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Cassazione civile sez. I, 11/11/2010, n. 22911

Massima

In tema di responsabilità degli amministratori e dei sindaci di società, una volta accertata la violazione di legge e il danno subito dalla società, grava sugli stessi l’onere di dimostrare la non imputabilità a sé del fatto dannoso, fornendo la prova positiva di aver adempiuto ai propri doveri di vigilanza e di diligenza.

Supporto alla lettura

Società di capitali

e società di capitali sono:

  • la S.p.a. (società per azioni);
  • la S.a.p.a. (società in accomandita per azioni);
  • la S.r.l. (società a responsabilità limitata);
  • la S.r.l.s. (società a responsabilità limitata semplificata).

Si tratta di organizzazioni di persone e mezzi per l’esercizio in comune di un’attività produttiva, dotate di piena autonomia patrimoniale: quindi, soltanto la società con il suo patrimonio risponde delle obbligazioni sociali. Il socio, pertanto, ha una responsabilità limitata al capitale conferito, non assumendo alcuna responsabilità personale, neanche sussidiaria, per le obbligazioni sociali (tranne i casi previsti dalla legge).

Ambito oggettivo di applicazione

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con atto notificato il 15 maggio 1991 la (omissis) Assicurazioni s.p.a. (in prosieguo indicata come (omissis)) citò in giudizio per risarcimento di danni dinanzi al Tribunale di Milano tutti coloro che avevano ricoperto la carica di amministratori e di sindaci della società nel periodo compreso tra il (omissis) imputando loro molteplici comportamenti contrari di doveri inerenti alle cariche rivestite.

Instauratosi il contraddittorio, il processo fu interrotto per sopravvenuta sottoposizione della (omissis) a liquidazione coatta amministrativa, per essere poi riassunto dal commissario liquidatore.

Il tribunale, con sentenza emessa il 15 giugno 1998, rigettò le domande proposte dalla società attrice, che interpose però gravame, – parzialmente accolto dalla Corte d’appello di Milano con sentenza resa pubblica l’11 giugno 2004.

Detta corte, infatti, ravvisò la responsabilità degli ex amministratori della (omissis), sigg.ri (omissis), (omissis), (omissis) e (omissis), nonchè degli ex sindaci, sigg.ri (omissis), (omissis) e (omissis), per aver consentito che la società svolgesse attività assicurativa nel ramo “auto rischi diversi” senza la necessaria autorizzazione ed in violazione delle disposizioni emanate dalla competente autorità di vigilanza, così da esporre la società medesima al pagamento di una sanzione amministrativa che, a seguito di opposizione proposta dinanzi al pretore e del passaggio in giudicato della relativa decisione, era stata quantificata in L. 3.410.000.000. I convenuti sopra menzionati furono perciò condannati a reintegrare la società Alpi di quanto da essa a questo titolo pagato.

Avverso tale sentenza sono stati proposti tre separati ricorsi per cassazione: il primo (R.G. 16659/05), ad opera del sig. (omissis), articolato in tre motivi; il secondo (R.G. 18864/05), ad opera dei sigg.ri (omissis), (omissis) e (omissis), articolato in cinque motivi; ed il terzo (R.G. 18882/05), ad opera del sig. (omissis), articolato in tre motivi.

A tutti la (omissis) ha replicato con controricorso.

Poichè il quarto motivo del secondo dei menzionati ricorsi implicava una questione di giurisdizione, ne sono state investite le sezioni unite, le quali, con la sentenza n. 13399 dell’8 giugno 2007, dopo aver riunito i ricorsi, hanno rigettalo l’anzidetto motivo.

Per l’esame delle ulteriori doglianze la causa è stata quindi rimessa a questa sezione.

Il difensore del sig. (omissis) e quello della Alpi hanno depositato memorie.

MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Come già detto, i ricorsi proposti contro la medesima sentenza sono stati in precedenza riuniti ed il quarto motivo del ricorso contrassegnato col numero R.G. 18864/05 è stato già deciso dalle sezioni unite.2. Occorre ora dunque procedere all’esame dei rimanenti motivi del medesimo ricorso, nonchè degli altri due. Nel farlo, è però senz’altro possibile considerare unitariamente i ricorsi dei due ex amministratori, sigg.ri (omissis) e (omissis), le cui doglianze sono sostanzialmente le medesime.

