Radicatosi il contraddittorio (anche con la chiamata in causa, a fini di maniera della Rai S.p.A., della Ballandi Entertainment S.p.A., società produttrice del programma (omissis)), l’adito Tribunale di Roma, con sentenza dell’ottobre 2005, rigettava le domande attoree, nonchè quella di risarcimento danni ex art. 96 cod. proc. civ. proposta dal (omissis), condannando l’attore al pagamento delle spese del grado.
2. – Avverso tale decisione l’on. (omissis) proponeva gravame, che la Corte di appello di Roma, nel contraddittorio delle stesse parti del primo giudizio, rigettava con sentenza resa pubblica il 18 ottobre 2010.
2.1. – La Corte territoriale, quanto al primo motivo di appello (che censurava l’erronea divaricazione delle posizioni del conduttore della trasmissione televisiva e del giornalista intervistato, da considerare invece “in maniera sinergica” e in adesione alle direttive del (omissis), direttore di RAI-2, che aveva manifestato l’intenzione di ostacolare l’on. (omissis) nella campagna elettorale del 2001), osservava che il (omissis) aveva condotto l’intervista del (omissis) in perfetta sintonia con la natura delle trasmissione, denominata, appunto, (omissis), caratterizzata dall’intento di porre all’attenzione del telespettatore alcuni momenti della vita sociale e politica italiana, sottolineandone le contraddizioni e gli aspetti a volte anche negativi. In tale contesto, il (omissis) aveva fatto ricorso agli strumenti tipici della “satira” … da lui normalmente utilizzati, ponendo domande al (omissis), autore del libro (omissis), “inserendo battute di commento, salaci e sarcastiche, ma prive di valenza offensiva”, siccome “perfettamente percepibili come notazioni comiche, tutte attinenti alla sfera dell’attività pubblica ed imprenditoriale dell’attore, senza alcun riferimento ad aspetti personali ed intimi della sua vita privata e senza accostamenti o allusioni pesantemente volgari o ripugnanti”.
2.2. – Quanto, poi, agli ulteriori motivi di gravame, la Corte romana, prendendo in esame le posizioni degli altri convenuti, escludeva che il (omissis) avesse “inteso accusare in modo subdolo l’on. (omissis) di biechi interessi privati, di illeciti societari e di collusione con la mafia”, avendo, invece, voluto “stigmatizzare, sicuramente con toni forti, sarcastici e sdegnati”, il comportamento del candidato alla Presidenza del Consiglio dei ministri, che “non aveva ritenuto necessario chiarire nelle opportune sedi … alcune vicende della sua attività imprenditoriale oggetto di indagini penali”.
Inoltre, il giudice di appello escludeva che il giornalista avesse “riferito fatti e circostanze non vere ed omesso di far conoscere al telespettatore l’esito, favorevole all’on. (omissis), di alcune attività di indagine svolte nei suoi confronti”.
2.2.1. – Ciò, anzitutto, in relazione alla vicenda della c.d. “perizia (omissis)”, non avendo il (omissis) “mai parlato di un’indagine” (sui finanziamenti pervenuti “alle holdings che componevano la Fininvest negli anni 70 ed 80”) “svolta sul punto da un organo imparziale quale è la Banca d’Italia”, chiarendo che la perizia era stata “ordinata da un organo giudiziario inquirente, anche se la redazione della stessa era stata affidata ad un esperto che era anche un dirigente della Banca d’Italia”, il quale non era stato in grado “di accertare la provenienza di tali finanziamenti, anche perchè alcune società erano risultate del tutto inesistenti”; circostanza che un “uomo pubblico” avrebbe dovuto spiegare “ai suoi elettori”.
2.2.2. – Quanto, poi, al profilo diffamatorio relativo “alle dichiarazioni fatte dal (omissis) in merito” al “presunto pentito (omissis)”, il giudice di secondo grado osservava che il giornalista si era limitato a riferire … il contenuto di atti giudiziari e cioè le dichiarazioni rese dal (omissis) alle Procure di Caltanissetta e di Palermo in qualità di “persona informata sui fatti” nell’ambito delle indagini sui mandanti a volto coperto delle stragi del 1992 e del 1993, quali circostanze, peraltro, già note, poichè pubblicate in un articolo del quotidiano (omissis).
2.2.3. – Ed ancora, il giudice di secondo grado ribadiva la natura non diffamatoria della “soppressione” della richiesta di archiviazione della Procura di Caltanissetta, inserita nel libro sopra citato, ma “assente nella trasmissione”, in cui il (omissis) aveva richiamato soltanto la requisitoria del P.M. (omissis), del 26 gennaio 1999, nel processo di appello per la strage di Capaci, la quale accennava ad altra indagine presso la Procura di Caltanissetta “riguardante i mandanti a volto coperto delle due stragi, riferendo le parole di alcuni collaboratori di giustizia” sul fatto che (omissis), prima di mettere a punto queste stragi, “aveva incontrato alcune persone importanti, come le chiamava lui”, da identificarsi, secondo gli stessi pentiti, “con (omissis) e (omissis)”.
A tal riguardo, la Corte di appello rilevava che l’intervista trasmessa il 14 marzo 2001 era precedente al decreto di archiviazione delle indagini attivate dalla Procura di Caltanissetta, emesso il 3 maggio 2002 a seguito di richiesta presentata il 2 marzo 2001.
Peraltro, l’omesso riferimento alla richiesta di archiviazione non aveva “violato il principio della continenza espositiva della notizia”, giacchè detta richiesta non era equiparabile al provvedimento di archiviazione del G.I.P. “allorchè si convince della fondatezza della richiesta medesima”. E, infine, lo stesso (omissis), riferendosi alla requisitoria anzidetta, aveva correttamente precisato che si trattava di un “semplice spunto di indagine”, aggiungendo: “non è una sentenza, ci mancherebbe altro”.
2.2.4. – Quanto poi alla asserita “distorsione, effettuata dal (omissis), dell’intervista fatta dal giudice (omissis) il 21 maggio 1992″ (in merito alle indagini della Procura di Palermo “sui rapporti tra (omissis), (omissis) e (omissis)” e su un’intercettazione del 1981 tra gli ultimi due “a proposito di un cavallo” e da riferirsi, invece, “a partite di droga”), la Corte territoriale escludeva che il giornalista avesse “affermato che il giudice (omissis) stesse svolgendo indagini a carico dell’on. (omissis)”, là dove le sue dichiarazioni nel corso della trasmissione del 14 marzo 2001 trovavano pieno riscontro nel testo dell’intervista rilasciata dal giudice (omissis), pubblicato dal settimanale (omissis). Nè poteva sostenersi che il telespettatore potesse essere indotto a ritenere, sulla base delle parole del (omissis), che esistesse una connessione tra le stragi di Capaci e di via D’Amelio e le indagini su (omissis), essendosi il giornalista limitato a far presente che la bobina relativa all’intervista resa dal giudice (omissis) era stata acquisita agli atti della Procura di Caltanissetta che indagava su tali stragi e che sarebbe stato molto interessante sapere di che cosa si stesse occupando la magistratura palermitana “nel momento in cui saltavano in aria i suoi due maggiori esponenti”.
