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Cassazione civile, Sez. V, Ord.,10/06/2024, n. 16111

Massima

La presunzione legale relativa di evasione, introdotta con riferimento all’omessa dichiarazione di investimenti e attività di natura finanziaria negli Stati o territori a regime fiscale privilegiato dal D.L. n. 78 del 2009art. 12, comma 2, non ha efficacia retroattiva, in quanto non può attribuirsi alla stessa natura procedimentale e di deroga espressa all’art. 11 preleggi e all’art. 3 dello statuto del contribuente.

Supporto alla lettura

PARADISO FISCALE

Con il termine paradiso fiscale ci si riferisce a una giurisdizione o un paese che offre condizioni fiscali vantaggiose e facilità normative per individui e società che cercano di minimizzare l’imposizione fiscale o nascondere i propri redditi e patrimoni.

Uno Stato definito tale, garantisce un prelievo fiscale basso o nullo in termini di imposta sui redditi e sul capital gain derivante dagli investimenti finanziari. Si tratta di una giurisdizione che consente di evadere le tasse e di scavalcare le leggi e le normative di un altro Paese.

Caratteristiche principali sono:

  • la segretezza (intesa come non diffusione a stati terzi dei propri dati finanziari);
  • l’accessibilità (facilità di gestire il proprio patrimonio).

Ambito oggettivo di applicazione

Svolgimento del processo

1. L’Agenzia delle Entrate – Direzione provinciale di Firenze notificava, in data 25 novembre 2011, a (omissis) i seguenti atti: a) avviso di accertamento n. (omissis), con il quale, in applicazione delle presunzioni di cui all’art. 12, comma 2, del D.L. 1° luglio 2009, n. 78, conv. dalla legge 3 agosto 2009, n. 102, e dall’art. 6 del D.L. 28 giugno 1990, n. 167, conv. dalla legge 4 agosto 1990, n. 227, veniva contestata alla contribuente la detenzione di redditi di fonte estera non indicati nel quadro RW della dichiarazione dei redditi per l’anno 2006, e quindi presuntivamente sottratti a tassazione per un importo di Euro 95.917,00, e di interessi attivi per Euro 13.949,00; b) avviso di accertamento n. (omissis), con il quale, sempre in applicazione delle presunzioni di cui all’art. 12, comma 2, del D.L. n. 78/2009, conv. dalla legge n. 102/2009, e dall’art. 6 del D.L. n. 167/1990, conv. dalla legge n. 227/1990, veniva contestata alla contribuente la detenzione di redditi di fonte estera non indicati nel quadro RW della dichiarazione dei redditi per l’anno 2007, e quindi presuntivamente sottratti a tassazione per un importo di Euro 10.964,00, e di interessi attivi per Euro 17.554,00; c) avviso di contestazione n. (omissis), con il quale, in applicazione del combinato disposto degli artt. 4, commi 1 e 2, e 5, commi 4 e 5, del D.L. n. 167/1990, conv. dalla legge n. 227/1990, veniva irrogata la sanzione amministrative pecuniaria dell’importo di Euro 6.644,81.

Tali atti venivano emessi a seguito di attività di verifica effettuata dalla Guardia di Finanza, che traeva origine dalle informazioni riguardanti la contribuente acquisite presso l’amministrazione fiscale francese mediante i canali di collaborazione informativa internazionale previsti dalla Direttive 77/799/CEE del Consiglio del 19 dicembre 1977 e dalla convenzione contro le doppie imposizioni tra Italia e Francia, stipulata il 5 ottobre 1989 e ratificata in Italia con la legge 7 gennaio 1992, n. 20, sulla base di una lista di persone fisiche (c.d. lista (omissis), giunta in possesso delle autorità italiane) detentrici di disponibilità finanziarie presso la Banca (omissis) di Ginevra per gli anni 2005-2006-2007.

Nell’ambito di tali indagini, veniva accertata la disponibilità, da parte della (omissis), di somme di denaro presso la banca (omissis) di Ginevra, attraverso una scheda cliente (fiche) ad essa relativa, riferibile ad un cliente denominato (omissis); di tali disponibilità, solo una parte era stata oggetto di “scudo fiscale”, e quindi la relativa differenza, non dichiarata nel quadro RW per le dichiarazioni relative agli anni 2006 e 2007, era stata considerata come reddito sottratto a tassazione, in applicazione della presunzione di cui all’art. 12 del D.L. n. 78/2009.

