1.1. Nel costituirsi, il convenuto contestò integralmente l’avversa pretesa, a suo dire sfornita, peraltro, della minima dimostrazione quanto alla sussistenza di un qualsiasi suo rapporto con (omissis). Formulò, inoltre, domanda riconvenzionale volta ad ottenere la condanna della controparte al risarcimento dei danni arrecatigli, per l’impatto negativo sulla sua quotidianità e nei rapporti con la sua famiglia, dalla condotta complessivamente tenuta dall’attrice.
1.2. Espletata l’istruttoria, nel corso della quale l'(omissis) rifiutò di sottoporsi al disposto test del DNA, l’adito tribunale, con sentenza del 21-29 maggio 2019, n. 1177, accolse la domanda di (omissis) e rigettò la riconvenzionale dell'(omissis), condannandolo al pagamento delle spese di lite.
2. Il gravame da lui promosso contro questa decisione fu respinto dalla Corte d’appello di Venezia, con sentenza del 9/17 novembre 2021, n. 2875, resa nel contraddittorio con l’originaria attrice.
2.1. Per quanto qui ancora di interesse, quella corte: i) disattese la doglianza dell’appellante secondo cui (omissis) non aveva dimostrato, con l’atto introduttivo del giudizio, di non possedere lo stato di figlia (legittima o legittimata) di un uomo diverso dal convenuto. Secondo la corte lagunare, “logicamente, prima che giuridicamente, è inconcepibile che una parte debba fornire la prova negativa di un fatto: come poteva la donna fornire la prova di non essere figlia legittima di altro uomo ? (…) correttamente il tribunale ha ritenuto che tra la legge messicana, quale legge nazionale dell’attrice (e della di lei madre), e la legge italiana, quale legge nazionale del convenuto, quella più favorevole sia la legge italiana, la quale non limita la proponibilità dell’azione alla preliminare verifica della sua giustificatezza e offre ampie possibilità di accertamento”; ii) respinse la critica dell'(omissis) all’avere il tribunale considerato ammissibile la testimonianza della madre dell’appellata; iii) osservò che “neppure si contesta che “…l’attrice sia nata in data (omissis) e che (omissis) si sia recato in (omissis) in occasione dei (omissis), notoriamente svoltisi nel corso del mese di giugno”, quindi vi è totale compatibilità delle date”; iv) chiarì che “la prova orale è stata valutata dal primo giudice non da sola, ma in relazione al rifiuto che l’appellante ha opposto al test ematico”, altresì richiamando la pronuncia resa da Cass. n. 14458 del 2018 nella parte in cui aveva ritenuto “manifestamente infondata la questione di legittimità costtuzionale – per violazione della Cost., artt. 13, 15, 24, 30 e 32 – del combinato disposto degli artt. 269 c.c. e 116 e 118 c.p.c., ove interpretato nel senso della possibilità di dedurre argomenti di prova dal rifiuto del preteso padre di sottoporsi a prelievi ematici al fine dell’espletamento dell’esame del DNA”; v) rigettò i motivi di impugnazione riguardanti, rispettivamente, la mancata ammissione delle istanze istruttorie dell’ (omissis) relative alle modalità con cui la notizia della presunta paternità era stata portata a conoscenza sua e dei suoi familiari, e la domanda risarcitoria da lui formulata, in via riconvenzionale, innanzi al tribunale e ribadita in quella sede. Opinò, in proposito, che il primo di essi fosse “superato dalla prova positiva della paternità raggiunta aliunde, come meglio sopra specificato”, mente, quanto al secondo, non ravvisò “alcuna ragione per imputare a (omissis), neppure sotto il profilo della culpa in eligendo, conseguenze ritenute dannose strettamente dipendenti dal comportamento autonomo posto in essere da terzi”, vale a dire dagli investigatori da lei incaricati per rintracciare, in Italia, l’appellante.
