Massima

La Corte di Cassazione, pur riaffermando la procedibilità d’ufficio del reato di violenza sessuale anche per connessione investigativa con altri reati, a prescindere dalla querela e dal momento della deposizione della persona offesa, e pur riconoscendo il diritto dell’imputato alla prova contraria in rito abbreviato a fronte di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale d’ufficio (seppur dichiarando inammissibile la doglianza nel caso specifico per mancata specificazione dell’oggetto della prova), ha annullato la condanna relativa al reato di atti persecutori a causa dell’insanabile contrasto tra dispositivo e motivazione della sentenza impugnata e per l’erronea configurazione del reato abituale su un singolo episodio.

Supporto alla lettura

RICORSO PER CASSAZIONE

Il ricorso per cassazione, nel processo penale, disciplinato dagli art. 606 e ss. c.p.c, è un mezzo di impugnazione ordinario, costituzionalmente previsto avverso i provvedimenti limitativi della libertà personale ed esperibile negli altri casi previsti dal codice di procedura penale, tramite il quale l’impugnante lamenta un errore di diritto compiuto dal giudice nell’applicazione delle norme di diritto sostanziale (c.d. error in iudicando) o di diritto processuale (c.d. error in procedendo).

Legittimata a ricorrere è la parte che vi abbia interesse e conseguentemente le parti necessarie quali l’imputato (a mezzo di difensore abilitato al patrocinio avanti le giurisdizioni superiori) e il pubblico ministero. Altresì, possono proporre ricorso anche le parti ritualmente costituite come la parte civile, civilmente responsabile, civilmente obbligato per la pena pecuniaria.

I giudici della Cassazione possono decidere soltanto nell’ambito dei motivi palesati dal ricorrente, in quanto il giudizio verte sulla fondatezza di tali motivi che devono corrispondere alle ipotesi tassativamente previste dall’art. 606 c.p.p.:

  • eccesso di potere;
  • error in iudicando;
  • error in procedendo;
  • mancata assunzione di una prova decisiva;
  • carenza o manifesta illogicità della motivazione.

Il ricorso può essere presentato da una parte o da un suo difensore, che deve essere iscritto ad un albo speciale predisposto dalla Corte stessa, (in mancanza viene nominato uno d’ufficio), quindi il Presidente della Cassazione assegna il ricorso ad una delle sei sezioni della Corte a seconda della materia e di altri criteri stabiliti dall’ordinamento giudiziario. Se rileva l’inammissibilità del ricorso, lo assegna alla VII Sezione Penale (c.d. Sezione Filtro), composta dai magistrati di Cassazione delle altre Sezioni Penali che vi si alternano a rotazione biennale. Entro 30 giorni la sezione adìta si riunisce in Camera di Consiglio e decide se effettivamente esiste la causa evidenziata dal Presidente, in mancanza rimette gli atti a quest’ultimo. Come nel procedimento civile, la Cassazione si riunisce a “Sezioni Unite” quando deve decidere una questione sulla quale esistono pronunce contrastanti della Corte di Cassazione stessa o per questioni di importanza rilevante.

Qualora non si proceda in camera di consiglio, l’art. 614 c.p.p. prevede l’ovvia fase dibattimentale. Particolarità è che la sentenza non viene emanata dopo la chiusura del dibattimento, ma subito dopo il termine dell’udienza pubblica. Tuttavia il presidente può decidere di differire la deliberazione ad un’udienza successiva se le questioni sono numerose o particolarmente importanti e complesse.

Sono quattro i tipi di sentenza che la Corte può emettere:

  • di inammissibilità;
  • di rigetto;
  • di rettificazione;
  • di annullamento (con rinvio o senza rinvio).

