esistenza di una differenza tra l’ammontare dei ricavi che l’appellata ha dichiarato di avere conseguito nell’anno di imposta 2013 (€ 1.483.811,66) e quelli che l’appellante sostiene siano stati da essa effettivamente conseguiti (€ 1.516.351,69) lascia in una condizione di inaccettabile vaghezza la dimostrazione degli elementi costitutivi della fattispecie prima citati.
In sostanza, l’ufficio impositore assume la conclusione in incertam personam di un indefinito numero di operazioni commerciali del valore complessivo di € 32.540,03; non soltanto non viene dimostrata l’identità dei cedenti e la natura e l’epoca di conclusione delle operazioni commerciali; non viene neppure dimostrata l’indole della materia prima che ne avrebbe formato oggetto (ossia se si sarebbe trattato di bobine di grammatura in monovelo o doppio velo).
Peraltro, i militari della Guardia di Finanza, nonostante abbiano eseguito un’attività ispettiva presso la sede dell’impresa della contribuente, non hanno ritenuto di ricercare elementi di prova estrinseci della conclusione delle supposte operazioni commerciali non fatturate quali, a titolo esemplificativo, documentazione contrattuale (scritture private, lettere commerciali, etc.) o movimenti di denaro (evincibili da documenti attinenti a rapporti creditizi) privi di adeguata giustificazione. A ciò deve aggiungersi che il metodo di calcolo utilizzato nel p.v.c. del 10.6.2016 definito “indiretto – presuntivo” suscita più di una perplessità che ne incrina l’affidabilità: i militari della Guardia di Finanza non spiegano se i prezzi medi utilizzati per il calcolo del controvalore delle operazioni commerciali non fatturate sono stabiliti con il criterio della media semplice o della media ponderata (attesa la diversità di risultati cui ciascuno criterio conduce; cfr. pag. n. 26 del p.v.c. citato); la mancata considerazione della variazione della resa delle singole bobine di carta o di grammatura (cfr. pag. n. 5 della contestazione), eccepita sub lett. d) delle osservazioni depositate ex art. 12 L. n. 212/00, in ordine alla quale l’ufficio muove delle confutazioni (che rimandano al p.v.c.) evanescenti e non centrate sull’oggetto della critica mossa dal contribuente; il criterio di definizione dei prezzi di vendita di ciascuna unità di prodotto (cfr. pag. n. 26 del p.v.c. citato) trova il proprio fondamento nelle dichiarazioni della legale rappresentante della contribuente, la quale tuttavia le priva di efficacia a pag. n. 39 del p.v.c. ove ella afferma che “la sottoscrizione (del verbale, n.d.a.) non è da intendersi non è da intendersi come tacita ammissione di quanto contenuto nel p.v. di constatazione”, dal che deve dedursi che alle indicazioni da essa fornite – per quanto in contraddittorio – nel p.v. di rilevamento delle giacenze del 31.5.2016 non può attribuirsi alcun valore confessorio o probatorio; a fronte delle censure sollevate dalla contribuente nelle controdeduzioni depositate nel precedente grado di giudizio (cfr. pag. n. 4) a proposito della inammissibile eterogeneità delle quattro grandezze oggetto della sommatoria su cui poggia il metodo “indiretto – presuntivo” (delle quali tre valorizzate “a costo” ed una valorizzata “a ricavo”), l’appellante non ha mai preso posizione
o mosso alcuna confutazione.
In conclusione, deve riconoscersi che appare condivisibile la motivazione resa sul punto dalla sentenza impugnata la quale, al netto di un eccesso di laconicità, asserisce che l’apparato probatorio approntato per la dimostrazione della consumazione dell’illecito in commento risulta incompleto ed insoddisfacente.
