• Home
  • >
  • Cassazione civile sez. III, 21/11/2017, n. 27561

Cassazione civile sez. III, 21/11/2017, n. 27561

Massima

In tema di responsabilità medica, l’incompletezza della cartella clinica può fungere da elemento presuntivo per la sussistenza del nesso causale tra condotta del medico e danno del paziente, a condizione che l’accertamento del nesso sia precluso proprio da tale lacunosità e che la condotta medica sia astrattamente idonea a causare il pregiudizio. Tuttavia, qualora il giudice di merito accerti in positivo l’insussistenza del nesso causale tra l’operato del sanitario e il danno lamentato, basandosi su una documentazione clinica ritenuta completa e coerente (anche successiva), e corrobori tale convincimento con ulteriori elementi fattuali (come la ripresa precoce dell’attività agonistica da parte del paziente), viene meno la rilevanza dell’eccepita incompletezza e del conseguente riparto dell’onere probatorio per causa ignota, escludendosi la responsabilità del medico e della struttura.

Supporto alla lettura

Responsabilità medica

Il 17 marzo 2017 è stata pubblicata in Gazzetta Ufficiale la legge 8 marzo 2017 n. 24, recante “Disposizioni in materia di sicurezza delle cure e della persona assistita, nonché in materia di responsabilità professionale degli esercenti le professioni sanitarie.

Il legislatore ha inteso tipizzare la responsabilità in campo sanitario e certamente ciò non costituisce una novità nell’ambito della responsabilità civile (si pensi alla responsabilità per danno ambientale disciplinata dal d.lgs 152/2006 e s.m.i. ovvero ai profili speciali già tratteggiati dal codice civile negli artt. 2049 e s.s. c.c.). L’art. 7  della legge di riforma prevede che la struttura sanitaria o sociosanitaria pubblica o privata che nell’adempimento della propria obbligazione si avvalga dell’opera di esercenti la professione sanitaria, anche se scelti dal paziente e anche se non dipendenti dalla struttura, risponde delle loro condotte dolose e colpose ai sensi degli artt. 1218 (Responsabilità del debitore) e 1228 (Responsabilità per fatto degli ausiliari) del codice civile. Viene recepito dal legislatore l’approdo della giurisprudenza sull’inquadramento della natura della responsabilità sanitaria della struttura nel solco del contratto atipico di spedalità (Cass., sez. un. 11.1.2008 n. 577; Cass. civ., 20.1.2014, n. 993). L’art. 7 comma 3 della legge 24/17 costituisce il cuore della riforma laddove individua nella responsabilità extracontrattuale la regola generale mentre la natura contrattuale della responsabilità del sanitario costituisce l’eccezione. Dunque sembrerebbe che il legislatore abbia estromesso la regola del contatto sociale dal suo ambito di elezione ma non chiuso definitivamente alla possibilità di configurare una responsabilità contrattuale. Al fine di poter inquadrare le situazioni tipo in cui si potrebbe qualificare il rapporto medico – paziente dal punto di vista contrattuale, in assenza di uno schema negoziale formale, potenzialmente ripiegano sulle regole del consenso informato.

L’art. 8 prevede, invece, un meccanismo finalizzato a ridurre il contenzioso per i procedimenti di risarcimento da responsabilità sanitaria mediante un tentativo obbligatorio di conciliazione da espletare da chi intende esercitare in giudizio un’azione risarcitoria attraverso la mediazione ovvero un ricorso 696-bis c.p.c.. La Cassazione con ben dieci sentenze l’11 novembre 2019, ha provato a ricostruire il sistema della responsabilità medica cercando di dare risposte tra i dubbi interpretativi alimentati dall’inerzia del legislatore che non ha dato piena attuazione alla legge 24/17 (Cass. 28985/2019; Cass. 28986/2019; Cass. 28987/2019; Cass. 28988/2019; Cass. 28989/2019; Cass. 2990/2019; Cass. 28991/2019; Cass. 28992/2019; Cass. 28993/2019; Cass. 28994/2019). Gli argomenti affrontati dalla Cassazione attengono a temi centrali della responsabilità medica ed in particolare: 1. Il limite all’applicazione retroattiva della legge Gelli Bianco; 2. Il consenso informato; 3. La rivalsa della struttura sanitaria; 4. Il principio distributivo dell’onere probatorio nella responsabilità contrattuale; 5. L’accertamento e la liquidazione del danno differenziale da aggravamento della patologia preesistente; 6. Il danno da perdita di chance; 7. La liquidazione del danno.

Ambito oggettivo di applicazione

Svolgimento del processo

1. – (omissis) convenne in giudizio la Casa di cura Domus Nova e (omissis), medico ivi operante, per sentirli condannare in solido al risarcimento dei danni patiti in conseguenza dell’intervento chirurgico di ricostruzione del legamento crociato anteriore sinistro, effettuato il (omissis) dal (omissis) presso l’anzidetta Casa di cura, all’esito del quale ebbe a patire un deficit estensorio del ginocchio sinistro.