Come per il procedimento civile, anche nel processo penale è previsto il “ricorso per saltum“, cioè dal primo grado direttamente in Cassazione (art. 569 c.p.p.), è importante precisare che non si può ricorrere per saltum per i motivi alle lettere d) ed e) dell’art. 606 c.p.p. (prove non ammesse in giudizi di grado inferiore e per illogicità o motivazione carente nella sentenza) in quanto la Cassazione ha potere cognitivo di merito molto ristretto.

Ambito oggettivo di applicazione

Svolgimento del processo

1. (omissis) ha proposto ricorso nei confronti della sentenza della Corte d’Appello di Brescia che, oltre a confermare la sentenza del g.u.p. del Tribunale di Bergamo di condanna per i reati di cui all’art. 572 c.p. e art. 609 bis c.p. di cui ai capi a) e c) dell’imputazione, nel primo assorbito il reato di cui all’art. 612 c.p., comma 2, di cui al capo b), ha, in parziale riforma della stessa sentenza, dichiarato lo stesso (omissis) colpevole del reato di cui al capo d), riqualificato ex art. 572 c.p..

2. Con un primo ed un secondo motivo lamenta rispettivamente la violazione dell’art. 609 septies c.p.p., comma 4 e art. 529 c.p.p. nonchè la mancanza e manifesta illogicità della motivazione in ordine alla sussistenza della connessione tra il reato di violenza sessuale di cui al capo c) e il reato di maltrattamenti di cui al capo a) tale da determinare la procedibilità d’ufficio del primo, in assenza di querela mai presentata dalla persona offesa.

In particolare contesta il ragionamento dei giudici secondo cui nella specie si verserebbe non solo in ipotesi di connessione investigativa ma anche e soprattutto di connessione probatoria tra i due reati ed inoltre di connessione anche a norma dell’art. 12 c.p.p., lett. c) posto che il reato di violenza sarebbe stato commesso anche per eseguire il reato di maltrattamenti; lamenta che in tal modo la Corte non abbia motivato sulle ragioni che l’hanno portata a disattendere quanto statuito dalla Corte di cassazione in particolare con la decisione n. 31604 del 2011; nè sarebbe corretta la conclusione in ordine alla connessione probatoria posto che, come evidenziato dalla formulazione dei capi d’imputazione a) e c) tali delitti devono ritenersi del tutto autonomi sotto il profilo probatorio non avendo gli atti di violenza sessuale incidentalmente narrati dai testi influito minimamente sulla sussistenza delle condotte di maltrattamenti. Nella specie inoltre le indagini relative ai maltrattamenti hanno condotto solo incidentalmente alla conoscenza dei presunti atti di violenza sessuale e nessun ulteriore atto di indagine venne compiuto al fine di accertare tali ultime condotte.

Anzi, la dimostrazione della insussistenza di ogni connessione investigativa è dimostrata dall’assunzione avvenuta solo di ufficio nel giudizio di appello di quella che è stata la prova del reato, cioè la deposizione in ordine alla contestazione del reato di violenza sessuale della persona offesa. Contesta anche le considerazioni in ordine al fatto che gli atti di violenza sessuale farebbero parte di un unico disegno criminoso nel quale rientrerebbero anche i maltrattamenti, essendo tale affermazione del tutto apodittica, essendo la sussistenza di tale disegno mai stata contestata in sede di indagini e di richiesta di rinvio a giudizio.

3. Con il terzo e il quarto motivo lamenta, sotto il rispettivo profilo della violazione di legge e del difetto ed illogicità della motivazione, che la corte d’appello abbia respinto la richiesta della difesa di termine al fine dell’esercizio del diritto alla prova contraria conseguente all’esame d’ufficio della persona offesa sul presupposto della scelta dell’imputato di essere giudicato con rito abbreviato non condizionato. In particolare deduce il contrasto di tale decisione con i principi affermati dalla corte di cassazione secondo cui all’imputato che abbia richiesto il rito abbreviato senza integrazioni probatorie deve essere riconosciuto il diritto alla controprova dopo l’assunzione delle prove ammesse d’ufficio a norma dell’art. 441 c.p.p., comma 5; e nella specie la negazione del diritto alla controprova è stata tanto più grave in quanto l’esame testimoniale della persona offesa ha assunto rilievo decisivo ai fini del giudizio di responsabilità in ordine al reato di cui al capo c), trattandosi della prima deposizione resa dalla persona offesa a quasi sei anni dal verificarsi degli asseriti episodi di violenza. Detta decisione sarebbe inoltre stata assunta in violazione dell’art. 111 Cost. e dell’art. 6 della Convenzione edu sotto il profilo del diritto al giusto processo e del diritto di esaminare i testi a discarico.