2. La contribuente impugnava gli avvisi di accertamento e l’avviso di contestazione suddetti dinanzi alla Commissione tributaria provinciale Firenze la quale, con sentenza n. 47/02/2013, previa riunione dei ricorsi, li rigettava.

3. Interposto gravame dalla contribuente, la Commissione tributaria regionale della Toscana, con sentenza n. 1242/17/2015, pronunciata il 6 luglio 2015, e depositata in segreteria il 9 luglio 2015, rigettava l’appello, condannando la (omissis) alla rifusione delle spese di lite.

4. Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione (omissis), sulla base di cinque motivi.

L’Agenzia delle Entrate resiste con controricorso.

5. La discussione del ricorso è stata fissata dinanzi a questa sezione per l’adunanza in camera di consiglio del 25 gennaio 2024, ai sensi degli artt. 375, secondo comma, e 380-bis.1 cod. proc. civ.

Motivi della decisione

1. Il ricorso in esame, come si è detto, è affidato a cinque motivi.

1.1. Con il primo motivo di ricorso la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 3 della legge 27 luglio 2000, n. 212 (statuto del contribuente) e dell’art. 12, comma 2, del D.L. n. 78/2009, conv. dalla legge n. 102/2009, nonché insufficiente e contraddittoria motivazione sul punto, in relazione all’art. 360, primo comma, num. 3), cod. proc. civ.

Deduce, in particolare, la contribuente che erroneamente la C.T.R. aveva rigettato l’eccezione, sollevata nel giudizio di merito, di violazione del principio di irretroattività della norma tributaria, di cui all’art. 3 della legge n. 212/2000, con riferimento all’art. 12, comma 2, del D.L. n. 78/2009 (norma che prevede che gli investimenti e le attività di natura finanziaria detenute negli Stati o territori a regime fiscale privilegiato, in violazione degli obblighi di cui all’art. 4 del D.L. n. 167/1990, debbono presumersi costituiti, ai fini fiscali, da redditi sottratti a tassazione), essendo quest’ultima una norma che solo apparentemente aveva carattere procedimentale, mentre in realtà aveva carattere sostanziale, in quanto incidente sulla procedura di acquisizione della prova.

Deduce, altresì, la ricorrente, che la motivazione della sentenza impugnata, in parte qua, era illogica e contraddittoria, non essendo prospettabile un contrasto tra l’art. 3 della legge n. 212/2000 (che sancisce il principio di irretroattività delle norme tributarie) e l’art. 12 del D.L. n. 78/2009, che non si pone in antitesi con tale principio.

1.2. Con il secondo motivo si deduce violazione dell’art. 115, primo comma, cod. proc. civ., in relazione all’art. 360, primo comma, dello stesso codice.

Deduce, in particolare, la ricorrente che la C.T.R., una volta ritenuti utilizzabili i dati della c.d. Lista (omissis), avrebbe dovuto vagliarne l’attendibilità, con particolare riferimento alla loro veridicità e consistenza.

1.3. Con il terzo motivo di ricorso la contribuente lamenta la violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., in relazione all’art. 360, primo comma, num. 4), dello stesso codice.

Rileva, in particolare, l’omessa pronuncia in ordine alle eccezioni contenute nell’atto di appello sulla asserita erroneità della ricostruzione dei redditi effettuati dall’Amministrazione finanziaria, che sarebbe stata effettuata sommando ai saldi iniziali del conto presso HSBC al 1° gennaio 2006 ed al 1° gennaio 2007 gli incrementi mensili fino al 31 dicembre di entrambi gli anni, anziché prendendo in considerazione i soli incrementi annuali.

1.4. Con il quarto motivo di ricorso la contribuente eccepisce l’omessa motivazione in merito alla eccezione di illegittima applicazione della tassazione presuntiva ex art. 6 del D.L. n. 167/1990, in relazione all’art. 360, primo comma, num. 5), cod. proc. civ.

Deduce, in particolare, la ricorrente che la C.T.R. aveva omesso di pronunciarsi sulla sollevata eccezione di illegittima applicazione, da parte dell’ufficio, della tassazione presuntiva ex art. 6 D.L. n. 167/1990, e quindi sulla ritenuta illegittima tassazione degli interessi sulle somme detenute sul conto (omissis), ciò che avrebbe determinato, secondo la (omissis), una duplicazione dell’IRPEF recuperata sulle medesime somme.

