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Cassazione civile sez. II, 22/08/2022, n. 25095

Massima

In tema di usucapione opposta ad azione di rivendicazione, qualora l’alienante di un immobile ne mantenga la disponibilità materiale dopo il trasferimento della proprietà, non si può ritenere configurato un costituto possessorio implicito che trasformi automaticamente il suo possesso in mera detenzione.

Supporto alla lettura

USUCAPIONE

L’usucapione è un modo di acquisto a titolo originario della proprietà mediante il possesso continuativo del bene immobile o mobile per un periodo di tempo determinato dalla legge. L’istituto dell’usucapione, disciplinato dagli articoli 1158 e seguenti del codice civile, configura una delle ipotesi di acquisto di un diritto su beni mobili o immobili a titolo originario. Per il suo compimento infatti, a differenza degli acquisti a titolo derivativo, non necessita della collaborazione o del consenso di chi era in precedenza titolare del diritto usucapito. Per l’usucapione sono necessari i seguenti requisiti:

• La prima è l’“animus possidendi” cioè la a volontà di possedere un bene come si fosse titolari del diritto di proprietà o dell’altro diritto corrispondente.

• La seconda è l’“animus rem sibi habendi” cioè la volontà di tenere un bene esercitando i poteri corrispondenti a quelli del titolare del diritto reale.

• La terza è il “corpus possessionis”. Questo è lo stato di fatto che si configura in modo tale da far apparire il possessore quale titolare del diritto reale corrispondente.

Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 5087, depositata il giorno 5 marzo 2014 riconoscono la possibilità di usucapire l’azienda con il possesso continuato ventennale. Secondo la Suprema Corte l’azienda, ai fini della disciplina del possesso e dell’usucapione, quale complesso di beni organizzati per l’esercizio dell’impresa, deve essere considerata come un bene distinto dai singoli beni che la compongono, e quindi suscettibile di essere unitariamente posseduta e, nel concorso degli altri elementi indicati dalla legge, usucapita. Secondo la Corte, se il possesso si esercita sulla cosa, e se si intende il termine “cosa” in senso economico-sociale, si possono considerare “cose” anche beni non corporei, come i beni immateriali (proprietà intellettuale, ad esempio) o complessi di beni organizzati, come ad esempio l’azienda, definita dal codice civile stesso come complesso organizzato di beni per l’esercizio di una impresa.

La Corte esprime una concezione “oggettivata” dell’azienda che, senza cancellare il suo collegamento organizzativo e finalistico con l’attività d’impresa, assume una propria autonomia di “cosa”, possibile oggetto di rapporti giuridici e di diritti. Occorre a tal fine separare l’azienda intesa come cosa, dall’insieme dei singoli beni e dall’esercizio dell’impresa.

I giudici in tal senso adducono quali esempi tipici di dissociazione tra proprietà dell’azienda intesa come “res” e esercizio dell’impresa il caso della successione mortis causa a favore di soggetti non imprenditori, l’affitto e l’usufrutto di azienda.

In tutti questi casi la proprietà della stessa è sganciata dal suo esercizio, in quanto l’azienda è nella disponibilità del proprietario della “cosa” senza che da parte dello stesso vi sia esercizio dell’attività di impresa.

Ambito oggettivo di applicazione

Svolgimento del processo

1. – Con citazione del 2010, (omissis), odierno resistente in cassazione, convenne in giudizio i coniugi (omissis) e (omissis), odierni ricorrenti in cassazione, per il rilascio di una villetta monofamiliare sita in (omissis), sulla base di una compravendita del 1978, ove figuravano come venditori i coniugi convenuti e come acquirente il padre dell’attore, (omissis).

2. – Gli antefatti risalgono, appunto, agli anni ‘70 del secolo scorso, quando i coniugi (omissis) – (omissis) intrapresero la costruzione della villetta. Rendendosi conto di aver bisogno di ulteriori mezzi finanziari per condurre a termine l’impresa, narrano di aver chiesto un prestito al fratello di (omissis), (omissis), il quale acconsentì a patto di ottenere il trasferimento in proprietà della villetta in costruzione. In effetti, ciò avvenne con la compravendita del 1978 che è posta alla base dell’azione di rilascio proposta dal figlio. Infatti, dopo aver finito di costruire la villetta, i coniugi (omissis) – (omissis) ne rimasero nella disponibilità, senza che (omissis) intraprendesse alcuna azione contro di essi.