2.1. Nel primo motivo dei due indicati ricorsi si denuncia la violazione dell’art. 2909 c.c. e si fa cenno ad un difetto di motivazione dell’impugnata sentenza. I ricorrenti, in particolare, si dolgono del fatto che la corte d’appello abbia ritenuto provata la violazione dei doveri gravanti sugli amministratori della (omissis) facendo leva sull’accertamento di responsabilità operato in altro giudizio, svoltosi dinanzi al pretore investito dell’opposizione proposta dalla società avverso la sanzione amministrativa irrogata dall’autorità di vigilanza. Ma siffatto accertamento, osservano i ricorrenti, non ha valore di giudicato nei riguardi degli amministratori della società, ai fini dell’accertamento della loro personale responsabilità verso la società stessa, non essendo stati essi parte di quel precedente giudizio.

2.2. Il secondo motivo dei due ricorsi in esame, nel lamentare anche la violazione dell’art. 2392 c.c., ritorna sul medesimo tema per sottolineare come diversi siano i presupposti dell’accertamento di responsabilità compiuto dal pretore, nell’ambito del giudizio di opposizione a sanzione amministrativa, rispetto a quelli richiesti per potersi affermare la responsabilità civile degli organi della società, specie quando si tratti di amministratori privi di deleghe.

Nè il semplice rilievo dell’impugnata sentenza secondo cui costoro non avevano fatto annotare il proprio dissenso nei libri sociali è sufficiente a dimostrare che essi fossero consapevoli della violazione perpetrata dall’amministratore delegato e che non abbiano fatto quanto necessario per impedirla o per rimuoverne gli effetti.

2.3. Analoghi concetti sono espressi nel terzo motivo dei ricorsi, in cui sì imputa alla corte d’appello anche di aver violato l’art. 2697 c.c., ribadendosi, da parte dei ricorrenti, che nessuna prova è stata acquisita nel contraddittorio delle parti in ordine all’esercizio abusivo di attività assicurativa ad opera della (omissis), in ordine alla colpevolezza del comportamento addebitato agli amministratori privi di delega ed in ordine al nesso causale tra tale comportamento ed il danno sofferto dalla società.

3. Il ricorso proposto dagli ex sindaci della (omissis), sigg.ri (omissis), (omissis) e (omissis), presenta anch’esso diversi punti di contatto con gli altri due ricorsi sopra riferiti.

3.1. Anche gli ex sindaci anzitutto si dolgono, oltre che di vizi di motivazione della sentenza impugnata, della violazione dell’art. 2909 c.c., insistendo sulla loro estraneità al giudizio di opposizione a sanzione amministrativa, all’esito del quale è stata emessa la decisione del pretore (poi confermata dalla Cassazione e quindi passata in giudicato) su cui la corte d’appello ha fondato l’accertamento della responsabilità di essi sindaci, i quali non erano stati però destinatari di dette sanzioni e che non avrebbero quindi potuto esser condannati in solido a rivalere la società di quanto a questo titolo pagato.

3.2. Il secondo motivo del ricorso di cui si sta parlando contiene la denuncia di un vizio di extrapetizione in cui sarebbe incorsa la corte d’appello per avere – senza domanda in tal senso dell’attrice – esteso in via solidale e di regresso la condanna pronunciata dal pretore con la sentenza sopra richiamata a soggetti diversi dai destinatari della sanzione amministrativa centro cui la società aveva proposto opposizione.

3.3. Connessa alle precedenti è la doglianza espressa nel terzo motivo del medesimo ricorso, nel quale si denuncia la violazione del diritto di difesa garantito dall’art. 24 Cost., essendo stati i sindaci della (omissis) condannati a rispondere in solido ed in via di rivalsa di una sanzione non ad essi irrogata ed avverso la quale non avrebbero potuto proporre essi stessi opposizione.

3.4. Nel quinto motivo del ricorso – del quarto si tace, essendo stato già rigettato con la sentenza n. 13399/07 delle sezioni unite – gli ex sindaci tornano a denunciare vizi di motivazione della sentenza impugnata ed, inoltre, la violazione dell’art. 2697 c.c..