2.2.5. – Infine, il giudice di appello ribadiva la valenza non diffamatoria delle dichiarazioni del (omissis) in relazione “ai presunti benefici della Legge Tremonti” (attinenti al fatto che “Mediaset”, in forza della citata legge, aveva ottenuto agevolazioni fiscali per oltre L. 200 miliardi), da ricondursi, invece, nell’alveo del diritto di critica politica garantito dall’art. 21 Cost., avendo egli “posto l’accento, in modo vivace, ma pur sempre pertinente all’interesse dell’opinione pubblica alla conoscenza dell’interpretazione da lui fornita del dato fattuale, sul problema del conflitto di interessi”, concernente “l’opportunità politica di adottare una legge del genere di quella innanzi indicata”.
2.3. – In definitiva, concludeva la Corte romana, il (omissis), “nel rispondere alle domande del (omissis)”, non aveva travalicato i limiti dei diritti di cronaca e di critica, avendo esposto, nel rispetto del principio della “continenza”, senza l’utilizzo di espressioni ed argomenti trascendenti in attacchi personali volti a colpire la figura morale del soggetto criticato, fatti di cronaca, documentati e per la maggior parte notori, di sicuro interesse pubblico, siccome relativi a personalità di spicco della vita politica italiana.
3. – Per la cassazione di tale sentenza ricorre (omissis), affidando le sorti dell’impugnazione a sei motivi.
Resistono con controricorso (omissis) (in arte (omissis)), (omissis), la Rai-Radiotelevisione Italiana S.p.A. e la Ballandi Entertainmant S.p.A., mentre non ha svolto attività difensiva, neppure in questa sede, l’intimato (omissis).
Il (omissis) ha, altresì, proposto ricorso incidentale.
Il ricorrente, nonchè i controricorrenti (omissis), Rai S.p.A. e Ballandi Entertainment S.p.A. hanno rispettivamente depositato memoria ex art. 378 cod. proc. civ..
Diritto
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. – Preliminarmente, va respinta la richiesta, avanzata dal controricorrente (omissis) (in arte (omissis)), di stralcio dei documenti depositati dal ricorrente unitamente al ricorso per cassazione, giacchè trattasi di documenti già prodotti nel grado di appello, per il quali il deposito nel presente giudizio di legittimità è consentito ai sensi dell’art. 372 cod. proc. civ. Quanto, poi, al rilievo che si tratterebbe di documentazione “irritualmente prodotta in Appello dall’odierno ricorrente”, esso avrebbe dovuto costituire l’oggetto puntuale di uno specifico motivo di ricorso, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, ritualmente confezionato; il che non è.
2. – Con il primo mezzo del ricorso principale è denunciata, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione degli artt. 2043, 2055 e 2059 cod. civ., artt. 51, 185 e 595 cod. pen. e della L. n. 47 del 1948, art. 12 nonchè dedotto, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, vizio di motivazione su fatto decisivo e controverso, “rappresentato dalla natura e meno satirica delle dichiarazioni resa da (omissis)”.
La Corte territoriale avrebbe erroneamente applicato in favore del (omissis) l’esimente del diritto di satira, avendo questi concretamente “operato quale intervistatore-complice del giornalista invitato ((omissis))” e, seppure aveva espresso “battute ed altri lazzi”, l’oggetto del giudizio “erano (come da trascrizione delle frasi stesse) non le sue notazioni comiche ma quelle attraverso le quali aveva attuato l’intervista”, dando “spazio” e “supporto” al giornalista. Sicchè, nella specie, le dichiarazioni del (omissis) avrebbero dovuto essere valutate alla luce del canone del diritto di cronaca o di critica, i limiti dei quali erano stati “ampiamente superati”.
Inoltre, la decisione anzidetta sarebbe “sostanzialmente immotivata”, avendo correlato il diritto di satira non già al “contenuto concreto delle parole, ma sul carattere della trasmissione”, la cui matrice (quand’anche) satirica “non avrebbe però escluso il valore non satirico, non comico della concreta parte di programma oggetto di valutazione”. Peraltro, la sentenza impugnata sarebbe del tutto carente circa “l’esposizione delle ragioni per le quali nel concreto, nelle singole affermazioni pronunciate da (omissis) dovrebbe scorgersi una satira”.
Invero, soggiunge il ricorrente, la valutazione della Corte territoriale avrebbe dovuto essere condotta “con il metro” dei diritti di cronaca e di critica, con la conseguenza che il (omissis) era compartecipe delle dichiarazioni diffamatorie del (omissis), ponendo domande capziose e mirate ad ottenere una risposta già nota, introducendo argomenti col fine di attirare l’attenzione del pubblico e creare il contesto per una credibilità di quel che (omissis) avrebbe detto poco dopo, invocando elementi ad hoc sempre per rendere “vere” quelle che erano invece falsità. Avrebbe, altresì, dovuto far escludere l’esistenza del diritto di satira – e far propendere per lo scopo politico della trasmissione – il fatto che il direttore di RAI-2, (omissis), “aveva confessato … di aver attuato con la puntata di (omissis) una manovra elettorale studiata a tavolino, diretta ad ostacolare il dottor (omissis) nella campagna elettorale dell’epoca” e che tali dichiarazioni erano state confermate dal medesimo (omissis).
2.1. – Il motivo non può trovare accoglimento.
a) Esso è inammissibile quanto alla denunciata violazione e falsa applicazione di legge ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 giacchè – ancor prima di confrontarsi con i contenuti della giurisprudenza di questa Corte nella materia implicata (secondo il paradigma di cui all’art. 360-bis cod. proc. civ.) – non veicola affatto un error in iudicando, neppure sotto il profilo del vizio di sussunzione, limitandosi a postulare in astratto la violazione di una serie di disposizioni, rispetto alla quale manca di argomentare, nell’ottica della specifica indicazione delle affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata che motivatamente si assumano in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie (tra le tante, Cass., 26 giugno 2013, n. 16038).