3. Per la cassazione dell’appena descritta sentenza ha proposto ricorso (omissis), affidandosi a sette motivi, illustrati anche da memoria ex art. 380-bis.1 c.p.c.. Ha resistito, con controricorso, (omissis).
Diritto
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. I formulati motivi del ricorso denunciano, rispettivamente:
I) “Nullità della sentenza per violazione della legge processuale civile: art. 70, comma 1, n. 3, c.p.c. e art. 158 c.p.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4”, perché, nel caso di specie, non risulta che, radicato il giudizio di gravame, il Procuratore Generale presso la corte lagunare sia stato notiziato della pendenza del procedimento, malgrado la controversia rientrasse tra quelle di cui all’art. 70, comma 1, n. 3, c.p.c. per la quali è previsto, a pena di nullità rilevabile di ufficio, l’intervento obbligatorio del Pubblico Ministero;
II) “Violazione dell’art. 112 c.p.c. e dell’art. 132, comma 2, n. 4., c.p.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 e, nel contempo, violazione degli artt. 269 e 253 c.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3”. Si ascrive alla corte distrettuale di avere omesso di pronunciare – cosi come, del resto, fatto dal tribunale – sulla effettiva eccezione proposta, fin dal primo grado, dall’odierno ricorrente, secondo cui era onere dell’attrice (non assolto con l’atto introduttivo del giudizio) dimostrare di non possedere lo stato di figlia (legittima o legittimata) di un uomo diverso dal convenuto. Si deduce che, con il corrispondente motivo di appello, “non si era fatta valere una difesa rivolta alla legge applicabile” (pacificamente quella italiana), “quanto un’eccezione di inammissibilità della domanda per la mancanza di una condizione dell’azione. La Corte d’appello, da una parte, ha affrontato questioni in materia di “prova” (dimenticando (…) che esistono le prove documentali “positive”: quel certificato poi dimesso dalla donna) e, dall’altra parte, si è “adagiata” sulla motivazione del tribunale”, che aveva ritenuto la legge italiana (quale legge nazionale del convenuto) più favorevole, rispetto a quella messicana (legge nazionale dell’attrice), perché “non limita la proponibilità dell’azione alla preliminare verifica della sua giustificatezza e offre ampie possibilità di accertamento”. In ogni caso, ove pure si volesse ritenere sufficiente, in parte qua, la motivazione della sentenza impugnata, la stessa sarebbe comunque erronea. Invero, posta la pacifica applicazione della legge italiana, condizione dell’azione di accertamento della paternità è che quest’ultima non sia in contrasto con lo status del soggetto richiedente. Infatti, l’art. 269 c.c. consente la dichiarazione giudiziale di paternità solo nei casi in cui sia ammesso ii riconoscimento ed il precedente art. 253 lo vieta quando sia in contrasto con lo stato “in cui la persona si trova”. Stato che è suscettibile di prova a mezzo di certificati anagrafici;
III) “Violazione, sotto altro aspetto, degli artt. 112 e 132, comma 2, n. 4, c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, e violazione e/o falsa applicazione dell’art. 269, comma 4, c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3”. Si imputa alla corte territoriale di avere erroneamente individuato il contenuto del secondo motivo di gravame e, di conseguenza, avere omesso di pronunciare: i) sull’effettiva eccezione svolta dall'(omissis) (fin dal primo grado) di ammissibilità, o meno, della testimonianza della madre dell’attrice alla luce di quanto disposto dall’art. 269, comma 4, c.c., “che vieta di considerare prova in senso tecnico le dichiarazioni anche processuali della madre”; ii) sull’ulteriore eccezione circa il fatto che, in giudizio, non era stata provata in alcun modo la vera identità di quest’ultima;