4. Con un quinto, sesto e settimo motivo contesta, sotto i diversi profili della negazione di sussistenza del diritto alla controprova, della mancata assunzione di prova decisiva a fronte di rinnovazione dell’istruzione dibattimentale e di manifesta illogicità della motivazione, la decisione della Corte d’appello con cui è stata negata la richiesta perizia psichiatrica per valutare la capacità d’intendere e di volere dell’imputato al momento della commissione dei fatti. Deduce come, solamente a seguito delle dichiarazioni rese dalla persona offesa dinanzi alla Corte d’appello, fosse emersa la sussistenza di uno stato psicologico dell’imputato gravemente compromesso e tale da incidere sulle sue capacità intellettive;

sicchè era stato richiesto, in subordine al riconoscimento della sussistenza di vizio totale di mente dell’imputato o del vizio parziale, la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale al fine di disporre perizia psichiatrica finalizzata ad accertare se nel periodo relativo ai fatti contestati imputato fosse capace di intendere e di volere. Lamenta che, mentre la memoria difensiva faceva riferimento alle nuove e prime dichiarazioni della persona offesa in ordine alla percezione materiale ed effettiva dello stesso circa le reali condizioni psicofisiche dell’imputato all’epoca dei fatti, la Corte ha illegittimamente valorizzato i riferimenti al ricovero presso il reparto di psichiatria dell’ospedale di Albano e agli insuccessi dei tentativi di disintossicazione presso cliniche specializzate che già emergevano dal primo grado di giudizio.

5. Con un ottavo, nono e decimo motivo deduce rispettivamente: la violazione dell’art. 111 Cost. e 2 protocollo n. 7 della Convenzione edu giacchè la sola circostanza che unicamente nel giudizio di appello siano state assunte le dichiarazioni della persona offesa, mai sentita prima, e che detta testimonianza sia stata assunta con successivo diniego del diritto di controprova, dimostra la violazione nella specie del diritto di difesa e del diritto al doppio grado di giudizio riconosciuto dal codice di rito e desumibile dal principio costituzionale del giusto processo; la violazione degli artt. 192530 e 533 c.p.p. nonchè il vizio di motivazione per non avere la Corte d’appello motivato su quanto dedotto nella memoria depositata in udienza del 18 febbraio 2014, ove si era rimarcato l’assoluto silenzio della persona offesa su atti di violenza sessuale subiti sia nelle querele presentate che nelle sommarie informazioni testimoniali pur rese dopo che la persona offesa era ormai uscita di casa e non aveva dunque nulla da temere dal marito; l’omessa motivazione su quanto rilevato in atto d’appello con riferimento alle dichiarazioni de relato rese dai testimoni (omissis), (omissis), (omissis) e (omissis), ritenute dalla Corte come elementi di riscontro, ma in realtà del tutto generici.

6. Con un undicesimo, dodicesimo e tredicesimo motivo lamenta, per le ragioni già esposte sopra, la violazione di legge e il vizio motivazionale quanto al mancato riconoscimento del vizio di mente ex art. 88 c.p. comunque del vizio parziale ex art. 89 c.p..