Invero, la denuncia dell’errore in diritto si compendia nel rilievo che al L. non avrebbe dovuto applicarsi l’esimente del diritto di satira, bensì quella dei diritti di cronaca e critica, avendo egli “operato quale intervistatore-complice del giornalista invitato”, essendo irrilevanti al riguardo “le sue notazioni comiche”. Sennonchè, trattasi di deduzione correlata ad una ricostruzione del fatto divergente da quella fornita dal giudice del merito (cfr. par. 2.1. del “Ritenuto in fatto” che precede), che ha ricondotto il comportamento del conduttore del programma televisivo nell’alveo della satira, dei cui “strumenti tipici” si è avvalso nel dirigere l’intervista. Dunque, oltre a non porsi alcuna effettiva questione sull’interpretazione delle norme che si assumono implicate e regolatrici del caso concreto, anche il profilo della loro applicazione alla fattispecie materiale è estraneo alla doglianza così come prospettata, non venendo criticata la valutazione del giudice del merito nel porre in relazione la fattispecie legale rettamente interpretata con quella concreta, così come ricostruita dal medesimo giudice (cfr., tra le altre, Cass., sez. un., 18 novembre 2010, n. 23287; Cass., 28 novembre 2007, n. 24756; Cass., 26 settembre 2005, n. 18782), bensì collocando la denuncia sul diverso piano dell’erroneità della ricognizione, ad opera sempre del giudice di merito, della fattispecie concreta tramite le risultanze di causa.
Il che, piuttosto, viene a configurarsi come censura consentanea al paradigma legale di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, al quale, del resto, nell’ipotesi di azione risarcitoria conseguente a condotta diffamatoria, possono, in via più generale, essere ricondotte, se congruamente confezionate, tutte quelle doglianze che investono l’apprezzamento in concreto delle espressioni usate come lesive dell’altrui reputazione (quale che sia il mezzo che le abbia veicolate) e delle circostanze atte ad escludere, o meno, la sussistenza dell’esimente dell’esercizio del diritto di cronaca, di critica o di satira, in quanto oggetto di accertamenti in fatto riservati, per l’appunto, al giudice di merito e, dunque, sindacabili in questa sede soltanto se viziati ai sensi del citato art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (cfr. anche Cass., 10 gennaio 2012, n. 30).
b) Proprio sotto il profilo della denuncia di un vizio di motivazione si sviluppa, del resto, la parte più consistente del mezzo.
b.1.) Occorre premettere, in linea più generale, che lo scrutinio di questa Corte in ordine a censure che veicolino vizi riconducibili al n. 5 del richiamato art. 360 è uno scrutinio, nel senso che esso – per conformarsi ai caratteri che l’ordinamento processuale imprime al giudizio di legittimità – non può oltrepassare determinati limiti, posti a presidio di una non consentita ingerenza nel “merito” della decisione assunta dal giudice “del fatto” che ha emesso la sentenza impugnata. E’ in quest’ottica, dunque, che la giurisprudenza di questa Corte (tra le tante, Cass., 21 agosto 2006, n. 18214; Cass., 26 gennaio 2007, n. 1754; Cass., 16 dicembre 2011, n. 27197; Cass., 14 novembre 2013, n. 25608) ha affermato che la delibazione sulla motivazione, denunciata con ricorso per cassazione, si configura come uno scrutinio sulla logicità del giudizio di fatto e non consente, dunque, un riesame del merito dell’intera vicenda processuale, ma soltanto la facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice del merito. A quest’ultimo spetta, quindi, dare adeguata contezza dell’iter logico-argomentativo seguito per giungere ad una determinata conclusione, ma, a tal fine, al medesimo giudice del merito è riservato in via esclusiva il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere e bilanciare (salvo i casi tassativamente previsti dalla legge), tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad essi sottesi. Sicchè, la revisione del “ragionamento decisorio”, ossia dell’opzione che ha condotto il giudice del merito ad una determinata soluzione della questione esaminata, deborda dai confini della giurisdizione di legittimità e si risolve, invero, in una nuova formulazione del giudizio di fatto, riservato esclusivamente, come detto, allo stesso giudice del merito.
Ne consegue che il preteso vizio della motivazione, sotto il profilo della omissione, insufficienza, contraddittorietà della stessa, può legittimamente dirsi sussistente solo quando, nel ragionamento del giudice di merito, sia rinvenibile traccia evidente del mancato o insufficiente esame di punti decisivi della controversia (a tal fine occorrendo che emerga necessariamente un rapporto di causalità fra la circostanza che si assume trascurata e la soluzione giuridica data alla controversia, tale da far ritenere che quella circostanza, se fosse stata considerata, avrebbe portato ad una diversa soluzione della vertenza, con un giudizio di certezza e non di mera probabilità), ovvero quando esista insanabile contrasto fra le argomentazioni complessivamente adottate, tale da non consentire l’identificazione del procedimento logico-giuridico posto a base della decisione.
b.2.) Scrutinata alla luce dei principi appena ribaditi, la decisione assunta dalla Corte territoriale si sottrae alle censure mosse dal ricorrente, le quali convergono essenzialmente in una critica ab externo del ragionamento decisorio seguito dal giudice del merito, mettendo in risalto non già effettive insufficienze, illogicità o aporie che affliggano intrinsecamente detto ragionamento, ma prospettando un diverso percorso logico argomentativo, sulla scorta di una propria lettura delle emergenze probatorie, che, seppur plausibile, non inficia la plausibilità che, del pari, assiste la alternativa ricostruzione dei fatti operata dal giudice del merito, al quale soltanto – come innanzi detto – spetta tuttavia il compito di conchiudere il “giudizio di fatto”.
Non può, infatti, ritenersi che il giudice di appello si sia limitato a ricondurre la condotta del L. sotto l’alveo del diritto di satira in ragione del mero riferimento alla tipologia della trasmissione e, dunque, al suo, nominalistico, carattere satirico, avendo, invece, considerato (cfr. pp. 11 e 12 della sentenza e la sintesi di cui al par. 2.1. del “Ritenuto in fatto” che precede) anche il “contenuto concreto delle parole” utilizzate, apprezzandole nella loro complessiva portata (posto che non è in discussione che il giudice di appello avesse presente l’intera trascrizione dei contenuti della trasmissione, ai quali si è riportato per ampi stralci e richiamando la decisione di primo grado, la quale, ove confermata, come nella specie, è suscettibile di integrare la motivazione in fatto della sentenza d’appello: Cass., 12 maggio 2006, n. 11039; Cass., 19 marzo 2009, n. 6694) e giungendo alla conclusione, coerente con le premesse in fatto, che esse, unitamente agli atteggiamenti (“espressioni mimiche e linguistiche di natura burlesca”) assunti dal medesimo (omissis), erano manifestazione di satira (della quale non è affatto contestato il travalicamento dai relativi limiti).
