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Cassazione civile sez. I, 16/04/2025, n.9989

Massima

Contro la sentenza del Tribunale che aveva dichiarato lo scioglimento del matrimonio senza assegno, una donna aveva proposto ricorso e la Corte di appello le aveva dato ragione, ritenendo “pacifico” che la donna durante i 26 anni di matrimonio “non abbia mai lavorato e si sia dedicata alla cura della famiglia, mentre il marito ha svolto attività imprenditoriale garantendo un buon tenore di vita alla famiglia”. Inoltre, è “indubbia” la differenza reddituale-patrimoniale tra i coniugi e il fatto che la ex “non abbia fonti di reddito e si sia dedicata alla cura della famiglia con una scelta condivisa con il marito”. “Pertanto – aggiungeva -, l’assegno divorzile assume primariamente una funzione compensativa/perequativa, rappresentando un riconoscimento del contributo fornito dalla moglie economicamente più debole alla formazione del patrimonio comune e del marito, ma anche, sia pure in misura minore, assistenziale perché si presume che le somme ricavate dalla vendita degli immobili si sia erosa nel tempo”. Mentre nella determinazione del contributo, “non si può non considerare la situazione debitoria attuale dell’ex marito, e la circostanza che dall’intestazione di un immobile a favore dell’ex moglie questa abbia ricavato un ingente somma di danaro che non esaurisce i termini economici del contributo, da lei dato nel corso del matrimonio, ma vale per ridimensionare l’ammontare dell’assegno divorzile”. Contro tale sentenza il marito ha proposto ricorso in Cassazione, che tuttavia ha considerato corretto il ragionamento della Corte territoriale. Il ricorrente, argomenta la Corte, ha proposto un ricorso generico “perché non precisa di aver contestato in modo tempestivo e specifico, sin dalle prime difese e prima del formarsi delle preclusioni deduttive, le circostanze riguardanti il contributo della moglie alla vita familiare”. Inoltre, le prove addotte (e non ammesse) non solo tali da impedire l’applicazione del criterio compensativo-perequativo, in quanto come visto l’impegno del padre nella vita familiare, non esclude automaticamente “la circostanza che la moglie si sia dedicata alla famiglia e alla cura dei figli” in modo tale da non poter divenire autonoma economicamente.

Supporto alla lettura

ASSEGNO DIVORZILE

Si definisce assegno divorzile l’obbligo di uno dei due coniugi, a seguito di pronuncia di divorzio, di corrispondere periodicamente all’altro un contributo economico, se questi non ha mezzi adeguati o per ragioni oggettive non se li può procurare.

Tra le principali conseguenze di carattere patrimoniale del divorzio, il riconoscimento del diritto a percepire l’assegno divorzile si realizza in circostanze differenti rispetto a quanto succede per l’assegno di mantenimento.

  1. Assegno di mantenimento: deve garantire al coniuge che ha meno risorse economiche lo stesso tenore di vita che aveva quando la coppia stava ancora insieme, durante la fase di separazione personale antecedente al divorzio, con l’obiettivo di bilanciare la condizione economica dei due soggetti.
  2. Assegno divorzile: viene disposto quando gli effetti del matrimonio sono ufficialmente annullati in seguito al divorzio e, di conseguenza, viene meno la necessità di operare un bilanciamento economico tra i due ex coniugi: chi dei due gode di una condizione economica maggiormente favorevole dovrà garantire all’altro non più il passato tenore di vita, bensì soltanto l’autosufficienza economica, in virtù del ruolo e del contributo fornito dall’ex coniuge alla formazione del patrimonio (economico e personale) della famiglia.

Il diritto a percepire l’assegno divorzile cessa quando il coniuge che lo percepisce passa a nuove nozze. La giurisprudenza più recente in tema di perdita del diritto dell’assegno divorzile, chiarisce come anche in caso di convivenza con il nuovo partner tale diritto venga meno. La convivenza deve tuttavia essere stabile e non temporanea: è sufficiente la prova in ordine ad un periodo di convivenza stabile protrattasi per un arco di tempo rilevante successivo al divorzio.