7. Con un quattordicesimo motivo lamenta la mancanza e illogicità della motivazione e comunque violazione di legge in ordine al mancato riconoscimento della circostanza attenuante della minor gravita del fatto. Deduce in particolare che la Corte d’appello si è limitata a rilevare la gravita del fatto da un punto di vista meramente oggettivo senza prendere in considerazione il contesto nel quale il fatto si sarebbe svolto e l’atteggiamento psicologico dell’imputato in particolare avendo i dati processuali emersi, ed in special modo le dichiarazioni rese da (omissis), dimostrato un mutamento repentino nei rapporti di coppia, che fino ad un certo punto erano consistiti anche in una forte intesa sessuale tra marito e moglie, tale da non poter non incidere sull’elemento soggettivo del reato e comunque ai fini della concessione della richiesta attenuante.

8. Con un quindicesimo motivo lamenta, con riguardo alla configurabilità della fattispecie di maltrattamenti di cui al capo a) della condanna, mancanza di motivazione e violazione dell’art. 572 c.p. avendo la Corte d’appello rimandato meramente al contenuto della sentenza di primo grado senza fornire alcuna motivazione sulla invocata non inquadrabilità degli episodici atti lesivi in una cornice unitaria caratterizzata dall’imposizione di un regime di vita oggettivamente vessatorio.

9. Con un sedicesimo, diciassettesimo e diciottesimo motivo lamenta la violazione dell’art. 612 bis c.p. per avere la Corte, senza motivare su quanto rilevato con la memoria depositata all’udienza del 18/02/2014, ritenuto sussistente la fattispecie di atti persecutori a fronte di un unico episodio, ovvero quello dell’8 marzo 2009 contestato dopo l’entrata in vigore della nuova fattispecie di reato, essendo gli altri episodi tutti antecedenti al 25 febbraio 2009.

Inoltre deduce come la cessazione del rapporto di convivenza a seguito di separazione legale o di fatto determini il permanere del reato di maltrattamenti, rimanendo invece quello di atti persecutori assorbito in tale fattispecie.

10. Con un diciannovesimo motivo lamenta, sempre con riferimento al reato di atti persecutori di cui al capo d) dell’imputazione il contrasto tra le motivazioni della sentenza d’appello e il dispositivo della stessa con conseguente violazione degli artt. 545 e 546 c.p.p. avendo la Corte, nel dispositivo, dichiarato (omissis) colpevole del reato di cui al capo d), riqualificato nel reato di cui all’art. 572 c.p., mentre nella motivazione lo ha ritenuto colpevole anche del reato di atti persecutori, tenendone altresì conto nella determinazione della pena.

Motivi della decisione

11. Il primo e secondo motivo sono infondati.

Il ricorrente fa leva, per contestare le argomentazioni della sentenza impugnata, sul fatto che la connessione cui si riferisce l’art. 609 septies c.p., comma 4, n. 4, dovrebbe essere unicamente quella di cui all’art. 12 c.p.p., e non nel senso della sufficienza, anche solo, di una connessione investigativa; ma tale assunto, che, nella giurisprudenza di questa Corte, si ritrova nella sola pronuncia della Sez. 2, n. 31604 del 16/07/2011, Valentino e altro, Rv. 250894, è costantemente contraddetta dall’uniforme indirizzo secondo cui, invece, in materia di delitti di violenza sessuale, la procedibilità d’ufficio determinata dalla ipotesi di connessione prevista dall’art. 609-septies c.p., comma 4, n. 4 si verifica non solo quando vi è connessione in senso processuale ex art. 12 c.p.p., ma anche quando v’è connessione in senso materiale, cioè ogni qualvolta l’indagine sul reato perseguibile di ufficio comporti necessariamente l’accertamento di quello punibile a querela, in quanto siano investigati fatti commessi l’uno in occasione dell’altro, oppure l’uno per occultare l’altro oppure ancora quando ricorrono i presupposti di uno degli altri collegamenti investigativi indicati nell’art. 371 c.p.p. (tra le tante, da ultimo, Sez. 3, n. 10217 del 10/02/2015, p.o. in proc. G., Rv. 262654; Sez. 3, n. 2856/14 del 16/10/2013, B., Rv. 258583; Sez. 3, n. 2876/07 del 21/12/2006, P.G. in proc. Crudele, Rv. 236098). Si è in particolare precisato che la ragione della perseguibilità d’ufficio dei delitti contro la libertà sessuale non risiede nel disinteresse dello Stato al perseguimento degli stessi, ma nella necessità di bilanciare l’esigenza del perseguimento dei colpevoli con l’esigenza della riservatezza delle persone offese, esigenza che viene meno proprio nel caso in cui le indagini su fatti perseguibili d’ufficio abbiano attinto alla riservatezza delle persone offese per connessi reati sessuali, nel caso in cui questi siano stati commessi in occasione degli altri, o per conseguirne o assicurarne al colpevole o ad altri il profitto, il prezzo, il prodotto o l’impunità, ovvero se la prova di un reato o di una circostanza influisce sulla prova di un altro reato o di un’altra circostanza o se la prova di più reati deriva anche parzialmente dalla stessa fonte.