L’adito Tribunale di Ravenna – nel contraddittorio con i convenuti ed espletata, nel corso dell’istruzione probatoria, c.t.u. medico – legale – respinse la domanda attorea con sentenza del marzo 2009.

2. – Avverso tale decisione proponeva impugnazione il (omissis), che la Corte di appello di Bologna, con sentenza resa pubblica il 6 giugno 2014, rigettava.

2.1. – Per quanto ancora rileva in questa sede, la Corte territoriale riteneva convincente la conclusione del c.t.u. sulla corretta esecuzione dell’intervento chirurgico, in quanto valutazione basata “sugli atti ed in particolare sulla documentazione clinica prodotta dall’odierno appellante (relativa anche ai successivi ricoveri), che appare estremamente precisa e non lacunosa”.

2.2. – Il giudice di appello, quindi, osservava, sulla scorta delle risultanze della c.t.u., che l’unica evenienza eventualmente imputabile al sanitario” (delle quattro cause possibili del deficit di estensione del ginocchio del paziente, tra cui: a) fisiokinesiterapia non corretta; b) anomala cicatrizzazione; c) crescita di tessuto nella gola intercondiloidea) era quella del “posizionamento troppo anteriore del tunnel tibiale”; ciò che “non si evince(va) dall’analisi delle cartelle cliniche della casa di cura che descrive l’intervento secondo la giusta tecnica” e, peraltro, anche “nelle cartelle cliniche dei due ulteriori ricoveri presso l’ospedale civile di (omissis), che descriveva il legamento “ben sinovializzato, molto teso in estensione completa”, non venivano descritti posizionamenti errati”.

2.3. – La Corte felsinea soggiungeva, poi, che “se l’intervento non fosse pienamente riuscito, il paziente non avrebbe potuto dopo nove mesi riprendere l’attività agonistica e giocare il campionato” (di basket) “senza problemi”, rilevando, altresì, che “le problematiche ulteriori erano insorte dopo tre anni e mezzo, a causa della protratta attività agonistica”, rendendo “necessari altri due interventi”.

3. – Per la cassazione di tale sentenza ricorre (omissis) affidando le sorti dell’impugnazione a due motivi, illustrati da memoria.

Resistono con separati controricorsi (omissis) e la Casa di cura Domus Nova S.p.A..

Motivi della decisione

1. – Con il primo mezzo è denunciato, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, “omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti in ragione alla mancata valutazione delle risultanze processuali di cui alla consulenza tecnica d’ufficio concernenti la lacunosità e le incongruenze delle cartelle cliniche”.

La Corte d’appello avrebbe erroneamente escluso la responsabilità della struttura sanitaria e del medico sulla base delle risultanze della c.t.u. e della cartella clinica in atti, omettendo, tuttavia, di considerare che la stessa cartella clinica non risultava completa, in quanto carente di indicazioni circa la manovra operatoria effettuata e, segnatamente, in ordine all’esatta posizione in cui il crociato fu ricostruito (avuto riferimento al tunnel tibiale). La lacunosità della cartella clinica avrebbe, dunque, precluso al giudice di appello qualsiasi accertamento della causa effettiva del danno riportato e impedito di apprezzare se l’intervento fosse stato correttamente eseguito e se l’onere probatorio gravante sulle controparti fosse stato assolto.

2. – Con il secondo mezzo è dedotta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, “violazione di legge per irriducibile contraddittorietà della motivazione e motivazione apparente”.

Il ragionamento seguito dalla Corte d’appello sarebbe affetto da un insanabile contrasto tra le argomentazioni adottate (ossia, in particolare, la riconducibilità della lesione all’attività sportiva agonistica, ripresa dopo nove mesi dall’intervento chirurgico) e le risultanze della c.t.u. recepite in sentenza (che mai avevano fatto riferimento a detta causa); tale contrasto non consentirebbe l’identificazione del procedimento logico giuridico posto alla base della decisione di secondo grado.

Inoltre, l’apparenza di motivazione sarebbe riscontrabile anche nel rilievo dato dal giudice di secondo grado alle cartelle cliniche dei successivi ricoveri, a distanza di quattro e cinque anni dal primo intervento chirurgico, che non avrebbero assolutamente alcun legame con l’operato del (omissis).

3. – I motivi, da scrutinarsi congiuntamente in quanto connessi, non possono trovare accoglimento.

3.1. – Questa Corte, in più di un’occasione, ha affermato che, in tema di responsabilità medica, la difettosa tenuta della cartella clinica da parte dei sanitari non può pregiudicare sul piano probatorio il paziente, cui anzi, in ossequio al principio di vicinanza della prova, è dato ricorrere a presunzioni se sia impossibile la prova diretta a causa del comportamento della parte contro la quale doveva dimostrarsi il fatto invocato (tra le altre, Cass., 26 gennaio 2010, n. 1538Cass., 27 aprile 2010, n. 10060Cass., 31 marzo 2016, n. 6209).

