Fatto
RITENUTO IN FATTO
1. La Corte di appello di Palermo, con sentenza del 23/05/2023, ha parzialmente riformato la sentenza resa dal Tribunale della stessa città del 10/02/2021, in composizione monocratica, ed esclusa la contestata recidiva e riconosciuta la circostanza attenuante di cui all’art. 62, n. 4, cod. pen., con le già riconosciute circostanze attenuanti generiche, ha condannato Es.Va. alla pena di giustizia per i delitti allo stesso ascritti (artt.81, 629 cod. pen.).
2. Avverso la predetta sentenza ha proposto ricorso per cassazione, a mezzo del proprio difensore, Es.Va.. con motivi di ricorso che qui si riportano nei limiti strettamente necessari per la motivazione ai sensi dell’art. 173 disp. att. cod. proc. pen.
2.1. Violazione di norme processuali e vizio della motivazione in relazione agli artt. 526,191 e 511 cod. proc. pen. perché entrambi i giudici di merito nel corpo delle motivazioni hanno utilizzato le dichiarazioni contenute nella querela sporta da Es.Mo. in data 03/06/2015 e della successiva integrazione del 12/05/2015, in relazione alle quali non era stato prestato alcun consenso alla acquisizione.
2.2. Violazione di legge e vizio della motivazione in relazione agli artt. 629,81 comma secondo, e artt. 56 e 649 cod. pen. La difesa aveva richiesto con il terzo motivo l’assoluzione ai sensi dell’art. 530, comma 2, cod. proc. pen. con riferimento alle condotte contestate e computate in continuazione; la sentenza di primo grado sul punto è apodittica, non evidenziando quale fossero le condotte estorsive effettivamente provate, il richiamo al rifiuto della persona offesa dimostra una approssimazione del giudice di primo grado nella ricostruzione del fatto, mancando un accertamento reale in ordine alla sussistenza del requisito della violenza al fine della possibile applicazione della causa di non punibilità di cui all’art. 649 cod. pen.; sul punto anche la Corte di appello ha rigettato il motivo proposto con motivazione contraddittoria e apodittica; non è stato in alcun modo verificato l’effettivo utilizzo di forza fisica, atteso che la persona offesa in sede di esame non ha mai affermato di avere subito violenza fisica ed anche in querela chiariva che, sebbene strattonato, non avesse subito alcun danno fisico. Le condotte, inoltre, erano state ritenute inizialmente tentate, ma conclusivamente valutate come consumate, con evidente contraddittorietà ed apoditticità della motivazione.
2.3. Violazione di legge in relazione all’art. 629 ood. pen. tenuto conto del portato della sentenza della Corte costituzionale del 24 maggio 2023 n. 120; in considerazione della lieve entità del fatto la pena irrogata si deve considerare illegale, attesa la possibile qualificazione del fatto come di lieve entità proprio sulla base delle motivazioni della Corte di appello.
3. Il Procuratore generale ha concluso chiedendo che la sentenza venga annullata con rinvio esclusivamente con riferimento al terzo motivo di ricorso, dichiarando inammissibile nel resto il ricorso.
Diritto
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il primo motivo di ricorso è manifestamente infondato. La motivazione della sentenza impugnata evidenzia chiaramente come la persona offesa abbia reso dichiarazioni dibattimentali, come emerge tra l’altro anche dalla lettura della sentenza di primo grado, del tutto conforme nella considerazione della portata della testimonianza del padre del ricorrente nella sua veste di persona offesa, mentre il richiamo alle querele è riportato in sentenza esclusivamente al fine di ricostruire le condizioni di avvio del procedimento penale a carico del ricorrente.
2. Il secondo motivo di ricorso è parzialmente fondato. In via preliminare, occorre rilevare come correttamente la Corte di appello abbia ritenuto inapplicabile al caso di specie l’art. 649 cod. pen., attesa l’evidente presenza di violenza fisica, sulla base delle chiare dichiarazioni rese dalla persona offesa, confermate dagli altri testimoni, considerate in modo logico dalla Corte di appello, con motivazione che, sul punto, non si presta a censure. È stato, dunque, correttamente applicato il principio di diritto (tra l’altro in fattispecie del tutto sovrapponibile), che qui si intende ribadire, secondo il quale la disposizione di cui all’ultimo comma dell’art. 649 cod. pen., che esclude l’operatività della causa di non punibilità prevista per i reati contro il patrimonio commessi fra determinate categorie di familiari quando vi sia stato impiego di violenza alla persona, si applica anche ai delitti tentati e non solo a quelli consumati (da ultimo Sez. 2, n. 43066 del 13/09/2023, M.; Rv. 285147-01). Ne consegue che, sul punto, il motivo non può essere accolto, atteso che, come emerge dallo stesso motivo proposto, le condotte sono state poste in essere mediante strattonamenti e, dunque, con l’uso di violenza fisica.