3. – Negli anni ‘90, (omissis), in qualità di procuratore del padre, intraprese un primo processo di rilascio dell’immobile (sulla base del titolo del 1978), convenendo nel giudizio di cognizione (omissis). (omissis) si vide accogliere la domanda in primo e in secondo grado, rispettivamente nel 1997 e 1998. Avviato il processo esecutivo, (omissis) propose opposizione di terzo all’esecuzione, che fu accolta nel 2004, in grado di appello. La Corte di appello di Catania constatò, infatti, che (omissis) non disponeva di valida procura ad agire per il padre.

4. – Nel 2010 (omissis), divenuto avente causa del padre (in forza di donazione), instaurò, come ricordato all’inizio, l’odierno processo di rilascio. I coniugi convenuti proposero due domande riconvenzionali: in via principale, di simulazione della compravendita del 1978; in subordine, di mero accertamento del loro diritto di proprietà sul bene, acquisito per usucapione in virtù di un possesso protrattosi ininterrottamente. (omissis) è riuscito vittorioso in primo grado e in appello.

5. Ricorrono in cassazione i coniugi (omissis) – (omissis) con tre motivi, illustrati da memoria. Resiste (omissis) con controricorso.

Motivi della decisione

1. – Con il primo motivo (proposto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4) si deduce violazione o falsa applicazione degliartt. 948 e 2697 c.c., nonchè violazione dell’art. 100 c.p.c., per avere la Corte di appello, da un lato, qualificato la domanda introduttiva come esercizio di un’azione di rivendicazione e, dall’altro lato, esonerato l’attore dalla prova del suo diritto di proprietà.

Con il secondo motivo (proposto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4) si deduce violazione o falsa applicazione degli artt. 1417, 2596, 2697 e 2729 c.c., nonchè violazione degliartt. 112, 113, 115 e 342 c.p.c., perchè non avere la Corte di appello ritenuto che la compravendita del 1978 dissimulasse un illecito patto commissorio.

Con il terzo motivo (proposto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4) si deduce violazione o falsa applicazione degli artt. 922, 948, 1158 c.c., nonchè la nullità della sentenza per violazione degliartt. 112, 113 e 115 c.p.c., per avere la Corte di appello omesso di pronunciarsi sulla domanda riconvenzionale di accertamento dell’usucapione.

2. – Per priorità logica, il Collegio reputa di doversi pronunciare dapprima sul terzo motivo di ricorso.

Con esso i ricorrenti lamentano che il giudice di primo grado abbia accolto la domanda di rivendicazione e che il giudice di appello abbia confermato la pronuncia senza prendere in considerazione l’applicabilità dell’art. 948 c.c., comma 3, il quale, dinanzi ad un’azione di rivendicazione fa salvi gli effetti dell’acquisto della proprietà per usucapione. In particolare, i coniugi (omissis) – (omissis) fanno valere un possesso ultratrentennale con volontà di possedere uti domini, a fronte del quale la Corte d’appello si è limitata ad osservare: “nella fattispecie in esame gli appellanti non dimostrano nulla in ordine all’elemento soggettivo in modo da dimostrare la situazione di possesso, in quanto fanno riferimento solo alla disponibilità del bene da più di vent’anni, circostanza, questa (…) inidonea nella specie per l’acquisto del diritto reale per usucapione, potendo essere espressione sia di una detenzione in nome altrui, sia di un vero e proprio possesso”.

3. – Il motivo è fondato. Di esso, in particolare, sono accolte le censure di violazione dell’art. 1158 c.c., che prevede l’acquisto della proprietà di immobili in virtù del possesso continuato per venti anni (usucapione), nonchè – quindi – del già menzionato art. 948 c.c., comma 3. Invero, la Corte di appello, nel valutare l’impatto della compravendita del 1978 sulla lunga vicenda di cui è causa, muove dall’orientamento giurisprudenziale corretto, senza poi svilupparlo in modo coerente con riferimento al caso de quo.

Ci si riferisce all’indirizzo che non ravvede nel negozio traslativo del diritto di proprietà (o di altro diritto reale) un costituto possessorio implicito. Infatti, il trasferimento del possesso della cosa all’acquirente è oggetto di una specifica obbligazione del venditore (quella di consegnare la cosa al compratore: art. 1476 c.c.) per la quale non sono previste forme tipiche. Ne segue che, nei casi (come quello de quo) in cui l’alienante trattenga la cosa presso di sè, occorre accertare caso per caso, “in base al comportamento delle parti ed alle clausole contrattuali che non siano di mero stile, se la continuazione, da parte dell’alienante stesso, dell’esercizio del potere di fatto sulla cosa sia accompagnata dall’animus rem sibi habendi ovvero configuri una detenzione nomine alieno” (così, tra le meno remote, Cass. 22875/2018, cui si rinvia per l’indicazione di precedenti).