Ambito oggettivo di applicazione

Fatto
FATTI DI CAUSA

1.- Nel settembre 2012 i coniugi si separavano consensualmente alle seguenti condizioni: affidamento del figlio Cr. (ancora minorenne) ad entrambi i genitori con collocamento presso il padre, il quale s’impegnava in modo esclusivo al suo mantenimento sia per le spese ordinarie che straordinarie; assegnazione della casa coniugale al marito; rinuncia reciproca dei coniugi a qualsiasi contributo al loro mantenimento, dichiarando gli stessi di essere economicamente autonomi.

Con ricorso depositato il 10.6.2620 Ma.Si. chiedeva al Tribunale di pronunciare lo scioglimento del matrimonio senza altra statuizione accessoria. Deduceva che non vi era stata sino alla presentazione del ricorso alcuna riconciliazione tra i coniugi e che era impossibile ricostruire la comunione materiale e spirituale. Evidenziava che la propria situazione economici era molto peggiorata rispetto a quella esistente in pendenza del giudizio di separazione in quanto aveva rilasciato in favore del Banco Popolare soc. coop. una fideiussione personale di Euro 2.500.000 a garanzia del mutuo concesso dalla Banca alla Società COBEMA BUSINESS Srl Tale società era stata dichiarata fallita con sentenza del Tribunale di Bergamo e l’istituto di credito, in forza della fideiussione, aveva agito nei suoi confronti al fine di tutelare il proprio credito. La Banca aveva ottenuto nei suoi confronti decreto ingiuntivo per Euro 2.322.643,69 ed era stata iscritta ipoteca giudiziale sui suoi beni immobili. Rilevava che l’ex moglie aveva acquistato, con denaro del ricorrente, un immobile per Euro 490.000, poi rivenduto per la somma di Euro 600.000. A seguito di tale vendita la moglie aveva acquistato un immobile per Euro 250.000 ed erano avanzati alla moglie Euro 380.000, pertanto poteva ritenersi che disponesse di mezzi adeguati. Infine, la resistente aveva intrapreso una nuova relazione con una terza persona con la quale aveva stabile convivenza.

2.- Il Tribunale di Bergamo pronunciava lo scioglimento degli effetti civili del matrimonio ed osservava che l’asserita conciliazione non risultava provata perché le dichiarazioni fornite non erano adeguate per offrire una prova piena della incontrovertibile ricostituzione del consorzio familiare.

All’udienza di comparizione personale dei coniugi la Za.Vi. non era riuscita a collocare temporalmente i viaggi fatti con la famiglia e il ricorrente aveva contestato tali affermazioni. Anche i figli della coppia avevano confermato che dopo la separazione i genitori non avevano convissuto. L’ex moglie non aveva dedotto alcunché circa le aspettative professionali sacrificate a vantaggio del marito e dei figli ed in sede di separazione non era stato attribuito nessun assegno. L’ex moglie disponeva di rilevante liquidità derivante dalla vendita di immobili e la situazione reddituale del marito era fortemente influenzata dalla sua attuale esposizione debitoria.

3.- Za.Vi. proponeva gravame dinanzi alla Corte di Appello di Brescia che con la sentenza qui impugnata ha accolto parzialmente l’appello riconoscendo un assegno divorzile di Euro 500 mensili in favore dell’appellante.

Per quanto qui di interesse la Corte di merito ha precisato che:

a) per la ricostruzione del consorzio familiare non sono sufficienti ripetute occasioni di incontro e frequentazioni tra coniugi, ove le stesse non depongano per una reale e concreta ripresa delle relazioni materiali e spirituali costituenti manifestazione ed effetto della rinnovata società coniugale;

b) è pur vero che dopo la separazione e fino al 2019 i coniugi mantennero una buona relazione ed il marito, pur non avendo obbligo, versava alla moglie mensilmente cifre tra Euro 1.000 – 2.000;

c) la valutazione del complesso probatorio consente di concludere che non si possa ritenere raggiunta con sufficiente certezza che dopo

la separazione i coniugi avessero ripreso la convivenza con le caratteristiche di una relazione coniugale;

d) è pacifico che la Za.Vi. durante i 26 anni di matrimonio non abbia mai lavorato e si sia dedicata alla cura della famiglia, mentre il marito ha svolto attività imprenditoriale garantendo un buon tenore di vita alla famiglia, sostenendo la moglie anche dopo la separazione ed attribuendole la proprietà di immobili la cui alienazione ha consentito all’ex moglie di avere una liquidità adeguata;