Non può, quindi, ravvisarsi il denunciato difetto di motivazione, mentre l’apprezzamento sulla portata satirica delle dichiarazioni del conduttore della trasmissione è frutto di un complessivo giudizio sintetico, di stretto merito, che è dato censurare solo nella sua intrinseca e palese contraddittorietà tra le premesse in fatto e le conclusioni raggiunte, ma non già, come nella specie, nella supposta mancanza di una giustificazione analitica, in base al tenore di espressioni decontestualizzate e come tali dalla neutra valenza significativa.
Quanto, poi, alla doglianza che attiene al mancato esame degli elementi di fatto (dichiarazioni del direttore di RAI-2 e dello stesso L.) che comproverebbero come la trasmissione avesse “scopo non satirico ma politico”, essa non risulta, in ogni caso, dotata della necessaria decisività, posto che l’uno scopo, di per sè, non esclude l’altro, potendo convergere entrambi a definire l’ambito della “satira politica”, quale è quello considerato, per l’appunto, dalla Corte territoriale, là dove si è posto in risalto che la trasmissione (omissis) (al cui orientamento si è accertato essersi conformata la condotta del L. nel corso della trasmissione del (omissis)) era “caratterizzata dall’intento di porre all’attenzione del telespettatore alcuni momenti della vita sociale e politica italiana, sottolineandone le contraddizioni e gli aspetti a volte anche negativi”.
3. – Con il secondo mezzo è prospettata, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione degli artt. 2043, 2055 e 2059 cod. civ., artt. 51, 185, 595 cod. pen., della L. n. 47 del 1948, art. 12 e art. 21 Cost., nonchè dedotto, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, vizio di motivazione su fatto decisivo e controverso, “rappresentato dall’estensione dei limiti della critica e della cronaca, e dalla necessità di esaminare complessivamente le dichiarazioni”.
La Corte territoriale avrebbe errato nel ritenere rispettati i limiti dei diritti di cronaca e di critica, giacchè avrebbe utilizzato un parametro di valutazione “esageratamente elastico” e tale da non considerare, alla stregua della consolidata giurisprudenza di legittimità (tra le tante, Cass. n. 11259 del 2007), che “ai fini delle predette esimenti è necessario non solo che sia rispettato il requisito della verità ma anche che siano evitate forme espositive insinuanti, capziose, decettive e dirette come tali a presentare falsità”.
Quanto alla c.d. “perizia (omissis)”, il giudice di appello non avrebbe considerato che la qualifica di “tecnico della Banca d’Italia” era stata “esaltata e reiterata al fine di far credere ai telespettatori che si fosse in presenza di un’indagine super partes”, mentre non era stato specificato che “la perizia stessa era dichiaratamente provvisoria”.
Quanto alla “pretesa genesi di Forza Italia ed alla falsità riferite dal presunto pentito (omissis)”, la Corte romana aveva mancato di valutare che l’intervista aveva posto l’attività del dottor (omissis) in uno scenario contraddistinto da due addendi, artificialmente inseriti e nei quali era insito un sapiente suggerimento di illiceità:
da un lato una pretesa “pioggia” di miliardi di fonte presentata come Imperscrutabile e illecita; dall’altro il patrocinio di (omissis), ossia di colui che – in conseguenza di un pernicioso circolo mediatico – era allora, nell’immaginario collettivo, divenuto il politico-delinquente per eccellenza”. Peraltro, il giudice di appello non aveva adeguatamente considerato che le presunte rivelazioni del (omissis) erano state accompagnate dal fittizio riferimento al “(omissis)” che “si aggirava per le sue aziende (sic) dicendo se non andiamo in politica ci accuseranno di essere mafiosi”, altresì distorte dalla mancata menzione alla richiesta di archiviazione della Procura di Caltanissetta, dopo aver dato ampio risalto alla requisitoria del p.m. (omissis), e dall’evocazione dell’attentato a (omissis) “contrario” all’attività politica.
Quanto, ancora, alla richiamata intervista del dott. (omissis), che aveva escluso “l’esistenza di coinvolgimenti del dr. (omissis)”, la Corte territoriale non aveva considerato che tale ultimo elemento “era stato soppresso in modo tale che l’esito finale era quello di prospettare invece l’esistenza di indagini, messe poi in collegamento con la morte dei due magistrati ((omissis) e (omissis))”.
Quanto, infine, al riferimento alla legge “Tremonti” ed ai vantaggi conseguiti dalle società “facenti capo alla famiglia dell’On. (omissis)”, il giudice del gravame non aveva tenuto conto che “erano stati soppressi numerosi elementi e spostate date”, posto che “l’applicabilità delle agevolazioni previste dalla c.d. Legge Tremonti a Mediaset S.p.A. era stata sancita non dal governo presieduto dall’attuale ricorrente all’epoca, ma dalla cd. Legge Visco e da una circolare interpretativa del 20 marzo 2000 sempre a firma V., mentre una sentenza n. 373/12/99 della Commissione Tributaria di Milano … aveva ritenuto corretto l’operato della Mediaset S.p.A.”.
Le indicate “omissioni, interposizioni, distorsioni di fatti e falsità totali … avrebbero dovuto indurre la Corte d’Appello a ritenere in alcun modo rispettati sia il requisito della verità sostanziale, sia quello della forma civile dell’esposizione” e cosi escludere la sussistenza delle invocate esimenti.
Peraltro, la Corte territoriale avrebbe errato nell’esaminare la trasmissione televisiva per singole parti e “compartimenti stagni, senza cogliere le connessioni tra le sue parti che essa invece imponeva”, avendo cosi “ritenuto sufficiente per applicare il diritto di cronaca la conformità al vero di alcuni nuclei essenziali di quanto riferito da (omissis) col concorso di (omissis)”. Ove, invece, il giudice di secondo grado avesse connesso le varie parti della trasmissione, avrebbe colto: che il suggerimento della contiguità con il fenomeno mafioso non era ingenuo, “diretto” ed aperto; che la ricostruzione sulle “origini dei redditi dell’On. (omissis)” era stata accompagnata “da espedienti” tali “da inviare allo spettatore un messaggio di natura non cristallina, illecita dei redditi” stessi; che l’indagine della Procura di Caltanissetta era stata accostata alla “evocazione di pretese indagini delle vittime degli attentati (omissis) e (omissis), inesistenti in relazione all’On. (omissis)”, e soprattutto omessa strumentalmente “la fondamentale notizia della richiesta di archiviazione”; che sul tema della c.d. Legge Tremonti era stato soppresso che la vicenda era stata chiarita da una sentenza tributaria e che non c’era “stata alcuna risposta all’interpello di Mediaset da parte del Governo (omissis)”, cosicchè il “messaggio complessivo era quello di un interesse privato, di un lucro in conflitto di interessi, mentre invece la società era stata vittima di errori del fisco”.