L’art. 13 comma 1 d. lgs. n. 471/97 prevede al primo periodo che “Chi non esegue, in tutto o in parte, alle prescritte scadenze, i versamenti in acconto, i versamenti periodici, il versamento di conguaglio o a saldo dell’imposta risultante dalla dichiarazione, detratto in questi casi l’ammontare dei versamenti periodici e in acconto, ancorché non effettuati, è soggetto a sanzione amministrativa pari al trenta per cento di ogni importo non versato, anche quando, in seguito alla correzione di errori materiali o di calcolo rilevati in sede di controllo della dichiarazione annuale, risulti una maggiore imposta o una minore eccedenza detraibile”.
All’appellata si imputa di non avere eseguito il versamento periodico dell’i.v.a. e segnatamente di non avere corrisposto dovuta in relazione alla mensilità di maggio 2013 e pari ad € 11.081,67, la quale non sarebbe stata riportata nella dichiarazione fiscale n. 10255119540 di prot. del 3.9.2014.
La consumazione di questo illecito non risulta adeguatamente provata.
Per un verso l’ufficio impositore non ha prodotto agli atti del presente giudizio tale dichiarazione fiscale, la quale soltanto offre la prova del proprio contenuto; essa è un documento proveniente dalla contribuente e quindi idoneo a fare prova contro di essa e custodito negli archivi dell’ufficio impositore (quindi di agevole reperimento); essa inoltre non può essere surrogata dal contenuto del p.v.c. del 10.6.2016 il quale – a tutto voler concedere – può fare piena prova (fino a querela di falso) dei fatti che il pubblico ufficiale attesta come da lui compiuti.
La prova della consumazione dell’illecito poggia invece su dichiarazioni dei militari della Guardia di Finanza di natura valutativa, atteso che essi descrivono nel p.v.c. lo svolgimento ed il contenuto della propria attività percettiva e le conclusioni da loro tratte; per tale ragione a tale parte del processo verbale non può attribuirsi la natura fidefaciente stabilita dall’art. 2700 c.c..
Per altro verso va osservato che la condotta che forma oggetto della fattispecie repressiva contestata all’appellata non è la presentazione di una dichiarazione fiscale infedele (in tal caso si farebbe questione dell’applicazione dell’art. 1 d. lgs. n. 471/97) ma la mancata esecuzione dei versamenti dell’imposta; e la prova inconfutabile della consumazione di tale condotta è costituita dalla quietanza (mod. F24 munito di debita attestazione di ricezione per l’incasso et similia) di pagamento del tributo rilasciata in esito o contestualmente alla presentazione della dichiarazione fiscale.
Soltanto tale documento dimostra inconfutabilmente l’ammontare delle imposte spontaneamente corrisposte nella fase della loro liquidazione volontaria e quindi consente di appurare se un determinato tributo è stato effettivamente corrisposto o meno, a prescindere dalle evidenze della dichiarazione in cui è stato esposto il relativo debito.
Un simile documento non è stato prodotto in atti (e neppure cercato o reperito) dall’ufficio impositore.
Ne consegue che l’illecito tributario ipotizzato a carico dell’appellata non può ritenersi dimostrato.
In conclusione, va statuito che non è stata provata la consumazione di nessuno degli illeciti contestati alla contribuente.
Le osservazioni finora esposte conseguono all’affermazione di principi di ordine generale che definiscono le astratte fattispecie sanzionatorie e che pertanto possono vanno applicati anche di ufficio (cfr. sul punto Cass. Civ. Sez. Trib. sent. n. 9094/17).
Non sussistono quindi le denunciate apparenza o lacunosità della motivazione della sentenza di primo grado; e, laddove esistenti, esse sono rimosse o colmate dalla motivazione della presente sentenza.
Non emerge poi dagli atti la violazione dell’ atteso che non sono in contestazione art. 41 bis d.p.r. n. 600/73 un’attività di accertamento o i relativi risultati.
Si sono spesi finora sufficienti argomenti al fine di comprovare l’inconsistenza del paragrafo del libello dell’appellante volto ad evidenziare la persuasività della prova presuntiva chiamata a sorreggere la dimostrazione della commissione delle violazioni.