A ben vedere, questo saldo indirizzo giurisprudenziale, ove lo si inserisca nel contesto normativo della disciplina del possesso, quale esso emerge dalle scelte che il legislatore ha compiuto negli artt. 1140 c.c. e segg., non può essere interpretato come un mero rinvio, privo di qualsiasi indicazione di orientamento, ad un’analisi casistica del comportamento delle parti e delle clausole contrattuali effettive. In realtà, tale soluzione giurisprudenziale non sarebbe del tutto scontata ove la si argomenti sulla sola base di una disposizione – quale l’art. 1476 c.c., n. 1 – che prevede, fra le obbligazioni del venditore, quella di consegnare la cosa al compratore. Ben si potrebbe argomentare che, nei casi in cui la consegna non è contestuale al trasferimento della proprietà, tale disposizione disponga un trasferimento della detenzione, a fronte di un trasferimento del possesso che si è costituito già al tempo del trasferimento della proprietà.

4. – Se la giurisprudenza di questa Corte ha optato per la soluzione che, nel trasferimento della proprietà sganciato da un contestuale passaggio della disponibilità materiale della cosa, nega un costituto possessorio implicito non lo ha fatto solo in forza dell’art. 1476 c.c., n. 1, bensì per il peso sistematico che esercita l’art. 1141 c.c., comma 1 (“Si presume il possesso in colui che esercita il potere di fatto, quando non si prova che ha cominciato a esercitarlo semplicemente come detenzione”). A sua volta la presunzione di possesso in chi esercita il potere di fatto non è certo neutrale rispetto alla classica diatriba sul peso da riconoscere all’animus (l’intenzionalità della coscienza) rispetto al corpus (la disponibilità materiale). Se è vero infatti che, secondo l’opinione maggioritaria sia in dottrina che in giurisprudenza, nel nostro codice è stata accolta la teoria soggettiva (imperniata sull’animus), è altrettanto vero che tale teoria è stata fin dall’inizio chiamata a fronteggiare notevoli contrasti, a fronte di soluzioni esemplari di altri ordinamenti che svalutano l’elemento soggettivo, ed ha subito nell’arco del tempo anche nell’ordinamento italiano significative erosioni, proprio sotto gli auspici dell’art. 1141 c.p.c., comma 1.

Ad esempio, si è osservato anche recentemente che, per escludere il possesso utile all’usucapione non è sufficiente il riconoscimento del possessore circa l’altrui proprietà del bene, ma occorre invece che il possessore, per il modo in cui questa conoscenza è rivelata o per i fatti in cui essa è implicita, esprima la volontà inequivoca di attribuire il diritto reale al suo titolare. Infatti, l’animus possidendi non consiste nella convinzione di essere titolare del diritto reale, bensì nell’intenzione di comportarsi come tale, esercitando le corrispondenti facoltà (cfr. Cass. 13153/2021).

5. – Alla luce delle predette considerazioni, risalta l’errore dei giudici di merito che, nel valutare se l’accoglimento di un’azione qualificata come di rivendica potesse essere efficacemente contrastata dal maturare della usucapione, hanno seccamente invertito il riparto degli oneri probatori rispetto alla regola discendente dall’art. 1141 c.c., comma 1, chiedendo ai coniugi convenuti (costruttori ed unici utilizzatori della villetta monofamiliare) di dimostrare l’animus e non già all’attore di dimostrare il difetto di codesto elemento soggettivo.

6. – In questi sensi, il terzo motivo è da accogliere, con rinvio al giudice del merito. Ne segue l’assorbimento del primo motivo.

7. – Da rigettare è invece il secondo motivo, poichè l’accertamento circa il difetto di prova del contratto di mutuo elimina radicalmente la possibilità di qualificare giudizialmente il contratto di compravendita del 1978 come stipulato in disprezzo del divieto di patto commissorio.

P.Q.M.

La Corte accoglie il terzo motivo nei sensi di cui in motivazione, rigetta il secondo motivo, dichiara assorbito il primo motivo; cassa la sentenza in relazione al motivo accolto e rinvia alla Corte d’appello di Catania, in diversa composizione, cui demanda altresì di liquidare le spese del presente giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile, il 9 giugno 2022.

Depositato in Cancelleria il 22 agosto 2022

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