In tale prospettiva si è, quindi, precisato che l’incompletezza della cartella clinica è circostanza di fatto che il giudice di merito può utilizzare per ritenere dimostrata l’esistenza d’un valido nesso causale tra l’operato del medico e il danno patito dal paziente, essendo, però, a tal fine necessario sia che l’esistenza del nesso di causa tra condotta del medico e danno del paziente non possa essere accertata proprio a causa della incompletezza della cartella, sia che il medico abbia comunque posto in essere una condotta astrattamente idonea a causare il danno (Cass., 12 giugno 2015, n. 12218).

3.2. – Nella specie, come evidenziato in sintesi ai p.p. 2.1., 2.2. e 2.3. dei “Fatti di causa”, la Corte felsinea, correttamente collocandosi nella delineata prospettiva, non solo ha escluso l’esistenza di carenze nella documentazione prodotta in atti (ponendo anche in risalto che in esse l’intervento chirurgico era descritto “secondo la giusta tecnica”), ma, soprattutto, ha compiuto un accertamento in positivo sulla insussistenza del nesso causale tra la condotta del chirurgo e l’evento in pregiudizio del paziente (ossia, il deficit estensorio del ginocchio sinistro), traendo siffatto convincimento anche dagli esiti delle ulteriori cartelle cliniche prodotte dallo stesso attore, che non evidenziavano “posizionamenti errati” del tunnel tibiale (nè “problematiche inerenti al primo intervento”: cfr. p. 6 sentenza di appello), altresì soggiungendo, quale argomento rafforzativo del proprio convincimento, che l’aver il (omissis) nuovamente intrapreso l’attività agonistica sportiva (di giocatore di basket) appena nove mesi dopo l’intervento chirurgico (per poi protrarla per più di tre anni), dimostrava che l’intervento chirurgico era stato correttamente effettuato dal (omissis).

3.3. – Sicchè, non è dato ravvisare il vizio veicolato (con il primo motivo) ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, giacchè, oltre ad essere stata esaminata dal giudice di appello la circostanza della completezza della cartella clinica e della sua rappresentazione nella c.t.u. medico – legale espletata in corso di giudizio (là dove, poi, il ricorrente non ha assolto l’onere, posto a pena di inammissibilità della doglianza, di rendere pienamente intelligibili i contenuti della c.t.u. medico – legale e delle cartelle cliniche versate in atti, dei quali fornisce solo stralci decontestualizzati, oltre a non provvedere ad idonea localizzazione processuale di detti atti, alla stregua di quanto imposto dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6), neppure assume carattere di decisività l’asserito omesso esame del fatto storico, stante l’anzidetto accertamento in positivo comunque raggiunto dal giudice del merito (segnatamente, in forza dell’ulteriore documentazione clinica in atti) in ordine alla mancanza di nesso causale tra condotta medica e danno lamentato dal paziente, ciò che rende inconsistente, altresì, ogni ulteriore profilo di critica (seppur solo conseguenziale alla censura su cui è imperniato il motivo) concernente gli esiti del riparto dell’onere di prova in punto di causa rimasta ignota.

3.4. – E’, poi, da escludere, con tutta evidenza, che siano riconoscibili nella motivazione della sentenza impugnata i caratteri tipici del vizio in questa sede denunciabile (e veicolato con il secondo motivo) ai sensi della norma di cui all’art. 132 c.p.c., comma 1, n. 4, in forza della quale il sindacato di legittimità è circoscritto nell’alveo del c.d. “minimo costituzionale” della motivazione, ossia di quella anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sè, purchè il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Anomalia che si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione (tra le tante, Cass., sez. un., 7 aprile 2014, n. 8053).

Nella specie, come messo in risalto anche al p. 3.2. che precede (oltre che nella già richiamata sintesi dei “Fatti di causa”), la motivazione resa dalla Corte territoriale si snoda in guisa tutt’altro che apparente, esibendo un percorso logico – giuridico intelligibile e non affatto evidenziante insanabili contrasti tra asserzioni tra loro inconciliabili: tali non essendo affatto quelle che attribuiscono rilievo alle risultanze cliniche successive all’intervento chirurgico, ma riguardanti proprio la sede anatomica dal medesimo attinta; nè gli argomenti che richiamano il pronto recupero all’attività sportiva del paziente, i quali (sebbene non valorizzati dal c.t.u., in ogni caso) si innestano coerentemente nel complessivo ragionamento del giudice del merito (cui unicamente spetta ogni valutazione decisoria), fornendone ulteriore supporto.

4. – Il ricorso va, dunque, rigettato e il ricorrente condannato al pagamento, in favore di ciascuna parte controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, come liquidate in dispositivo in conformità ai parametri del D.M. n. 55 del 2014.

P.Q.M.

rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida, in favore di ciascuna parte controricorrente, in Euro 7.000,00, per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, e agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002art. 13, comma 1 – quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del citato art. 13, comma 1 – bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Terza civile della Corte suprema di Cassazione, il 17 ottobre 2017.

Depositato in Cancelleria il 21 novembre 2017.

Allegati

    [pmb_print_buttons]

    Accedi