Fatti di causa
1. La Corte di appello di Bologna ha confermato la sentenza di prime cure che aveva rigettato la domanda proposta da una lavoratrice nei confronti della società datrice di lavoro volta ad ottenere la condanna al risarcimento del danno da demansionamento oltre che di quello conseguente all’insorgenza di una patologia tendinea e della cuffia dei rotatori della spalla destra e del tunnel carpale alla mano, ai sensi dell’art. 2103, 2087, 2043 e 2049 cod. civ. e per ottenere la tutela reale ai sensi dell’art. 18 della legge n. 300 del 1970.
La Corte ha accertato che la lavoratrice, inquadrata nel III livello del c.c.n.l., non era stata assunta come capo reparto, come tardivamente allegato in appello, ed era stata sempre adibita a mansioni riconducibili a quelle di commesso specializzato provetto, rientranti nel livello posseduto.
2. La Corte, poi, ha verificato che le patologie lamentate – di cui ha evidenziato l’eziopatogenesi multifattoriale – non erano ricollegabili all’attività svolta, ed erano insorte già prima dell’inizio del rapporto. In definitiva è stato escluso che fosse ravvisabile una negligenza da parte della società datrice che non aveva assecondato una prima richiesta della lavoratrice di essere spostata ad altre mansioni atteso che non era stata supportata da documentazione medica.
Per la Corte, quindi, alcun inadempimento in capo alla società è imputabile e, dunque, alcuna illegittimità è ravvisabile nel licenziamento intimato per la sopravvenuta inidoneità fisica, anche in virtù del fatto che la lavoratrice non aveva allegato a quali mansioni avrebbe potuto essere adibita né se vi erano posti disponibili corrispondenti con la professionalità acquisita.
3. Per la cassazione della sentenza propone ricorso la lavoratrice, la società resiste con controricorso.
Motivi della decisione
4. Con il primo motivo di ricorso la ricorrente deduce che la sentenza sarebbe incorsa nell’ omesso esame del tra dispositivo letto in udienza e la motivazione sul governo delle spese, precisando che con il primo la lavoratrice era condannata alle spese mentre in motivazione le stesse erano compensate. La lavoratrice denuncia una errata applicazione della norma perché erroneamente era stato ritenuto prevalente il contenuto del dispositivo rispetto a quello della motivazione.
La ricorrente impugna la decisione di merito nella parte in cui ha dichiarato che in presenza di una tale difformità il dictum contenuto nel dispositivo letto in udienza acquisisce pubblicità con tale lettura e cristallizza stabilmente la decisione assunta nella fattispecie concreta. Per la Cassazione il giudice di appello ha correttamente ritenuto che il dispositivo letto all’esito dell’udienza prevale sulle enunciazioni della motivazione, che sono per loro definizione inidonee a costituire giudicato, allorquando le stesse siano in contrasto e siano incompatibili con il dictum del dispositivo.
5. Con il secondo motivo di ricorso è denunciata la violazione dell’art. 112 cod. proc.civ. e dell’art. 1362 cod.civ. oltre che l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio.
La ricorrente sostiene che la Corte di merito ha erroneamente ritenuto che la lavoratrice avesse denunciato il demansionamento con riguardo alla qualifica di capo reparto (secondo livello) laddove invece era stato denunciato che assunta nel terzo livello, a cui competono mansioni prevalentemente di concetto, la ricorrente era stata invece assegnata a mansioni esecutive semplici che erano invece riconducibili al quarto livello del c.c.n.l.
Per la Cassazione anche il secondo motivo è infondato.
La Suprema Corte sofferma la propria attenzione sull’iter logico-giuridico volto alla verifica del denunciato demansionamento, specificando che esso consta di tre fasi successive: occorre innanzitutto accertare in fatto le attività lavorative in concreto svolte, occorre poi individuare le qualifiche e i gradi previsti dal contratto collettivo di categoria, bisogna poi effettuare un raffronto tra il risultato della prima indagine e le previsioni della normativa contrattuale individuati nella seconda.
Non v’è errore di valutazione da parte di Giudici di merito i quali hanno analizzato le caratteristiche astratte del profilo posseduto (il terzo) e di quello inferiore (il quarto). Ha tenuto conto delle mansioni in concreto svolte dalla lavoratrice e, alla luce della istruttoria espletata, ha escluso che si fosse realizzato il demansionamento denunciato.
Per i Giudici di Piazza Cavour, la censura della ricorrente si risolve, nella sostanza, in una richiesta di differente ricostruzione dei fatti che non è consentita nel giudizio di legittimità.
6. La Corte rigetta anche il terzo motivo di ricorso, con il quale viene denunciata la violazione dell’art. 2103 cod. civ., dell’art.13 della legge n. 300 del 1970, degli artt. 3 e 103 c.c.n.l. 14.12.1990 e degli artt. 112, 113, 115 e 116 cod.proc.civ.., in considerazione del fatto che anche con detto motivo la ricorrente propone una diversa e più favorevole ricostruzione dei fatti accertati nell’istruttoria svolta.
Come già chiarito dalla Cassazione, non può essere denunciata una erronea valutazione del materiale istruttorio compiuta dal giudice di merito, potendosi denunciare, in sede di legittimità, esclusivamente la circostanza che il giudice di merito abbia posto a base della decisione prove non dedotte dalle parti, ovvero disposte d’ufficio al di fuori dei limiti legali, o abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova soggetti invece a valutazione. Nessuna di queste evenienze è ravvisabile nella specie.
Escluso il denunciato demansionamento restano assorbiti le censure che attengono al danno anche sotto il profilo della denunciata perdita di chances.
7. Con il quarto motivo di ricorso la ricorrente sostiene che la Corte di merito, nell’avallare le conclusioni del consulente, non si è avveduta della loro intrinseca contraddittorietà e della mancata adozione di un metodo scientifico specifico per le malattie lavoro correlate. Da tali premesse la ricorrente fa discendere l’illegittimità del licenziamento intimatole oltre che il suo diritto al risarcimento del danno.
La Cassazione ribadisce che con il ricorso per cassazione la parte non può rimettere in discussione, proponendo una propria diversa interpretazione, la valutazione delle risultanze processuali e la ricostruzione della fattispecie operate dai giudici del merito poiché la revisione degli accertamenti di fatto compiuti da questi ultimi è preclusa in sede di legittimità, soprattutto in virtù del fatto che il giudice di merito ha esplicitato le ragioni della sua adesione alle risultanze peritali senza incorrere in vizi procedurali.
8. La Suprema Corte, quindi, rigetta il ricorso, statuendo, seguendo il principio della soccombenza, in merito alle spese di lite.
P.Q.M.
rigetta il ricorso.
Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che si liquidano in € 5.300,00 per compensi professionali, € 200,00 per esborsi, 15% per spese forfetarie oltre agli accessori dovuti per legge.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello versato per il ricorso a norma dell’art.13 comma 1 bis del citato d.P.R., se dovuto.