Si è poi aggiunto, sul piano strettamente letterale, che l’art. 609 septies c.p. non richiama espressamente l’art. 12 c.p.p., con la conseguenza che non vi è la necessità che il riferimento alla “connessione” in esso contenuto sia interpretato in senso restrittivo.

Nè la connessione investigativa cui la giurisprudenza maggioritaria fa riferimento non rappresenta una forma “atipica” di connessione, essendo essa compiutamente disciplinata dall’art. 371 c.p.p., comma 2, lett. b) e c). E, nella specie, la sentenza impugnata, oltre a sottolineare, in ogni caso, la ravvisabilità della connessione ex art. 12 c.p.p. sul presupposto della sussistenza di un medesimo disegno criminoso alla base dei reati di violenza sessuale e di maltrattamenti, ha fatto appunto corretta applicazione del principio appena ricordato.

Nè assume rilievo ostativo l’argomento secondo cui la persona offesa, mai esaminata prima, avrebbe deposto sugli atti sessuali subiti unicamente in sede d’appello, posto che la conoscenza del reato di violenza sessuale risulta nella specie essere emersa anteriormente a tale deposizione già sulla base delle sommarie informazioni testimoniali rese, tra gli altri, da (omissis), (omissis), (omissis) e (omissis) proprio grazie alle indagini preliminari originariamente aperte per i reati perseguibili d’ufficio.

12. Il terzo e quarto motivo sono inammissibili, pur a fronte della erronea affermazione, da parte della Corte territoriale, dell’inesistenza, in capo all’imputato, di un diritto alla prova contraria conseguente all’esame d’ufficio della persona offesa disposto ed attuato, mediante rinnovazione dell’istruzione dibattimentale ex art. 603 c.p.p., comma 3, dalla Corte d’Appello. La sentenza impugnata ha infatti escluso, non concedendo il termine a difesa che era stato richiesto all’uopo, che la parte che abbia richiesto la definizione del giudizio mediante il rito abbreviato possa vantare il diritto alla prova contraria (“vertendosi in giudizio allo stato degli atti non compete alle parti la facoltà di prova contraria”) ed ha inoltre evidenziato in ogni caso l’inutilità della prova stessa ponendo in rilievo che ai fatti sarebbero stati comunque presenti unicamente l’imputato e la persona offesa.

Ora, una tale affermazione appare sicuramente erronea: da un lato perchè si pone in contrasto con il principio, più volte affermato da questa Corte, secondo cui la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale disposta nel giudizio di appello, anche a seguito di rito abbreviato, implica il diritto delle parti all’ammissione della prova contraria (da ultimo, Sez. 3 n. 5863 del 23/11/2011, G. e altro, Rv. 252128; Sez. 5, n. 11954 del 08/02/2005, Marino, Rv. 231714) e, dall’altro, perchè appare illogicamente confinare gli elementi probatori relativi a reati sessuali che si consumano senza che ad essi assistano terzi, alle sole dichiarazioni di imputato e persona offesa.