3.1. – Il motivo non può trovare accoglimento.
Esso, quanto alla denunciata violazione di legge (che, sinteticamente, si compendia nell’erronea adozione da parte del giudice di merito di un parametro di valutazione “esageratamente elastico” delle esimenti dei diritti di cronaca e critica), non coglie appieno la ratio decidendi della sentenza impugnata e si colloca in un’ottica che ne destruttura la complessiva portata, discostandosi altresì dai principi di diritto che trovano rilievo nella fattispecie ed ai quali la decisione della Corte romana si conforma.
Questa, infatti, si svolge in base ad una considerazione unitaria delle esimenti dei diritti di cronaca e critica, rendendo funzionale l’una all’altra, in una valutazione congiunta e non separata del loro operare nel concreto della vicenda. In altri termini, il dato fattuale della cronaca è il motore per l’esercizio della critica, in un’ottica di compenetrazione tra i due diritti che esalta la funzione democratica della libertà di manifestazione del pensiero, garantita costituzionalmente dall’art. 21 Cost., sebbene nel suo esercizio da bilanciarsi con i diritti, inviolabili, all’onore ed alla reputazione della persona (oggetto di riconoscimento e tutela in forza degli artt. 2 e 3 Cost.).
E’ , dunque, riduttivo, e come tale non pertinente, il riferimento al precedente giurisprudenziale (Cass., 16 maggio 2007, n. 11259) che attiene unicamente alla portata del diritto di cronaca, mentre si attaglia alla fattispecie quell’altro orientamento che, come detto, valorizza la sinergia dell’esercizio di entrambi i diritti nella specie implicati, secondo l’accertamento compiuto dalla Corte di merito.
A tal riguardo questa Corte ha affermato (tra le altre, Cass., 11 gennaio 2005, n. 379/Cass., 6 agosto 2007, n. 17172; Cass., 7 gennaio 2009, n. 25; Cass., 20 giugno 2013, n. 15443) che il diritto di critica, diversamente da quello di cronaca, non si concreta nella narrazione di fatti, ma si esprime in un giudizio, o, più genericamente, in una opinione, che, come tale, non può che essere fondata su un’interpretazione dei fatti e dei comportamenti e quindi non può che essere soggettiva, cioè corrispondere al punto di vista di chi la manifesta, fermo restando che il fatto o comportamento presupposto ed oggetto della critica deve corrispondere a verità, sia pure non assoluta, ma ragionevolmente putativa per le fonti da cui proviene o per altre circostanze oggettive, cosi come accade per il diritto di cronaca. Con la precisazione, sotto quest’ultimo specifico profilo, che là dove si riferiscano opinioni e dichiarazioni di terzi viene meno, per il giornalista, il dovere di verificare la verità putativa dei fatti riferiti (e, finanche, di evitare di riferire espressioni di per sè lesive dell’altrui reputazione) se sussista un interesse dell’opinione pubblica a conoscere, prima ancora dei fatti narrati, la circostanza che un terzo li abbia riferiti (tra le altre, Cass., 24 aprile 2008, n. 10686; Cass., 11 settembre 2014,n. 19152).
Quanto, poi, alla legittimità dell’esercizio del diritto di critica, questo deve essere accompagnato da congrua motivazione del giudizio di disvalore incidente sull’onore o la reputazione ed è condizionato, come quello di cronaca, dal limite della continenza, sia sotto l’aspetto della correttezza formale dell’esposizione, sia sotto quello sostanziale della non eccedenza dei limiti di quanto strettamente necessario per il pubblico interesse. Con l’ulteriore puntualizzazione che, allorquando si tratti di critica politica, questa può contemplare toni aspri e di disapprovazione più pungenti ed incisivi rispetto a quelli comunemente adoperati nei rapporti interpersonali fra privati cittadini (tra le altre, Cass., 23 febbraio 2010, n. 4325).
Tuttavia, ove la narrazione di determinati fatti, per essere esposta insieme ad opinioni dell’autore, rappresenti nel contempo esercizio del diritto di cronaca e di quello di critica (come nella specie), la valutazione di continenza non può essere condotta sulla base degli indicati criteri di natura essenzialmente formale, ma deve lasciare spazio alla interpretazione soggettiva dei fatti esposti, di modo che la critica – che, come detto, mira non già ad informare, ma a fornire giudizi e valutazioni personali – non può ritenersi sempre vietata quando sia idonea ad offendere la reputazione individuale, essendo, invece, decisivo, ai fini del riconoscimento dell’esimente, un bilanciamento dell’interesse individuale alla reputazione con quello alla libera manifestazione del pensiero, costituzionalmente garantita. Un siffatto bilanciamento è ravvisabile nella pertinenza della critica di cui si tratta all’interesse pubblico, cioè all’interesse dell’opinione pubblica alla conoscenza non del fatto oggetto di critica, che è presupposto dalla stessa, e, quindi, fuori di essa, ma di quella interpretazione del fatto.
In quest’ottica si è mossa la sentenza impugnata, escludendo (con valutazione sussumibile nel paradigma del diritto di cronaca: pp. 13/20 della sentenza) che l’intervistato avesse “riferito fatti e circostanze non vere” ed omesso elementi conoscitivi determinanti, calibrando poi la propria attenzione (con valutazione questa volta attinente al diritto di critica: pp. 12/13 e 19/20 della sentenza) sul fatto che i contenuti dell’intervista stessa non fossero orientati ad “accusare in modo subdolo l’on. B. di biechi interessi privati, di illeciti societari e di collusioni con la mafia”, bensì volti a “stigmatizzare, sicuramente con toni forti, sarcastici e sdegnati” la condotta dell’uomo pubblico, al vertice delle Istituzioni, che “non aveva ritenuto necessario chiarire nelle opportune sedi … alcune vicende della sua attività imprenditoriale oggetto di indagini penali”. Il che evidenzia come l’indagine del giudice di merito non abbia affatto trascurato il necessario bilanciamento dell’interesse individuale con quello sotteso alla libera manifestazione del pensiero attraverso la critica politica, effettuato correttamente sotto la lente dell’interesse pubblico alla conoscenza dell’interpretazione di fatti di cronaca (“documentati e per la maggior parte notori”), senza trasmodare “in attacchi personali volti a colpire la figura morale del soggetto criticato”.