1.5. Con il quinto motivo di ricorso, infine, si eccepisce violazione e falsa applicazione dell’art. 13-bis del D.L. n. 78/2009, conv. dalla legge n. 102/2009, in relazione all’art. 360, primo comma, num. 3), cod. proc. civ.

Deduce, in particolare, la ricorrente che la motivazione della sentenza impugnata non consentiva di comprendere le ragioni per le quali fossero stati considerati, a incremento del saldo iniziale rilevato nelle disponibilità finanziarie detenute per gli anni 2006 e 2007, gli incrementi mensili, anziché considerare i saldi finali rispettivamente al 31 dicembre 2006 ed al 31 dicembre 2007, anche in considerazione del fatto che le plusvalenze riscontrate avrebbero già scontato le imposte in Svizzera.

2. Così delineati i motivi di ricorso, la Corte osserva quanto segue.

2.1. I primi due motivi possono essere esaminati congiuntamente, in quanto strettamente connessi, e sono infondati.

La contribuente, invero, deduce l’erronea applicazione del principio di irretroattività della norma tributaria ex art. 3 della legge n. 212/2000, in riferimento all’art. 12, comma 2, del D.L. n. 78/2009.

Quest’ultima disposizione, in particolare, prevede che “in deroga ad ogni vigente disposizione di legge, gli investimenti e le attività di natura finanziaria detenute negli Stati o territori a regime fiscale privilegiato di cui al decreto del Ministro delle finanze 4 maggio 1999, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana del 10 maggio 1999, n. 107, e al decreto del Ministro dell’economia e delle finanze 21 novembre 2001, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana del 23 novembre 2001, n. 273, senza tener conto delle limitazioni ivi previste, in violazione degli obblighi di dichiarazione di cui ai commi 1, 2 e 3 dell’articolo 4 del decreto-legge 28 giugno 1990, n. 167, convertito dalla legge 4 agosto 1990, n. 227, ai soli fini fiscali si presumono costituite, salva la prova contraria, mediante redditi sottratti a tassazione. In tale caso, le sanzioni previste dall’articolo 1 del decreto legislativo 18 dicembre 1997, n. 471, sono raddoppiate”.

Ora, non può certo essere ripercorso in dettaglio il dibattito dottrinale sulla natura sostanziale o piuttosto processuale delle presunzioni legali relative, che, come anche di recente osservato, costituisce ancora “il vero punctum dolens” nell’ambito della disciplina generale delle presunzioni legali, su cui, infatti, si sono soffermati tanto gli studiosi del processo civile quanto quelli del diritto civile sostanziale; questione poi che nell’ambito del diritto tributario, caratterizzato dal cospicuo ricorso agli accertamenti di natura presuntiva, assume indubbiamente un rilievo particolare.

Tuttavia non può farsi a meno di notare come, pur da autorevole dottrina processual-civilistica, non si sia mancato di porre in risalto come le presunzioni, in quanto ispirate alla finalità di facilitare la tutela di situazioni giuridiche, sotto tale profilo siano indubbiamente appartenenti al diritto sostanziale, mentre, in quanto espedienti di tecnica legislativa imperniati sulla distribuzione dell’onere della prova, finiscano, sotto tale profilo, con l’assumere rilevanza come limiti o predeterminazioni dell’assetto dell’onere probatorio.

Il problema, in effetti, è reso ancor più arduo dal fatto che, specialmente con riferimento al settore del diritto tributario, non tutte le presunzioni legali relative sono certamente riconducibili allo schema classico secondo cui, salva la prova contraria, la legge riconnette ad un fatto noto l’esistenza di un altro fatto ignoto.

Venendo specificamente alla previsione normativa in esame, è dato rilevare come essa, rispetto alla disciplina, anteriore alla sua entrata in vigore, di cui al citato D.L. n. 167 del 1990art. 6, quale applicabile ratione temporis al presente giudizio – che stabiliva, alle condizioni ivi previste, la presunzione legale, pur sempre relativa, di fruttuosità delle somme in denaro dei certificati di massa o dei titoli trasferiti o costituiti all’estero senza che ne fossero dichiarati i redditi effettivi, in misura pari al tasso ufficiale medio di sconto vigente in Italia nel relativo periodo d’imposta – riconnette direttamente all’omissione di dichiarazione la presunzione legale relativa di evasione, stabilendo, in effetti, l’equipollenza tra omissione di dichiarazione e la costituzione delle succitate disponibilità nei paesi a regime fiscale privilegiato mediante redditi sottratti a tassazione.