Dopo aver ribadito che nessuna prova a loro carico è desumibile dal giudizio di opposizione a sanzione amministrativa di cui s’è detto, essi sostengono che non sono state in alcun modo dimostrate nella presente causa nè la violazione da parte loro dei doveri di vigilanza inerenti alla carica, nè l’esistenza di un danno che la società abbia subito come conseguenza di una tale pretesa violazione.

4. Nessuno dei motivi di ricorso dei quali si è dato sinteticamente conto appare meritevole di essere accolto.

Gran parte delle considerazioni che ci si accinge a fare sono, in realtà, riferibili a tutti e tre i ricorsi; ma, per un migliore ordine espositivo, converrà inizialmente occuparsi di quelli proposti dagli ex amministratori della società, sigg.ri (omissis) e (omissis), riservando l’aggiunta di qualche ulteriore osservazione al ricorso degli ex sindaci.

4.1. E’ opportuno anzitutto sottolineare quanto già puntualizzato dalla citata sentenza n. 13399/07 delle sezioni unite di questa corte: cioè che oggetto della presente causa non è la pretesa della società di estendere ai propri ex amministratori e sindaci la sanzione amministrativa cui la società stessa è stata assoggettata per aver esercitato l’impresa di assicurazione in un ramo nel quale non era autorizzata, “bensì l’accertamento della responsabilità di tali soggetti, per mancato svolgimento dell’attività di controllo, in relazione alle conseguenze dannose, che ne sono derivate alla società, rappresentate dal pagamento delle sanzioni pecuniarie in questione, ad essa società irrogate, e non a quei consiglieri e sindaci irrogando”.

L’irrogazione della sanzione è un fatto storico, non controverso nel suo effettivo accadimento, così come lo è la sentenza del pretore, passata in giudicato a seguito del rigetto del ricorso per cassazione contro di essa proposto, che ha definitivamente fissato l’entità di quella sanzione posta a carico della società.

Da questa premessa muove, correttamente, l’impugnata sentenza della corte d’appello, alla quale non può perciò imputarsi di avere indebitamente esteso gli effetti del giudicato formatosi sulla menzionata decisione del pretore anche a soggetti estranei al giudizio in cui quella decisione è stata resa.

Il richiamo a quella diversa vicenda processuale è servito solo a fissare un dato di fatto, documentato in causa e del resto neppure controverso: che la società (omissis) è stata sanzionata per avere esercitato un’attività assicurativa non autorizzata e che sul suo passivo è venuto perciò a gravare un debito corrispondente all’ammontare della sanzione irrogata.

L’asserita violazione dell’art. 2909 c.c., lamentata nel primo motivo di tutti i ricorsi qui in esame, pertanto, non sussiste.

4.2. L’irrogazione della sanzione costituisce l’evento dannoso di cui la società Alpi ha chiesto di essere risarcita. Il rilievo che quella sanzione era stata irrogata per lo svolgimento di un’attività assicurativa non autorizzata ha condotto la corte di merito ad individuare, a carico di coloro che all’epoca impersonavano gli organi sociali, il comportamento contrario ai loro doveri legali e statutari da cui discende la loro responsabilità, a norma dell’art. 2392 c.c..

Che il giudice di merito possa utilizzare, in mancanza di qualsiasi divieto di legge, anche le prove raccolte in un diverso giudizio tra le stesse parti o tra altre parti, delle quali la sentenza che in detto giudizio sia stata pronunciata costituisce documentazione, è principio già altre volte affermato da questa corte (cfr., ex aliis, Cass. 31 ottobre 2005, n. 21115), dal quale non v’è motivo per discostarsi. Nessuna violazione delle regole sull’onere della prova è perciò riscontrabile nell’avere la corte d’appello desunto la prova dell’esercizio abusivo dell’attività assicurativa dalle risultanze del richiamato giudizio di opposizione a sanzione amministrativa, specie ove si consideri che specifiche contestazioni in punto di fatto non risultano esser state formulate al riguardo nel presente giudizio e che anche nei ricorsi per cassazione ora in esame nulla si dice che valga seriamente a mettere in dubbio la circostanza storica sopra riferita.

La dinamica del fatto dannoso, come sopra accertato, rende del tutto logica la sua addebitabilità a coloro che, gestendo la società, avevano il dovere d’indirizzarne l’attività in ambiti consentiti e di non esporla, sviando da quegli ambiti, all’onere della conseguente sanzione.