e) è indubbia la differenza reddituale-patrimoniale tra i coniugi e che la Za.Vi. non abbia fonti di reddito e si sia dedicata alla cura della famiglia con una scelta condivisa con il marito. Pertanto, l’assegno divorzile assume primariamente una funzione compensativa/perequativa, rappresentando un riconoscimento del contributo fornito dalla moglie economicamente più debole alla formazione del patrimonio comune e del marito, ma anche, sia pure in misura minore, assistenziale perché si presume che le somme ricavate dalla vendita degli immobili si sia erosa nel tempo;

f) al fine della determinazione dei contributi di mantenimento, la valutazione delle condizioni reddituali ed economiche delle parti non richiede necessariamente un accertamento del loro esatto ammontare poiché è sufficiente un’attendibile ricostruzione delle complessive situazioni patrimoniali e reddituali dei coniugi, come nel caso di specie. Non si può non considerare la situazione debitoria attuale dell’ex marito, e la circostanza che dall’intestazione di un immobile a favore dell’ex moglie, questa abbia ricavato un ingente somma di danaro che non esaurisce i termini economici del contributo, da lei dato nel corso del matrimonio, ma vale per ridimensionare l’ammontare dell’assegno divorzile.

4.- Ma.Si. ha presentato ricorso per cassazione con tre motivi e controricorso al ricorso incidentale ed anche memoria.

Za.Vi. ha presentato controricorso, ricorso incidentale ed anche memoria.

Diritto
RAGIONI DELLA DECISIONE

Il ricorrente in via principale deduce:

5. – Con il primo motivo: Illegittimità della sentenza per violazione dell’art. 115 c.p.c. per avere il Giudice di appello posto a base della sua decisione prove inesistenti e non acquisite nel giudizio.

5.1- La censura evidenzia che la mancata ammissione della prova testimoniale ha impedito di provare che l’ex moglie non si sia occupata della cura della casa e della famiglia. La sola circostanza della richiesta di ammissione di prova testimoniale impedisce di considerare il fatto come non contestato. La richiesta di ammissione della prova sarebbe stata formulata in I grado nella memoria autorizzata ai sensi dell’art. 183, comma 6, n. 2, c.p.c., reiterata nella udienza di precisazione delle conclusioni e riproposta nella comparsa di costituzione e risposta nel giudizio di appello. Le prove testimoniali e per interrogatorio, benché non ammesse, varrebbero a negare l’asserita “non contestazione” argomentata, ad avviso del ricorrente erroneamente, nella sentenza impugnata.

La censura è priva di fondamento.

La Corte d’Appello, oltre a ritenere indubbia la differenza reddituale-patrimoniale tra gli ex coniugi e la mancanza di fonti di reddito a disposizione della Za.Vi., ha considerato “pacifico che la Za.Vi. nel corso del lungo matrimonio non ha mai lavorato dedicandosi alla famiglia e tale impostazione, vista la lunga durata del matrimonio, era senz’altro condivisa dal marito”.

Ora, è principio costantemente affermato quello secondo cui la valutazione della condotta processuale del convenuto, agli effetti della non contestazione dei fatti allegati dalla controparte, deve essere correlata al regime delle preclusioni, che la disciplina del giudizio ordinario di cognizione connette all’esaurimento della fase processuale entro la quale è consentito ancora alle parti di precisare e modificare, sia allegando nuovi fatti – diversi da quelli indicati negli atti introduttivi – sia revocando espressamente la non contestazione dei fatti già allegati, sia ancora deducendo una narrazione dei fatti alternativa e incompatibile con quella posta a base delle difese precedentemente svolte; in particolare, la mancata tempestiva contestazione, sin dalle prime difese, dei fatti allegati dall’attore è comunque retrattabile nei termini previsti per il compimento delle attività processuali consentite dall’art. 183 c.p.c., risultando preclusa, all’esito della fase di trattazione, ogni ulteriore modifica determinata dall’esercizio della facoltà deduttiva (Cass. n. 26859 del 2013 e n. 31402 del 2019).