In tal caso – come pur si è autorevolmente osservato sul piano della dottrina generale del diritto civile – la presunzione legale relativa non può inquadrarsi perfettamente nell’ambito del fenomeno probatorio, restando “pur sempre il fatto dell’equipollenza, piuttosto che l’evento da provare, ad essere oggetto di prova contraria”.

Ritiene quindi la Corte che debba essere confermato l’indirizzo già espresso in materia (Cass. 19 dicembre 2019, n. 33893 e da Cass. 2 febbraio 2018, n. 2662, di seguito riaffermato da Cass. 21 dicembre 2018, n. 33223 e da Cass. 30 gennaio 2019, n. 2562), con le seguenti ulteriori precisazioni.

2.1.1. La prima può essere espressa nel principio secondo cui “la presunzione legale relativa di evasione introdotta – con riferimento all’omessa dichiarazione di investimenti e attività di natura finanziaria negli Stati o territori a regime fiscale privilegiato – dal D.L. n. 78 del 2009art. 12, comma 2, non ha efficacia retroattiva, in quanto non può attribuirsi alla stessa natura procedimentale”, non incidendo meramente sul metodo di accertamento, né soltanto processuale, non essendo riferibile esclusivamente al riparto dell’onere della prova, come ancora ulteriormente desumibile, secondo quanto già rilevato dai precedenti conformi citati, dalla collocazione delle norme in tema di presunzioni tra quelle sostanziali, nel codice civile, nonché, in generale (cfr. Cass. 19 marzo 2014, n. 6332), sempre riguardo al principio di distribuzione dell’onere probatorio, più che per la sedes materiae, perché consistenti in regole di giudizio che comportano una decisione di merito. D’altronde si è ancora da questa Corte, in maniera condivisibile, affermato che una differente interpretazione potrebbe, in contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost., pregiudicare l’effettività del diritto di difesa del contribuente in ordine alla conservazione di un certo tipo di documentazione.

2.1.2. L’ulteriore precisazione attiene all’interpretazione dell’incipit del citato D.L. n. 78 del 2009art. 12, comma 2, così come convertito dalla L. n. 78 del 2009, “in deroga ad ogni vigente disposizione di legge…”, segnatamente se esso possa intendersi come deroga espressa all’art. 11 disp. prel. cod. civ. ed alla L. n. 212 del 2000art. 3, comma 1 (Statuto del contribuente).

Invero, al riguardo non può farsi a meno di osservare, avuto riguardo all’art. 12 preleggi, come all’interpretazione letterale della norma debba comunque affiancarsi quella sistematica che consenta di rilevare l’intenzione del legislatore. Ebbene, come è dato evincere anche del D.L. n. 78/2009art. 12, successivi commi in esame, quale risultante a seguito della legge di conversione, non vi è dubbio che la disposizione abbia la precipua finalità di avvantaggiare la posizione del Fisco sul piano dell’accertamento, dando per certo, salva la prova contraria, il fatto della costituzione degli investimenti ed attività finanziarie non dichiarati nei menzionati Paesi o territori a regime fiscale privilegiato mediante redditi sottratti a tassazione; sicché appare coerente concludere nel senso che l’inciso sopra indicato debba intendersi in modo che la deroga espressa ivi contenuta sia da porre in relazione agli ordinari strumenti accertativi.

2.1.3. Stante dunque l’inapplicabilità, ratione temporis, agli accertamenti riguardanti gli anni 2006 e 2007, del D.L. n. 78/2009art. 12, comma 2, entrato in vigore successivamente, deve tuttavia rilevarsi che, con riferimento ad accertamento basato essenzialmente sul disposto della citata norma, ritenuta inapplicabile, laddove il fisco ricorrente denunci anche la violazione dell’art. 2729 cod. civ., la Corte possa rinviare – ove ne ricorrano i presupposti – al giudice di merito il riesame dei medesimi fatti, sub specie di presunzione semplice.

A tal proposito si ribadisce, infatti, quanto già ritenuto, ugualmente in fattispecie inerente a c.d. lista (omissis), da Cass. 14 novembre 2019, n. 29632, ovverosia: “la circostanza che la presunzione legale di evasione stabilita dal D.L. n. 78 del 2009art. 12 comma 2, non sia suscettibile di applicazione retroattiva agli anni di imposta antecedenti alla sua entrata in vigore, non preclude all’Ufficio di provare l’esistenza di redditi non dichiarati dal contribuente, detenuti occultamente in paesi a fiscalità privilegiata, anche sulla base di presunzioni semplici gravi, precise e concordanti (D.P.R. n. 600 del 1973art. 38, comma 2 con riguardo alla rettifica del reddito delle persone fisiche), senza fare ricorso alla presunzione legale in oggetto”.