4.3. Quanto poi ai requisito soggettivo della responsabilità degli amministratori e dei sindaci verso la società, occorre subito rilevare come la natura contrattuale di tale responsabilità comporti che, mentre su chi promuove l’azione grava esclusivamente l’onere di dimostrare la sussistenza delle violazioni ed il nesso di causalità tra queste ed il danno verificatosi, incombe, per converso, su amministratori e sindaci l’onere di dimostrare la non imputabilità a sè del fatto dannoso, fornendo la prova positiva, con riferimento agli addebiti contestati, dell’osservanza dei doveri e dell’adempimento degli obblighi loro imposti (vedi, tra le altre, Cass. 29 ottobre 2008, n. 25977; e Cass. 24 marzo 1999, n. 2772).

Aggiungasi che, comunque, la corte d’appello non ha mancato di richiamare – facendola per ciò stesso propria – l’osservazione della sentenza di questa corte che ebbe a rigettare il ricorso avverso la decisione con cui il pretore si era pronunciato sull’opposizione della (omissis) alla sanzione amministrativa irrogatale, secondo la quale, alla stregua di una circolare esplicativa emanata dall’Isvap sin dall’8 giugno 1987, non possono nutrirsi seri dubbi sul fatto che la medesima (omissis) necessitasse di una specifica autorizzazione per l’esercizio dell’assicurazione nel ramo “auto rischi diversi” e che, ove pure simili dubbi fossero sorti negli amministratori della società, costoro avrebbero avuto il dovere di attivarsi per chiedere chiarimenti alla competente autorità pubblica.

Anche sotto questo profilo l’imputabilità del fatto dannoso appare dunque pienamente e correttamente motivata.

4.4. I ricorrenti, come s’è detto, sottolineano però il fatto che nessuno di loro aveva specifiche responsabilità operative nell’ambito del consiglio di amministrazione della società, e ne deducono che la responsabilità dell’accaduto non potrebbe essere loro ascritta o che, comunque, la corte d’appello avrebbe omesso d’individuare gli elementi specifici in base ai quali ha ritenuto di addebitare loro la responsabilità per l’operato dell’amministratore delegato.

Neppure questo rilievo coglie nel segno.

Premesso che la vicenda in esame ricade sotto il vigore della normativa societaria anteriore alle modifiche apportatevi dal D.Lgs. n. 6 del 2003, la corte d’appello appare aver fatto nel presente caso corretta applicazione del disposto dell’allora vigente art. 2392 c.c., comma 2, che poneva a carico anche degli amministratori privi di delega il dovere di vigilare sul generale andamento della società. Dovere che, come in più occasioni già precisato da questa corte (si veda, ad esempio, Cass. 15 febbraio 2005, n. 3032), permaneva anche in caso di attribuzione di funzioni al comitato esecutivo o a singoli amministratori delegati, a meno che non fosse data la prova che i rimanenti consiglieri, pur essendosi diligentemente attivati a tal fine, non avessero potuto in concreto esercitare la predetta vigilanza per il comportamento ostativo degli altri componenti del consiglio.

Nella logica sottesa alla decisione impugnata è ben chiaro come sia proprio la violazione di tale dovere generale di vigilanza, oltre che la mancata formale annotazione nel libro delle deliberazioni consiliari di una qualsivoglia manifestazione di dissenso, ad aver costituito la ragione dell’addebito agli odierni ricorrenti della responsabilità per lo svolgimento da parte della società di attività assicurativa non autorizzata. Ed è appena il caso di aggiungere che una così macroscopica e rilevante esorbitanza dell’attività sociale dall’ambito consentito non avrebbe potuto nè dovuto in alcun modo sfuggire ad una vigilanza appena diligente, trattandosi di un intero ramo di attività e non di singoli e sporadici atti che l’amministratore delegato avrebbe potuto facilmente porre in essere all’insaputa degli altri consiglieri, di amministrazione. Ragion per la quale le conclusioni cui la corte territoriale è pervenuta, in una situazione di tal fatta, appaiono pienamente logiche, senza bisogno di esser supportate da altri e più specifici elementi di prova in ordine al difetto di vigilanza imputabile ai ricorrenti, come invece essi pretenderebbero.