Il motivo di censura articolato dal ricorrente è generico, perché non precisa di aver contestato in modo tempestivo e specifico, sin dalle prime difese e prima del formarsi delle preclusioni deduttive, le circostanze riguardanti il contributo della moglie alla vita familiare. Inoltre, le prove capitolate dall’odierno ricorrente, e non ammesse dal giudice, non appaiono comunque idonee a schermare e ad impedire l’applicazione del criterio compensativo-perequativo, giacché la condivisione, da parte del padre, della responsabilità dell’educazione scolastica dei figli o il seguirli nello sport non vale ad escludere la circostanza che la moglie si sia dedicata alla famiglia e alla cura dei figli e che per tale motivo non fosse economicamente autonoma.

6.- Con il secondo motivo: Illegittimità della sentenza per violazione dell’art. 2697 c.c., dell’art. 5, comma 6, L. 898/70 nonché dall’art. 115 c.p.c. per avere il Giudice di appello riconosciuto in favore della resistente l’assegno divorzile in difetto di qualsiasi prova, neppure dedotta da quest’ultima, a dimostrazione delle aspettative professionali sacrificate a vantaggio della famiglia e del fattivo contributo fornito per la realizzazione del patrimonio comune e del marito.

7.- Con il terzo motivo: Illegittimità della sentenza per violazione degli artt. 2697 e 2729 c.c. per avere il Giudice di appello ritenuto provato il contributo fornito dalla resistente alla formazione del patrimonio comune e del marito sulla base di mere ipotesi: in assenza di prova diretta gli elementi considerati dal Giudice per la decisione risultano infatti irrilevanti, contraddittori e quindi manifestamente inidonei ad essere considerati quali presunzioni semplici aventi i requisiti di gravità, precisione e concordanza previsti dall’art. 2729 c.c.

7.1- Il secondo e terzo motivo sono correlati e possono essere trattati unitariamente. Le censure sono conseguenza ulteriore rispetto alla deduzione che il contributo dell’ex moglie, alla cura e gestione della casa e quindi alla costituzione del patrimonio familiare a scapito della possibilità di inserimento nel contesto lavorativo e, quindi, al raggiungimento di una propria capacità reddituale, siano rimasti privi di allegazione una volta sostenuto che la non contestazione su tali aspetti non può essere invocata.

La doglianza non dialoga con la ratio decidendi: non considera che la circostanza che la Za.Vi. non ha mai lavorato durante il matrimonio essendosi sempre occupata della famiglia è stata desunta, e ritenuta pacifica, anche dal fatto che “il marito ha continuato spontaneamente a versarle anche dopo la separazione non irrilevanti somme di denaro pressoché ogni mese”. Tale situazione – ha proseguito la Corte d’Appello – “è immutata anche oggi perché la Za.Vi. ha sessanta anni e nessuna pregressa esperienza professionale”, sicché “ovviamente l’inserimento nel mondo del lavoro le è pressoché impossibile”.

8.- La ricorrente in via incidentale deduce: violazione e falsa applicazione dell’articolo 5, comma 6, Legge n. 898 del 1970 – ai sensi dell’articolo 360, comma 1, n. 3, c.p.c. per la mancata condanna di controparte alla corresponsione di un assegno divorzile di entità maggiore alla luce dei documenti e delle prove agli atti.

8.1-La censura è inammissibile poiché non censura efficacemente la ratio decidendi e si risolve in una domanda di rivalutazione degli esiti istruttori effettuata nei giudizi di merito. La Corte ha enunciato correttamente i principi applicati per la determinazione dell’assegno divorzile ed ha evidenziato che una serie di circostanze rilevabili dalla valutazione degli esiti probatori che ha ritenuto essenziali ai fini della quantificazione. Tali circostanze sono indicate specificamente e rientrano nella valutazione degli esiti istruttori che sono rimesse all’attività esclusiva del giudice di merito.

9.- Per quanto esposto, il ricorso principale e quello incidentale vanno rigettati. Le spese vanno compensate per reciproca soccombenza.

In caso di diffusione del presente provvedimento si omettano le generalità e gli altri elementi identificativi a norma dell’art. 52, comma 2, D.Lgs. 196/2003.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso principale e il ricorso incidentale e compensa le spese del presente giudizio di legittimità.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del D.P.R. 30.5.2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, L. 24 dicembre 2012, n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente e del controricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.

In caso di diffusione del presente provvedimento si omettano le generalità e gli altri elementi identificativi a norma dell’art. 52, comma 2, D.Lgs. 196/2003.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio della Prima Sezione civile il 6 marzo 2025.

Depositata in Cancelleria il 16 aprile 2025.

Allegati

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