Ciò posto, tuttavia, come già anticipato, i motivi sono inammissibili non avendo il ricorrente specificato, come necessario al fine di rendere decisiva la doglianza, quale avrebbe dovuto essere l’oggetto della prova contraria rimasto ancora a tutt’oggi del tutto ignoto.

13. Il quinto, sesto e settimo motivo sono infondati.

Ribadito infatti che spetta al giudice di merito la valutazione delle risultanze processuali per apprezzare, con giudizio insindacabile in sede di legittimità se sorretto da adeguata motivazione, la meritevolezza di una richiesta di perizia psichiatrica (Sez. 6, n. 456 del 21/09/2012, Cena e altri, Rv. 254226), nella specie la sentenza impugnata, dopo avere puntualizzato che le circostanze relative alle condizioni di salute dell’imputato non sarebbero affatto emerse per la prima volta a seguito delle dichiarazioni in sede di appello da parte della persona offesa essendo anzi già presenti sin dal primo grado, ha posto in evidenza la desumibilità dagli atti di null’altro che di uno stato di dipendenza dallo stupefacente che, di per sè, non esclude nè diminuisce l’imputabilità una volta escluso che si versi, come neppure sostenuto dall’imputato, in ipotesi di cronica intossicazione; e tale affermazione la sentenza ha motivatamente fondato sulla regolarità degli esami neurologici desumibile dal foglio di autodimissioni dalla clinica privata “(omissis)” in data (omissis). A ciò consegue, per evidente correlazione, l’infondatezza anche dell’undicesimo, dodicesimo e tredicesimo motivo.

14. Anche l’ottavo, nono e decimo motivo sono infondati.

Esclusa, per le ragioni già indicate sopra, la possibilità di far utilmente valere la doglianza relativa al diniego della prova contraria, ed escluso altresì che il fatto che la persona offesa sia stata esaminata unicamente in grado d’appello possa di per sè rappresentare una violazione del diritto di difesa e del giusto processo (l’esame si è evidentemente svolto nel contraddittorio delle parti con le stesse forme e modalità con le quali avrebbe potuto svolgersi in primo grado), va osservato che la sentenza impugnata appare avere puntualmente argomentato, a pagg. 9 e 10, in ordine al profilo della valutazione del compendio probatorio, essenzialmente fondato sulle dichiarazioni della persona offesa e sul riscontro estrinseco ad esse fornito dalle dichiarazioni dei testimoni de relato. In particolare i giudici di appello hanno fornito una spiegazione logica in ordine al ritardo nella denuncia da parte della donna (che nel corso di una deposizione sofferta e rotta dal pianto ha spiegato di non avere voluto aggravare la posizione dell’imputato, pur sempre padre dei suoi figli, e di averne temuto possibili reazioni violente) e sul fatto comunque dei riscontri considerati, essenzialmente provenienti, in ordine a tutti gli abusi subiti, narrati con sofferenza e senza intenti risarcitori (come dimostrato del resto dalla mancata proposizione di querela), dalle dichiarazioni della sorella, degli amici (omissis), (omissis) e (omissis) e del cognato (omissis), tutti depositari, nell’immediatezza dei fatti, del resoconto delle violenze subite.

15. Il quattordicesimo motivo è inammissibile, limitandosi ad invocare, quale preteso fattore di attenuazione della gravita delle violenze sessuali, un elemento di fatto (quello della pregressa intesa sessuale che in qualche modo avrebbe influito anche sulla non esatta comprensione da parte dell’imputato dell’altrui dissenso) contrastato dalle motivazioni rese sul punto dalla sentenza impugnata (si veda in particolare nota 5 a pag. 11) e comunque chiaramente recessivo rispetto alle modalità, evidenziate dalla sentenza, particolarmente violente delle condotte tra l’altro poste in essere ripetutamente.