Va soltanto dedicata una riflessione, in parte già anticipata, al paragrafo del medesimo libello volto ad evidenziare l’ipotetica fede privilegiata (superabile soltanto dall’accoglimento di un’eventuale querela di falso) del p.v.c. redatto in data 10.6.2016 dalla Compagnia di Trani della Guardia di Finanza.
Come già osservato, la peculiare attitudine probatoria garantita dall’atto pubblico ai sensi dell’art. 2700 c.c. coinvolge esclusivamente il suo profilo “estrinseco” ossia, come recita tale norma, la provenienza del documento dal pubblico ufficiale che lo ha formato e le dichiarazioni delle parti e degli altri fatti che il pubblico ufficiale attesta avvenuti in sua presenza o da lui compiuti; di contro essa non involge il profilo “intrinseco” ovvero la veridicità o la fondatezza di tali dichiarazioni come la fondatezza o l’affidabilità dei fatti compiuti o avvenuti in presenza del pubblico ufficiale che dell’atto è autore.
Discende da ciò che le dichiarazioni a contenuto valutativo presenti all’interno dell’atto pubblico (provengano esse dal suo autore o dagli altri soggetti che sono comparsi innanzi a tale autore) non possiedono la fede privilegiata costituita dalla piena prova fino a querela di falso.
Tale conclusione deve rassegnarsi per tutte quelle dichiarazioni rese nel p.v.c. del 10.6.2016 con le quali i militari della Guardia di Finanza non si limitano ad attestare il compimento di fatti ad opera propria o di terzi ma formulano ipotesi, esprimono giudizi, esaminano il contenuto di atti e documenti o traggono conclusioni; è infatti evidente la portata valutativa di tali dichiarazioni.
Ne consegue che l’atto di irrogazione di sanzioni n. ——/2018 deve ritenersi infondato; parimenti, infondata deve considerarsi la pretesa punitiva suo tramite esercitata.
Le spese e gli onorari di causa seguono il principio della soccombenza ex art. 15 comma 1 D. Lgs. n. 546/92; vanno pertanto liquidati, in riferimento al presente grado di giudizio, ai sensi del d.m. n. 140/12 (Capo III°), vigente al momento della sua definizione (cfr. Cass. SS.UU. civili sent. n. 17406/12), nella parte in cui disciplina i compensi dovuti agli appartenenti all’ordine dei commercialisti e degli esperti contabili poiché il difensore dell’appellata è un dottore commercialista.
Infatti, l’art. 15 comma quinquies d. lgs. n. 546/92 prevede che “I compensi agli incaricati dell’assistenza tecnica sono liquidati sulla base dei parametri previsti per le singole categorie professionali”.
Le spese e gli onorari di lite pertanto vengono quantificati ai sensi dell’art. 28 d.m. n. 140/12 (e del rimando in esso contenuto ai parametri presenti nella tabella C, ad esso allegata, riquadri 10.2 e 10.3) nella misura complessiva di € 1.014,00 (5% degli importi complessivi indicati nei riquadri 10.2. e 10.3 e quindi € 507,00 per l’attività di rappresentanza tributaria; € 507,00 per quella di consulenza tributaria), oltre al rimborso delle spese generali, dell’i.v.a. e del c.a.p. come per legge.
p.q.m.
la Corte di giustizia tributaria di 2° gr. della Puglia/3° Sezione così decide:
rigetta l’appello e, per l’effetto, conferma la sentenza n. 385/04/2020 della Commissione Tributaria Provinciale di Bari;
condanna l’appellante al pagamento delle spese e degli onorari di lite del presente grado di giudizio, che si liquidano in € 1.014,00, oltre al rimborso delle spese generali, dell’i.v.a. e del c.a.p. come per legge, da liquidare e corrispondere in favore del difensore dell’appellata dichiaratosi antistatario.
Così deciso in Bari nella camera di consiglio del 9.4.2025.