Nè alla Corte territoriale può addebitarsi una lettura parcellizzata dell’intervista (sebbene la censura si svolga in termini non proprio pertinenti rispetto alla complessità della vicenda, che, come detto, non può costringersi nell’ambito del solo diritto di cronaca, su cui indugia essenzialmente il ricorrente, ma va apprezzata – quanto alla posizione del (omissis) – secondo il sinergico operare di cronaca e critica del fatto riferito), giacchè la valutazione di ogni singolo segmento dell’intervista è esibita, nella stessa sentenza, in guisa di risposta ai puntuali motivi di gravame, non mancando la stessa Corte d’appello di operare apprezzamenti globali del comportamento tenuto dall’intervistato e, dunque, dei contenuti complessivi dell’intervista, ritenendoli non diffamatori secondo un apprezzamento condotto alla stregua dei principi sopra ricordati.
Per il resto, le doglianze aggrediscono la valutazione in concreto sugli aspetti relativi all’esercizio dei diritti di cronaca e di critica politica (sussistenza, legittimità e rispetto dei limiti ad essi consentanei) e, dunque, investono una valutazione di merito, che rientra nei compiti esclusivi del giudice del merito e che è soggetta al sindacato di questa Corte nei limiti innanzi delineati.
In tale prospettiva, le censure che veicolano i vizi della motivazione – ove effettivamente tali e non ridondanti nelle già esaminate denunce di errores in iudicando (quelle sulla estensione delle esimenti anzidette e sulla considerazione complessiva dell’intervista) – non presentano autonomia rispetto alle doglianze che, sotto il medesimo modello legale (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), investono direttamente i singoli aspetti della vicenda, con la conseguenza che possono essere scrutinate unitamente ai motivi che detti aspetti considerano partitamente.
4. – Con il terzo mezzo è dedotto, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, vizio di insufficiente motivazione sul fatto controverso “rappresentato dalla parte di trasmissione dedicata alla c.d. perizia (omissis)”.
La decisione della Corte territoriale si sorreggerebbe su una motivazione inadeguata, mancando di tenere conto che, nel corso della trasmissione televisiva, “non si era semplicemente data notizia della perizia (omissis)”, ma con le aggiunte e soppressioni (tra cui quella della transazione intervenuta tra il (omissis) e la Fininvest, che lo aveva citato in giudizio per risarcimento danni) e con un “sottile gioco” (“dall’invocazione di minacce, ai riferimenti di natura clamorosa, dall’omissione del testo della perizia dove essa si dichiarava provvisoria, alla descrizione di ordinarie difficoltà documentali come di “alzata di mani”, connessa a minacce ecc..), si era pervenuti non già ad “un resoconto”, nè ad “una legittima critica”, ma ad una strumentalizzazione della perizia per “poter propagandare un messaggio falso : ossia quello per cui dalla stessa sarebbero emerse origini oscure ed illecite dei redditi dell’On. (omissis)”.
4.1. – Il motivo è in parte infondato e in parte inammissibile.
La motivazione della Corte territoriale si sottrae alla doglianza di insufficienza, giacchè, nel delibare, in rapporto alle ragioni di gravame dell’appellante, le dichiarazioni del (omissis) sulla c.d. “perizia (omissis)” (cfr. pp. 13 e 14 della sentenza e sintesi al par. 2.2.1. del “Ritenuto in fatto” che precede), da conto: sia di come esse abbiano ricondotto l’affidamento dell’incarico peritale non già alla Banca d’Italia, ma ad organo giudiziario inquirente, sebbene nella persona di “un dirigente della Banca d’Italia”; sia del fatto che le attività svolte dal perito non fossero da assumersi in guisa di “verità inconfutabili”, essendosi orientata la critica del giornalista intervistato sull’interesse dell’opinione pubblica (degli “elettori”) ad ottenere chiarimenti da parte del politico “uomo pubblico” della provenienza dei finanziamenti pervenuti negli anni 70 ed 😯 alla società Fininvest (al medesimo politico riconducibile).
In un siffatto contesto non è dato ravvisare decisività, in termini di certezza di un esito diverso del convincimento del giudice del merito, nella circostanza costituita della transazione stipulata il 27 luglio 2007 (a distanza di oltre sei anni dalla trasmissione televisiva del marzo 2001) a definizione del giudizio civile di danni intentato dalla Fininvest contro il (omissis) (doc. “d” depositato dal ricorrente), in forza della quale quest’ultimo ha riconosciuto “i limiti delle conclusioni rassegnate nel proprio elaborato” e che le “operazioni del suo esame consulenziale erano tutte ricostruibili e tali da escludere l’apporto di capitali di provenienza esterna al Gruppo Fininvest”. L’atto transattivo, infatti, non muta, in ogni caso, i termini della situazione di fatto esistente (nella sua fenomenologica percepibilità) al momento dell’intervista televisiva del 2001, alla stregua di quanto ricostruito ed apprezzato dalla Corte territoriale.
Nel resto, le critiche del ricorrente si appalesano inammissibili, giacchè volte a fornire una lettura delle risultanze processuali opposta a quella che ha dato il giudice del merito nell’esercizio del relativo potere ad esso esclusivamente riservato, senza che emergano dal ragionamento decisorio aporie ed incongruenze tali da impedire di riconoscere il procedimento logico-giuridico posto a base della decisione.
5. – Con il quarto mezzo è prospettato, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, vizio di illogica e contraddittoria motivazione sul fatto decisivo “rappresentato dalle pretese dichiarazioni del sig. (omissis) e dalla mancata informazione della richiesta di archiviazione formulata da parte della Procura di Caltanissetta”.
La Corte territoriale, nel ritenere che, quanto alle dichiarazioni del (omissis), il (omissis) si era limitato a riferire il contenuto di atti giudiziari, aveva omesso di considerare che le stesse erano state accostate alla dichiarazione del dottor (omissis) sulla discesa in politica, che avevano un significato diverso, cosi da suggerire allo spettatore un convincimento falso:
quello per cui le sciocchezze del “pentito” potessero essere in qualche modo riscontrate da dichiarazioni dello stesso (omissis).