A tal fine occorre considerare che, secondo la giurisprudenza di legittimità, civile e tributaria, in tema di presunzioni semplici, gli elementi assunti a fonte di prova non debbono essere necessariamente più d’uno, ben potendo il giudice fondare il proprio convincimento anche su uno solo di essi, purché grave e preciso, dovendo il requisito della “concordanza” ritenersi menzionato dalla legge solo in previsione di un eventuale, ma non necessario, concorso di più elementi presuntivi. (Cass. 26 settembre 2018, n. 23153); con riferimento alla materia tributaria, il convincimento del giudice in ordine alla sussistenza di redditi maggiori di quelli dichiarati può fondarsi anche su una sola presunzione semplice, purché grave e precisa (Cass. 22 dicembre 2017, n. 30803; con specifico riferimento alla “lista (omissis)“, Cass. 12 febbraio 2019, n. 3276, secondo cui l’Amministrazione finanziaria può fondare la propria pretesa anche su un unico indizio, se grave e preciso, cioè dotato di elevata valenza probabilistica (nella specie, risultanze della cd. “lista (omissis)“)). Resta, dunque, confermato il principio di diritto secondo cui: “La presunzione legale relativa di evasione, introdotta con riferimento all’omessa dichiarazione di investimenti e attività di natura finanziaria negli Stati o territori a regime fiscale privilegiato dal D.L. n. 78 del 2009art. 12, comma 2, non ha efficacia retroattiva, in quanto non può attribuirsi alla stessa natura procedimentale e di deroga espressa all’art. 11 preleggi e all’art. 3 dello statuto del contribuente; laddove il fisco ricorrente denunci anche la violazione dell’art. 2729 cod. civ., la Corte può rinviare al giudice di merito il riesame dei medesimi fatti addotti, sub specie di presunzione semplice” (conf. anche Cass. 14 novembre 2019, n. 29633).

Sulla scorta di quanto sin qui evidenziato, allora – ed operandosi in correzione della motivazione della sentenza impugnata ex art. 384, quarto comma, cod. proc. civ. – deve ritenersi comunque legittima l’utilizzazione della scheda cliente riepilogante gli investimenti e le attività di natura finanziaria detenute dalla ricorrente presso la Banca (omissis), in quanto formante un elemento indiziario forte e sufficiente ha fondare la presunzione della natura reddituale delle somme in questione (in assenza, tra l’altro, di prove in senso contrario), e dunque a prescindere dalla presunzione legale di cui all’art. 12, comma 2, D.L. n. 78/2009, cit. (ancora in tal senso Cass. 28 febbraio 2022, n. 6509).

A tal proposito, va altresì evidenziato (con specifico riferimento al secondo motivo di ricorso) che, nel giudizio di merito, la contribuente non ha contestato né la titolarità del conto, né la veridicità dei dati contenuti nella scheda riferita al conto, ma unicamente la correttezza degli importi accertabili sulla base dei dati presenti sul conto. Appare, perciò, corretta l’affermazione del giudice di merito, che ha ritenuto con contestata la riconducibilità del conto alla contribuente, ritenendo così superato anche il profilo riguardante la questione dell’utilizzabilità dei dati, e ritenendo altresì, in mancanza di elementi in senso contrario, la natura reddituale delle somme esistenti sul conto in questione.

Alla luce di tutto quanto precede va ribadito il principio secondo cui la prova della esistenza di redditi non dichiarati dal contribuente, detenuti in maniera occulta in Paesi c.d. “black list”, può essere fornita non solo mediante la presunzione legale D.L. n. 78 del 2009 ex art. 12, comma 2, convertito con modificazioni dalla L. n. 102 del 2009 (non applicabile ratione temporis alla fattispecie), ma anche per mezzo di un unico elemento come tale idonea a fondare una presunzione semplice, purché grave e precisa. Gli elementi di prova in tema di presunzioni semplici non devono, pertanto, essere necessariamente molteplici in quanto il giudice può fondare il suo convincimento anche su un solo elemento, purché, per l’appunto, sia grave e preciso (e, quindi, dotato di elevata valenza indiziaria fortemente probabilistica) e tanto proprio in relazione al requisito della concordanza che assume rilievo solamente in presenza di più elementi presuntivi (ex plurimis, Cass. 14 novembre 2019, nn. 29632, 29633; Cass. 26 settembre 2018, n. 23153Cass. 12 febbraio 2018, n. 3276Cass. 22 dicembre 2017, n. 30803; da ultimo, Cass. 27 maggio 2021, n. 14834).