16. Anche il quindicesimo motivo di ricorso, volto a lamentare la mancanza degli elementi costitutivi del reato di maltrattamenti, ed in particolare della caratteristiche vessatorie delle condotte, è infondato: basta sul punto rammentare, quanto in particolare al requisito dell’abitualità, come la sentenza di primo grado abbia, nelle pagg. 6 e 7 richiamate dalla sentenza di appello a pag. 11, posto in evidenza che il cognato della persona offesa venne chiamato a casa della donna da ottobre 2007 a febbraio 2008 “almeno venti – trenta volte, sempre in orario serale, a causa delle minacce e della violenza, anche sessuale, che la cognata subiva ad opera del marito”.

17. E’ invece fondato il diciannovesimo motivo di ricorso, logicamente pregiudiziale rispetto al sedicesimo, diciassettesimo e diciottesimo.

La sentenza impugnata, a seguito di appello interposto dal P.M., ha ritenuto, nel dispositivo, la sussistenza della responsabilità dell’imputato con riferimento al “reato di cui al capo d) della rubrica, riqualificato il fatto ai sensi dell’art. 572 c.p.” mentre, nella parte motiva, ha affermato che “(omissis) ha commesso nel lasso di tempo indicato atti definibili come persecutori ai sensi dell’art. 612 bis c.p. che avevano ingenerato nella persona offesa il descritto stato di ansia e di paura, in relazione al quale la donna chiedeva tutela alle forze dell’ordine”. E’ perciò evidente come il contenuto della motivazione ed il contenuto del dispositivo, siano, sul punto, tra loro contrastanti e che, dovendo darsi prevalenza, secondo la regola generale più volte enunciata da questa Corte, e qui non derogabile, al dispositivo in quanto espressione dell’elemento decisionale (tra le altre, Sez. 2, n. 25530 del 20/05/2008, P.G. in proc. Laini, Rv. 240649; Sez. 5, n. 4973 del 18/10/1999, Cucinotta, Rv. 215769), sia del tutto mancante la motivazione relativa al reato di maltrattamenti per il quale è intervenuta condanna.

Va peraltro aggiunto che, con riferimento al reato di atti persecutori, del quale, come appena detto, la Corte ha ritenuto in motivazione la sussistenza, questa Corte ha già affermato che il delitto di atti persecutori, in quanto reato necessariamente abituale, non è configurabile in presenza di un’unica, per quanto grave, condotta di molestie e minaccia, neppure unificando o ricollegando la stessa ad episodi pregressi oggetto di altro procedimento penale attivato nella medesima sede giudiziaria, atteso il divieto di bis in idem (Sez. 5, n. 48391 del 24/09/2014, C, Rv. 261024); nella specie, invece, come puntualmente lamentato dal ricorrente, la Corte territoriale, dopo avere riconosciuto la possibilità di ravvisare il reato contestato solo con riferimento al periodo ricompreso tra il 25/02/2009, quale data di introduzione della fattispecie penale nell’ordinamento, e la fine di marzo del 2009, quale momento di consumazione del reato così come indicata in imputazione, pare avere individuato il solo fatto del 08/03/2008 come espressivo del reato di atti persecutori.

18. In definitiva, rigettato il ricorso con riferimento a tutte le altre doglianze, si impone l’annullamento della sentenza quanto al reato di cui al capo d) dell’imputazione con rinvio ad altra sezione della Corte d’Appello di Brescia che, nel procedere a nuovo esame dell’appello del P.M.., dovrà attenersi anche al principio appena ricordato sub 17.

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata limitatamente al reato di cui al capo d) dell’imputazione e rinvia ad altra sezione della Corte d’Appello di Brescia; rigetta il ricorso nel resto.

Così deciso in Roma, il 30 giugno 2015.

Depositato in Cancelleria il 6 ottobre 2015

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