Ciò, peraltro, riguardava anche l'”illecito parallelismo tra attentati della mafia ed azioni di (omissis), creato accostando le dichiarazioni di (omissis) e l’attentato a (omissis) colpevole a dire del citato pentito di essere contrario alla nascita del partito dell’On. (omissis)”.
Il giudice di appello avrebbe, altresì, errato nel motivare sull’irrilevanza dell’omesso riferimento alla richiesta di archiviazione delle indagini attivatesi a seguito delle dichiarazioni del (omissis), sul presupposto che questa non poteva equipararsi al provvedimento di archiviazione emesso dal G.I.P., giacchè “è semmai esattamente vero il contrario, ossia che una cosa è presentare una persona come indagata per gravi reati, un’altra è chiarire che le indagini sono avvenute portando ad un esito positivo per la persona stessa attraverso la richiesta di archiviazione”, di cui lo stesso (omissis) aveva fatto menzione nel libro (omissis).
5.1. – Il motivo non può trovare accoglimento.
Il giudizio di merito operato dalla Corte territoriale (cfr. anche sintesi ai par. 2.2.2. e 2.2.3. del “Ritenuto in fatto” che precede) sfugge alle doglianze del ricorrente, giacchè si fonda, anzitutto, sul rilievo, documentato, che le dichiarazioni del “pentito” (omissis) riferite dal (omissis) – tra cui anche quelle sulle presunte affermazioni del (omissis) in riferimento alla discesa in politica e sulla contrarietà di (omissis) “alla nascita del partito dell’On. (omissis)” – trovavano riscontro nel “contenuto di atti giudiziari”, dai quali erano state tratte, concernendo peraltro “circostanze … notorie”, in quanto fatte oggetto di articolo giornalistico apparso nel (omissis).
Del pari, come accertato sempre dalla Corte di appello, le dichiarazioni del medesimo intervistato sui “mandanti a volto coperto delle due stragi” mutuavano il contenuto dalla requisitoria del p.m. nel processo di appello per la strage di Capaci.
In ordine, poi, alla “soppressione” della notizia concernente la richiesta di archiviazione, presentata il 2 marzo 2001 dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Caltanissetta, dell’inchiesta sul predetti “mandanti”, il giudice del gravame ha ritenuto che tale omissione non violasse la “continenza espositiva della notizia”, giacchè il decreto di archiviazione del G.I.P., che assumeva una valenza ben superiore a quella di “una mera richiesta di archiviazione”, era intervenuto soltanto in epoca successiva alla trasmissione televisiva (omissis), là dove, inoltre, il (omissis) aveva precisato, quanto ai contenuti dell’anzidetta requisitoria, trattarsi solo di uno “spunto di indagine” e non già di “una sentenza”.
Il ragionamento decisorio seguito dal giudice di appello, adeguatamente sorretto dall’esame degli elementi di fatto acquisiti al processo, esibisce, dunque, coordinate logico-giuridiche non implausibili, svolgendosi senza contraddizioni intrinseche, mentre il convincimento della parte ricorrente in ordine al diverso significato da attribuire al materiale probatorio – in cui si risolvono in buona parte le doglianze – non è suscettibile di fondare uno scrutinio di questo giudice della legittimità sulla denunciata motivazione del giudice del merito.
6. – Con il quinto mezzo è dedotto, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, vizio di insufficiente motivazione sul fatto controverso e decisivo “rappresentato dal tenore dell’intervista resa dal dr. (omissis) e dal suo contenuto”.
La Corte territoriale avrebbe fornito una lettura “in contrasto col tenore obiettivo della trasmissione e delle dichiarazioni rese nel suo ambito da (omissis) e (omissis)”, frutto “di omessa valutazione di parte di quanto dedotto dall’On. (omissis)”, nonchè carente nel cogliere “la necessità di un esame complessivo”.
In particolare, non avrebbe considerato che con lo “scoop” relativo al defunto magistrato (omissis) si “era fatto credere che il magistrato defunto avesse inchieste in corso sul dottor (omissis) e che in relazione a tali inchieste era stato organizzato l’attentato (col quale il procuratore era stato assassinato)”, mentre ciò costituiva una “mistificazione”, avendo lo stesso (omissis)”escluso indagini su (omissis)”.
Sicchè, mancava di “qualsiasi giustificazione” l’assunto per cui il (omissis) “mai … avrebbe affermato che il giudice (omissis) stesse svolgendo indagini a carico dell’On. (omissis)”, mentre mancava “un riscontro concreto” (se non il “mero rinvio al testo pubblicato su (omissis)”) in riferimento al testo dell’intervista, giacchè “la trascrizione della trasmissione” confermerebbe “esattamente il contrario”. Peraltro, il giudice di appello non avrebbe, in siffatto contesto, dato peso all’elemento probatorio della “dichiarazione resa all’epoca dal dottor (omissis)” circa un montaggio disinvolto da parte di SAI News e quindi della “fonte” di (omissis). La conclusione alla quale, quindi, era giunta la Corte romana sarebbe “apodittica”, mancando di spiegare perchè “la predetta connessione dovrebbe essere esclusa”, e comunque contraria a razionalità, avendo negato l’esistenza della lesione dell’onore e della reputazione dell’attuale ricorrente pur ammettendo che nel corso della trasmissione televisiva era “stato posto un collegamento tra le indagini contro la mafia condotte dal dott. (omissis) e la presenza in tali indagini di persone presentate nella parte precedente della trasmissione come vicine all’On. (omissis) (il sig. (omissis)) ed addirittura dello stesso odierno ricorrente”.
6.1. – Il motivo non può trovare accoglimento.
La motivazione della Corte di appello (cfr. anche sintesi al par. 2.2.4. del “Ritenuto in. fatto” che precede) trova fondamento, anzitutto, sull’affermazione, mutuata dal primo giudice, che il T. non abbia mai affermato che “il giudice (omissis) stesse svolgendo indagini a carico dell’on. (omissis)” e che ciò trovava pieno riscontro nel testo dell’intervista rilasciata dal giudice (omissis), pubblicato dal settimanale (omissis), in atti versato. Si tratta, nella sua portata oggettiva (il (omissis) non ha affermato …; quanto affermato dal (omissis) trova “pieno riscontro” e, dunque, corrisponde “in pieno”…) , di un accertamento di fatto fondato su documenti presenti in atti (trascrizione dell’intervista del (omissis) ed articolo apparso sul settimanale (omissis), depositati anche in questa sede dal ricorrente), rispetto ai quali l’errore sulla percezione del loro contenuto fenomenico, in quanto rappresentazione esteriore di un testo, avrebbe dovuto essere, semmai, denunciato tramite lo strumento della revocazione ex art. 395 c.p.c., comma 1, n. 4.