Pertanto è legittima l’utilizzazione della scheda cliente riepilogante gli investimenti e le attività di natura finanziaria detenute dal ricorrente presso la Banca svizzera, trasmessa dall’autorità finanziaria francese a quella italiana, ai sensi della direttiva 77/799/CEE, senza onere di preventiva verifica da parte dell’autorità destinataria, in quanto formante (unico) indiziario forte a prescindere dalla presunzione di cui al D.Lgs. cit., art. 12, comma. 2 (ancora in tal senso Cass. 7 giugno 2022, n. 18352Cass. 28 febbraio 2022, n. 6509).

2.2. Il terzo motivo è infondato.

Le eccezioni in oggetto sono state esaminate nell’ambito della motivazione riguardante l’art. 13-b/s del D.L. n. 78/2009 (punto n. 3 della motivazione), laddove si dice che “va osservato: a) come la somma depositata presso la (omissis)ed oggetto di rimpatrio fosse costituita da Euro 434.511,00; b) come tale somma al termine dell’esercizio 2007 fosse superiore al capitale iniziale in ragione degli investimenti effettuati; c) come lo scudo fiscale non possa ricomprendere gli incrementi maturati ai fini della potestà accertativa, posto che l’art. 13-bis D.L. n. 78/2009 ha previsto la regolarizzazione delle somme detenute all’estero in violazione della previsione di cui al D.L. n. 167/1990 senza operare distinzione fra il deposito capitale originariamente ed illecitamente costituito e gli eventuali incrementi a qualsiasi titolo maturati e tanto in perfetta armonia con l’art. 12 del D.L. n. 78/2009; d) come, ad ogni buon conto, la pretesa della parte privata non può che essere disattesa sotto tale profilo, anche in considerazione della previsione di cui all’art. 3 TUIR che sottopone a tassazione “tutti i redditi posseduti al netto degli oneri deducibili”, e quindi non possono che costituire oggetto di ripresa fiscale, presumendone la sottrazione alla tassazione, anche gli importi derivanti dagli investimenti della somma originariamente depositata e poi scudata”.

2.3. Anche il quarto motivo è infondato.

La questione della legittimità o meno della ripresa a tassazione ex art. 6 del D.L. n. 167/1990 è assorbita, nella decisione impugnata, al punto n. 3) della motivazione, laddove si legge che “non possono che costituire oggetto di ripresa fiscale, presumendone la sottrazione alla tassazione, anche gli importi derivanti dagli investimenti della somma originariamente depositata e di poi scudata”.

È evidente che, tra gli importi derivanti dagli investimenti della somma originariamente scudata, rientrano anche gli interessi che la C.T.R. ha ritenuto tassabili, unitamente agli incrementi diretti sul conto, ragion per cui nessuna duplicazione d’imposta si può configurare.

2.5. Pure il quinto motivo, infine, è infondato.

Le somme assoggettate a tassazione non sono quelle oggetto di scudo fiscale, ma soltanto gli incrementi prodotti dall’investimento della somma originariamente esportata illegalmente e fatta oggetto di scudo fiscale, e come tali sono state considerate reddito in base alla previsione di cui all’art. 3 del D.P.R. n. 917/1986, in forza del quale l’imposta sui redditi si applica sul reddito complessivo del soggetto, “formato, per i residenti, da tutti i redditi posseduti al netto degli oneri deducibili”.

3. Il ricorso, quindi, nel suo complesso deve essere rigettato. Le spese di giudizio seguono la soccombenza della ricorrente, secondo la liquidazione di cui al dispositivo.

Ricorrono i presupposti processuali per il pagamento, da parte della ricorrente, di una somma di importo pari al contributo unificato previsto per la presente impugnazione, se dovuto, ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

Condanna (omissis) alla rifusione, in favore dell’Agenzia delle Entrate, delle spese del presente giudizio, che si liquidano in Euro 5.600,00 per compensi, oltre spese prenotate a debito.

Dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il pagamento, da parte della ricorrente, di una somma di importo pari al contributo unificato previsto per la presente impugnazione, se dovuto, ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115.

Conclusione

Così deciso in Roma, il 25 gennaio 2024.

Depositato in Cancelleria il 10 giugno 2024.

Allegati

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