1. Oggetto dell’impugnazione è la sentenza con la quale la Corte d’appello di Torino, confermando la condanna pronunciata in primo grado, ha ritenuto (omissis) responsabile del reato di diffamazione, di cui all’art. 595, commi 1 e 3, cod. pen., per aver diffuso a mezzo mail una denuncia querela presentata presso la Procura della Repubblica di Milano del seguente tenore: “si chiede in primo luogo di perseguire gli avvocati che non hanno mai consegnato nessuna sentenza, nello specifico avv. (omissis) e avv. (omissis), oltre ai giudici della corte d’appello di Torino, che invece di dare atto del cattivo atteggiamento professionale degli avvocati, hanno fatto finta di niente, facendo pagare ogni conseguenza penale al sottoscritto” -, e così offendendo la reputazione di (omissis), nominato suo difensore d’ufficio in altro procedimento penale.
2. Il ricorso, proposto nell’interesse dell’imputato, si compone di un unico motivo d’impugnazione, a mezzo del quale si deduce violazione degli artt. 49 e 595 cod. pen. nella parte in cui la Corte d’appello, confondendo i piani della portata diffamatoria (necessariamente preliminare) e della eventuale (successiva) operatività della scriminante, si sarebbe limitata a negare l’operatività di un ipotetico diritto di critica, senza, però, valutare, preliminarmente la valenza offensiva delle frasi richiamate nel capo d’imputazione.
Non si sarebbe tenuto conto, infatti: a) che le deliranti doglianze sono state rivolte anche ad altri soggetti (i giudici della Corte d’appello di Torino); b) che i destinatari delle mail sono tutti soggetti con specifiche competenze tecniche, che, plausibilmente, mai hanno ritenuto credibili le accuse del ricorrente; c) che il contenuto della mail è talmente astruso e delirante da essere, in sé, inidoneo a ledere la reputazione delle persone ivi menzionate.
Il ricorso è inammissibile perché la censura non risulta essere stata previamente dedotta, secondo quanto prescritto a pena di inammissibilità dall’art. 606, comma 3, cod. proc. pen., fra i motivi d’appello, con i quali l’imputato si è limitato a dedurre un asserito vizio di competenza (in ipotesi da attribuire al Giudice di Pace) e l’incapacità di intendere e volere dell’imputato al momento del fatto. Il profilo della valenza diffamatoria delle frasi contenute nella mail è stato dedotto in termini chiaramente assertivi e connessi alla forma astrusa dello scritto.
In ogni caso, anche a voler prescindere da tale assorbente considerazione, le censure sollevate dal ricorrente sono manifestamente infondate.
La condotta diffamatoria si sostanzia, nella sua oggettiva materialità, nella propalazione di notizie lesive della reputazione di un individuo, intesa come l’insieme delle qualità morali, intellettuali e fisiche da cui dipende il valore della persona nel contesto sociale in cui vive; un dato, quindi, che non si identifica con la considerazione che ciascuno ha di sé o con il semplice personale amor proprio, ma con il senso di dignità di cui ciascuno gode all’interno di un gruppo sociale, in un determinato contesto storico di riferimento.
Ebbene, contrariamente a quanto sostenuto dalla difesa, il tenore offensivo della mail non si rinviene nell’affermazione afferente all’omessa comunicazione della sentenza all’imputato, da parte del suo difensore: la lesività si percepisce nelle reiterate affermazioni afferenti ad una pretesa negligenza professionale del difensore in relazione a specifici processi in cui l’imputato era stato difeso dalla persona offesa (“cattivo atteggiamento professionale degli avvocati… hanno fatto finta di niente”).
In questi termini, le affermazioni contenute nella mail non si risolvono in una mera sconvenienza o in un’infrazione alla suscettibilità o alla gelosa riservatezza della persona offesa: l’imputato ha reso affermazioni con tratti e contenuti gratuitamente offensivi del ruolo del difensore svolto dalla parte offesa, idonee, nella loro oggettività e secondo il comune senso di decoro, ad incidere sulla considerazione che la persona (diffamata) ha acquisito all’interno del gruppo sociale ove essa è inserita, incrinando la sua reputazione professionale.
Il ricorso, pertanto, deve essere ritenuto inammissibile e il ricorrente condannato al pagamento delle spese processuali e al versamento della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
In ragione dei dati sanitari evocati, deve essere disposto l’oscuramento del presente provvedimento.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle ammende.In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a norma dell’art. 52 D.Lgs. n. 196/03 in quanto imposto dalla legge.
Così deciso il 17 gennaio 2025.
Depositata in Cancelleria il 5 marzo 2025.