La censura, tuttavia, appare piuttosto orientata a porre in rilievo l’inadeguatezza e l’illogicità della comprensione dei testi da parte del giudice di merito e, come tale, deve essere scrutinata in questa sede.
A tal riguardo, però, la Corte territoriale ha compiutamente palesato le coordinate del proprio ragionamento, escludendo che potessero ingenerarsi, nello spettatore, convincimenti circa una “connessione tra le stragi di Capaci e via D’Amelio e le indagini su (omissis)”, essendosi il (omissis) limitato a mettere in rilievo la circostanza dell’acquisizione della bobina sull’intervista al procuratore (omissis) da parte della Procura di Caltanissetta, che “indagava su tali stragi”, a chiedersi quale fosse, nel frattempo, l’attività della “magistratura palermitana” e, quindi, “con atteggiamento di aperta, ma legittima critica politica”, a dichiarare di aver rivolto un invito all'”on. (omissis) perchè partecipasse ad una discussione in merito all’intervista innanzi indicata”, invito, però, declinato.
In assenza di intrinseche contraddizioni od illogicità di siffatto argomentare, che, palesando anche quale fosse l’interesse pubblico alla notizia ed all’interpretazione dei fatti ad essa relativi, non deborda dai confini entro i quali sono evocabili le esimenti del diritto di cronaca e di quello di critica politica, le doglianze del ricorrente non possono, per il resto, trovare ingresso in questa sede, in quanto surrettiziamente volte a sostituire con quello della stessa parte l’apprezzamento dei fatti e delle prove che spetta soltanto al giudice del merito.
7. – Con il sesto mezzo è prospettato, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, vizio di insufficiente e omessa motivazione sul fatto controverso e decisivo “rappresentato dalla vicenda Mediaset e Legge Tremonti”.
La Corte territoriale avrebbe assunto una decisione apodittica, mancando di considerare la censura mossa dall’appellante circa la falsità dei dati a fondamento della notizia (su cui in ricorso ci si sofferma da p. 73 a p. 77) e, quindi, errando nel valutare l’esistenza del diritto di critica sul “conflitto di interessi” e su “un lucro diretto da parte dell’On. (omissis)”, cosi accreditato dal (omissis) che aveva presentato l’On. (omissis) come soggetto che aveva “guadagnato” 250 miliardi.
7.1. – Il motivo non può trovare accoglimento.
Le censure non colgono nel segno, giacchè la prospettiva da cui muovono è strabica rispetto alla decisione assunta dal giudice del merito (cfr. anche sintesi al par. 2.2.5. del “Ritenuto in fatto” che precede).
Essa, infatti, si incentra non già sui presunti favori fiscali alla società Mediaset come immediatamente riconducibili alla c.d. “Legge Tremonti” (che anzi esclude essere l’oggetto delle dichiarazioni del (omissis)), bensi sul problema del c.d. “conflitto di interessi”, derivante dal fatto dell’emanazione di detta legge da parte del “Governo (omissis)” e “in considerazione dei suoi rilevantissimi interessi”, che poneva – a substrato dell’interesse dell’opinione pubblica a conoscere della critica del fatto in sè – l’interrogativo sulla “opportunità politica di adottare una legge del genere”.
In tale prospettiva, non è dato apprezzare il dedotto difetto di motivazione che viene ascritto alla decisione impugnata, in quanto gli elementi fattuali che sarebbero stati ignorati (come detto: quelli indicati nel corpo del motivo) non assumono carattere di decisività, in termini di certezza di un diverso esito del convincimento del giudice del merito, essendo orientati a dimostrare che la società Mediaset non era stata destinataria di alcuna “agevolazione” (ed anzi “era stata vittima di un errore dell’amministrazione finanziaria”) e che, pertanto, “l’On. (omissis) … nella doppia veste di Presidente del Consiglio e di proprietario di Mediaset” non aveva mai conseguito un “lucro”. Si tratta, dunque, di un contesto che si pone ai margini del criticato “conflitto di interesse”, siccome incentrato – come dalla stessa Corte territoriale ritenuto – su ben diversi termini, dal precipuo connotato “politico”, della vicenda, calibrati su due poli, l’uno attinente alla legge in tema di “agevolazioni fiscali alle imprese” emanata dal “Governo (omissis)” e l’altro concernente la proprietà dell’impresa “Mediaset” in capo allo stesso Presidente del Consiglio dei ministri.
8. – Il ricorso incidentale di (omissis) è inammissibile.
Esso, invero, è stato solo preannunciato in relazione al capo della sentenza di appello riguardante la compensazione delle spese processuali del grado (a p. 10 del rispettivo atto di parte), il quale capo, però, non è stato, poi, fatto oggetto di effettiva censura ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, non risultando alcuna prospettazione che dia corpo e sostanza alla annunciata denuncia.
9. – Va, dunque, rigettato il ricorso principale di (omissis) e dichiarato inammissibile quello incidentale di (omissis).
10. – Deve, altresì, essere respinta la domanda ex art. 96 cod. proc. civ. proposta in questa sede da (omissis) non sussistendo il presupposto della temerarietà della lite, nè essendo stata fornita prova sul danno consequenzialmente patito.
11. – Il ricorrente principale va condannato al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, come liquidate in dispositivo, in favore della RAI S.p.A., nei cui confronti è totalmente soccombente.
Devono essere interamente compensate le medesime spese tra il ricorrente principale e (omissis), (omissis), nonchè la Ballandi Entertaiment S.p.A.: quanto al (omissis) e il (omissis) in ragione della reciproca soccombenza; quanto alla Ballandi S.p.A. per esser stata quest’ultima originariamente chiamata in causa dalla RAI e non investita sostanzialmente dalla presente impugnazione principale.
Nulla è da disporsi in punto di regolamentazione delle spese del presente giudizio di legittimità nei confronti dell’intimato (omissis), che non ha svolto attività difensiva in questa sede.
condanna il ricorrente principale al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità in favore della RAI Radiotelevisione Italiana. S.p.A., che liquida in complessivi Euro 10.200,00, di cui di cui Euro 200,00, per esborsi, oltre spese generali ed accessori di legge;
compensa interamente le spese del presente giudizio di legittimità tra il ricorrente principale e (omissis), (omissis), nonchè la Ballandi Entertaiment S.p.A..
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza civile della Corte suprema di Cassazione, il 7 novembre 2014.
Depositato in Cancelleria il 20 gennaio 2015
