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Cassazione civile sez. II, 26/10/2018, n.27254

Massima

Gli atti interruttivi dell’usucapione, posti in essere nei confronti di uno dei compossessori, non hanno effetto interruttivo nei confronti degli altri, in quanto il principio di cui all’articolo 1310 del codice civile, secondo cui gli atti interruttivi contro uno dei debitori in solido interrompono la prescrizione contro il comune creditore con effetto verso gli altri debitori, trova applicazione in materia di diritti di obbligazione e non di diritti reali, per i quali non sussiste vincolo di solidarietà, dovendosi, invece, fare riferimento ai singoli comportamenti dei compossessori, che giovano o pregiudicano solo coloro che li hanno posti in essere.

Supporto alla lettura

L’usucapione è un modo di acquisto a titolo originario della proprietà mediante il possesso continuativo del bene immobile o mobile per un periodo di tempo determinato dalla legge. L’istituto dell’usucapione, disciplinato dagli articoli 1158 e seguenti del codice civile, configura una delle ipotesi di acquisto di un diritto su beni mobili o immobili a titolo originario. Per il suo compimento infatti, a differenza degli acquisti a titolo derivativo, non necessita della collaborazione o del consenso di chi era in precedenza titolare del diritto usucapito. Per l’usucapione sono necessari i seguenti requisiti:
• La prima è l’“animus possidendi” cioè la a volontà di possedere un bene come si fosse titolari del diritto di proprietà o dell’altro diritto corrispondente.
• La seconda è l’“animus rem sibi habendi” cioè la volontà di tenere un bene esercitando i poteri corrispondenti a quelli del titolare del diritto reale.
• La terza è il “corpus possessionis”. Questo è lo stato di fatto che si configura in modo tale da far apparire il possessore quale titolare del diritto reale corrispondente.
Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 5087, depositata il giorno 5 marzo 2014 riconoscono la possibilità di usucapire l’azienda con il possesso continuato ventennale. Secondo la Suprema Corte l’azienda, ai fini della disciplina del possesso e dell’usucapione, quale complesso di beni organizzati per l’esercizio dell’impresa, deve essere considerata come un bene distinto dai singoli beni che la compongono, e quindi suscettibile di essere unitariamente posseduta e, nel concorso degli altri elementi indicati dalla legge, usucapita. Secondo la Corte, se il possesso si esercita sulla cosa, e se si intende il termine “cosa” in senso economico-sociale, si possono considerare “cose” anche beni non corporei, come i beni immateriali (proprietà intellettuale, ad esempio) o complessi di beni organizzati, come ad esempio l’azienda, definita dal codice civile stesso come complesso organizzato di beni per l’esercizio di una impresa.
La Corte esprime una concezione “oggettivata” dell’azienda che, senza cancellare il suo collegamento organizzativo e finalistico con l’attività d’impresa, assume una propria autonomia di “cosa”, possibile oggetto di rapporti giuridici e di diritti. Occorre a tal fine separare l’azienda intesa come cosa, dall’insieme dei singoli beni e dall’esercizio dell’impresa.
I giudici in tal senso adducono quali esempi tipici di dissociazione tra proprietà dell’azienda intesa come “res” e esercizio dell’impresa il caso della successione mortis causa a favore di soggetti non imprenditori, l’affitto e l’usufrutto di azienda. In tutti questi casi la proprietà della stessa è sganciata dal suo esercizio, in quanto l’azienda è nella disponibilità del proprietario della “cosa” senza che da parte dello stesso vi sia esercizio dell’attività di impresa.

Ambito oggettivo di applicazione

RAGIONI IN FATTO ED IN DIRITTO


G.G., quale proprietario di un immobile sito in (OMISSIS), conveniva in giudizio dinanzi al Pretore di Scicli M.M.P. deducendo che la stessa, proprietaria di un immobile confinante, aveva realizzato una scala esterna a più rampe in violazione delle distanze legali previste dal codice civile e dalle norme urbanistiche locali, esercitando in tal modo anche un’illegittima servitù di veduta.

Chiedeva pertanto che fosse condannata all’immediata riduzione in pristino.


Riassunta la causa dinanzi al Tribunale di Modica, il giudice adito ordinava la demolizione della scala in quanto illegittima, e tale sentenza era poi confermata dalla Corte d’Appello di Catania.


La Corte di Cassazione con la sentenza n. 23628/2006 rigettava il ricorso della M. evidenziando che la parte aveva impugnato solo una delle due rationes decidendi che sorreggevano la sentenza gravata, mentre, quanto alla dedotta violazione del litisconsorzio necessario, per non essere stato evocato in giudizio anche R.G., altro comproprietario della scala, riteneva che la censura era del pari inammissibile in quanto implicava accertamenti in fatto preclusi in sede di legittimità.


A questo punto il G. e Ca.Gi. intraprendevano un nuovo giudizio dinanzi al Tribunale di Modica, convenendo in causa R.G. al fine di ottenere anche nei suoi confronti l’ordine di riduzione in pristino.


Mentre il Tribunale di Modica accoglieva la domanda attorea, disattendendo la riconvenzionale di usucapione proposta dal R., la Corte d’Appello di Catania con la sentenza n. 490 del 7 gennaio 2014 accoglieva la domanda riconvenzionale di usucapione, disattendendo pertanto la domanda attorea.


Allegati

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