2.1. Il motivo è invece fondato in relazione alla successiva doglianza con la quale si lamenta contraddittorietà e apoditticità della motivazione, oltre che violazione di legge, nell’avere la Corte di appello ritenute integrate delle estorsioni consumate (computate come reati satellite nel calcolo della pena rispetto alla pena base computata in relazione alla condotta posta in essere in data 02/06/2015), nonostante le stesse siano state all’evidenza descritte come meramente tentate. La Corte di appello ha, difatti, puntualmente descritto le condotte oggetto di imputazione (chiarendo come la consegna di denaro fosse avvenuta solo nella data del 02/06/2015, mentre le altre richieste erano rimaste tali con conseguenti strattonamenti, urla e minacce verso il padre da parte del figlio, pag. 5) per poi, tuttavia, ritenere (pag. 6 e 7) che “in relazione agli altri episodi in cui non vi è stata nessuna consegna di denaro, il comportamento dell’odierno appellante, che, così come affermato anche dal fratello, ogni qual volta non riusciva ad ottenere il denaro urlava, offendeva e strattonava il padre, non permette di qualificare tale condotta come tentata”. La motivazione è evidentemente in contraddizione con la sua premessa e soprattutto omette del tutto di chiarire per quale ragione tali condotte si possano effettivamente ritenere quali estorsioni consumate.
L’insieme delle argomentazioni spese dalla stessa Corte di appello, oltre che dal giudice di primo grado, nel descrivere le condotte poste in essere dal ricorrente nelle occasioni diverse da quella del 02/06/2015, evidenziano la ricorrenza di una condotta tentata da parte del ricorrente. In tal senso questa Corte ha di recente affermato, con principio che qui si intende ribadire, che in tema di delitto tentato, anche gli atti preparatori possono integrare gli estremi del tentativo punibile, purché univoci, ossia rivelatori, per il contesto nel quale si inseriscono e per la loro natura ed essenza, secondo le norme di esperienza e “l’id quod plerumque accidit”, del fine perseguito dall’agente (Sez. 6, n. 46796 del 18/10/2023, Marzano, Rv. 285566-01; Sez. 5, n. 18981 del 22/02/2017, macori, Rv. 269932-01). Non vi è dubbio che le condotte accertate, tenuto conto delle testimonianze espletate e della sintesi e descrizione delle stesse nella motivazione della Corte di appello, integrino il tentativo di estorsione in considerazione di indici rivelatori univoci in tal senso.
La considerazione delle condotte così compiutamente qualificate impone, conseguentemente, la declaratoria di estinzione delle stesse per decorso del termine di prescrizione (anni otto e mesi quattro) tenuto conto della data di commissione, per come formalizzata in sede di imputazione, e dell’esclusione della recidiva nella valutazione della Corte di appello. Ne consegue l’annullamento senza rinvio della sentenza sul punto.
3. È fondato il terzo motivo di ricorso, che ha richiamato la pronuncia della Corte costituzionale n. 120 del 24 maggio 2023. La Corte costituzionale ha difatti dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 629 del cod. pen. nella parte in cui non prevede che la pena da esso comminata è diminuita in misura non eccedente un terzo quando per la natura, la specie, i mezzi, le modalità o circostanze dell’azione, ovvero per la particolare tenuità del danno o del pericolo, il fatto risulti di lieve entità. La Corte di appello dovrà, dunque, in sede di rinvio valutare, nell’ambito della propria piena discrezionalità, se il fatto risulti o meno di lieve entità. Ciò posto, deve essere dichiarata irrevocabile l’affermazione di responsabilità.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata relativamente a tutti i reati ascritti all’imputato, ad eccezione dell’episodio verificatosi in data 02/06/2015, perché, qualificati come fattispecie tentate, estinti per prescrizione.
Annulla la sentenza impugnata limitatamente all’episodio verificatosi in data 02/06/2015, relativamente alla possibile qualificazione come fatto di lieve entità, e rinvia per un nuovo giudizio sul punto ad altra sezione della Corte di appello di Palermo.
Dichiara irrevocabile l’affermazione di responsabilità.
Così deciso in Roma, il 2 febbraio 2024.
Depositata in Cancelleria il 27 febbraio 2024.