Nè giova l’insistito richiamo al fatto che, dal contenuto dei verbali del consiglio di amministrazione, non si evincerebbero elementi di responsabilità a carico dei ricorrenti: non solo perchè del contenuto di quei verbali (non riferito nei ricorsi) questa corte non è abilitata a prendere direttamente conoscenza, così come non lo è di ogni altra risultanza istruttoria la cui valutazione è riservata al giudice di merito, ma anche e soprattutto per l’evidente considerazione che il difetto di vigilanza sul generale andamento della società si estrinseca in un comportamento omissivo, come tale ovviamente destinato a non lasciare traccia, ed i ricorrenti trascurano d’indicare se e quale loro intervento positivo, di cui la corte d’appello avrebbe trascurato di tener conto, risulterebbe invece attestato in detti verbali.

5. Quanto appena osservato consente di rigettare senz’altro i due ricorsi proposti dagli ex amministratori della società (omissis); ma la conclusione non è diversa per il ricorso proposto dagli ex sindaci.

Il rigetto dei primi tre motivi di quest’ultimo ricorso discende con evidenza calle considerazioni sopra svolte al punto 4.1., senza che appaia necessario aggiungere altro.

L’infondatezza del quinto motivo è invece legata a rilievi in gran parte analoghi a quelli già esposti al punto 4.4.

Anche per i sindaci, come per gli amministratori privi di deleghe operative, la responsabilità è ravvisabile in un difetto di vigilanza loro addebitabile, a norma dell’art. 2407 c.c., comma 2, ed in questi corretti termini essa è stata affermata, nella fattispecie in esame, dalla corte d’appello. Non diversamente da quanto s’è detto per gli amministratori, in un caso come l’attuale, caratterizzato da un agire degli amministratori protrattosi nel tempo al di fuori dei limiti consentiti e tale da coinvolgere un intero ramo dell’attività dell’impresa sociale, non appare necessaria l’individuazione di specifici comportamenti forieri per i sindaci di responsabilità, risiedendo questa nel fatto stesso di non aver rilevato una così macroscopica violazione o, comunque, di non avere in alcun modo ad essa reagito. Ed anche qui si deve osservare come a nulla giovi il richiamo operato dai ricorrenti al contenuto dei verbali delle riunioni del collegio sindacale, volta che i medesimi ricorrenti non indicano se e quale specifico loro intervento di contrasto all’illegittima attività degli amministratori da quei, verbali risulterebbe.

E’ poi appena il caso di aggiungere che nemmeno può essere messa in discussione la rilevanza causale, rispetto alla produzione dell’evento dannoso, dell’accertata inerzia del collegio sindacale.

Già in passato questa corte ha avuto modo di sottolineare come, dovendo il comportamento dei sindaci ispirarsi al dovere di diligenza proprio del mandatario (secondo la formulazione del citato art. 2407 c.c., comma 1, vigente al tempo dei fatti di causa) o comunque essere improntato al principio di correttezza e buona fede, esso non può esaurirsi nel solo espletamento delle attività specificamente indicate dalla legge, ma comporta l’obbligo di adottare ogni altro atto che sia necessario per l’assolvimento dell’incarico, come la segnalazione all’assemblea delle irregolarità di gestione riscontrate e financo, ove ne ricorrano gli estremi, la denuncia al pubblico ministero per consentirgli di provvedere ai sensi dell’art. 2409 c.c. (Cass. 17 settembre 1997, n. 9252). E’ del tutto ragionevole presumere che il ricorso a siffatti rimedi, o anche solo la minaccia di farlo da parte del collegio sindacale in ipotesi di mancato ravvedimento operoso degli amministratori, sarebbe stato idoneo ad evitare (o, quanto meno, a ridurre) l’intervento sanzionatorio dell’autorità di vigilanza del settore assicurativo, alla quale del resto gli stessi sindaci avrebbero potuto rivolgere quel quesito preventivo che la corte d’appello imputa agli amministratori di non aver formulato in caso di dubbio.

6. Al rigetto del ricorso fa seguito la condanna in solido dei ricorrenti al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che si liquidano in Euro 20.000,00 per onorari e Euro 200,00 per esborsi, oltre alle spese generali ed agli accessori di legge.

P.Q.M.
La corte rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti in solido al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in Euro 20.000,00 per onorari e Euro 200,00 per esborsi, oltre alle spese generali ed agli accessori di legge.Così deciso in Roma, il 30 settembre 2010.

Depositato in Cancelleria il 11 novembre 2010

Allegati

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