IV) “Violazione, sotto altro profilo, degli artt. 112 e 132, comma 2, n. 4, c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4”. Viene censurata la motivazione, definita “meramente apparente se non addirittura inesistente”, fornita dalla corte distrettuale (“neppure si contesta che “l’attrice sia nata in data (omissis) e che (omissis) si sia recato in (omissis) in occasione dei (omissis), notoriamente svoltisi nel corso del mese di (omissis)”, quindi vi è totale compatibilità delle date”) per respingere l’ivi formulato terzo motivo di appello;
V) “Violazione degli artt. 269 e 2729 c.c. e degli artt. 115 e ss. c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, e, sotto altro profilo, violazione dell’art. 132, comma 2, n. 4, c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4”. Viene contestata la motivazione adottata dalla medesima corte per respingere l’ivi proposto quinto motivo di appello, con cui si era lamentato che il tribunale aveva “accolto la domanda attrice sulla base, da un lato, di prove testimoniali nulle e, comunque, inconferenti, e, dall’altro, sul suo rifiuto a sottoporsi ad indagini ematologiche. Dando, dunque, il giudice di prime cure a questa circostanza indiziaria la forza di prova piena richiamandosi all’orientamento giurisprudenziale di Codesta Corte che, peraltro, pur confermando detto valore indiziario, ha enunciato il principio in fattispecie storiche nelle quali altri indizi andavano a corroborare la valenza negativa del rifiuto perché molteplici, gravi, precisi e concordanti”. La corte d’appello, in particolare, senza che l'(omissis) avesse mai sollevato questioni di costuzionalità, si era limitata a richiamare, “in modo pedissequo ed inconferente”, la parte della pronuncia resa da Cass. n. 14458-2018 che aveva ritenuto “manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale – per violazione della Cost., artt. 13, 15, 24, 30 e 32 – del combinato disposto degli artt. 269 c.c. e 116 e 118 c.p.c., ove interpretato nel senso della possibilità di dedurre argomenti di prova dal rifiuto del preteso padre di sottoporsi a prelievi ematici al fine dell’espletamento dell’esame del DNA”. Essa, dunque, “senza alcuna effettiva valutazione della censura e senza rinnovare l’apprezzamento di fatto (come richiesto), si è limitata ad un ipse dixit con il richiamo di una giurisprudenza inconferente”;
VI) “Violazione, sotto altro profilo, degli artt. 112 e 132, comma 2, n. 4, c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, e violazione dell’art. 2043 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3”, contestandosi la motivazione, asseritamente “inesistente e, comunque, illogica”, con cui la corte lagunare aveva rigettato la doglianza con cui l’appellante aveva lamentato la mancata ammissione, da parte del tribunale, delle prove testimoniali articolate dal convenuto e volte a dimostrare i presupposti storici legittimanti la sua domanda riconvenzionale di risarcimento dei danni derivatigli dalle modalità con le quali l’attrice aveva reso edotti della pretesa paternità, ancor prima di lui, il figlio e la moglie. La censura aveva riguardato anche l’intero accertamento del fatto compiuto, sul punto, dal giudice di prime cure, cosi devolvendo alla corte la cognizione dell’intera domanda risarcitoria proposta. Il giudice a quo, invece, da una parte, aveva completamente pretermesso un vero esame di quanto oggetto della sua cognizione e, dall’altra, aveva reso una pronuncia del tutto slegata dall’oggetto della domanda;
VII) “Violazione, sotto ulteriore profilo, dell’art. 132, comma 2, n. 4, c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4”. Si sostiene che la corte territoriale, dopo aver ritenuto “infondato” il motivo di gravame riguardante la domanda risarcitoria dell'(omissis), “non ha data alcuna effettiva motivazione del rigetto, limitandosi ad affermare (a pag. 11) che non si ravvisa: “alcuna ragione per imputare a (omissis), neppur sotto il profilo della culpa in eligendo, conseguenze ritenute dannose strettamente dipendenti dal comportamento autonomo posto in essere da terzi””. Si afferma, dunque, che, “Alla totale mancanza di una effettiva motivazione, si aggiunge l’illogicità di quella apparentemente data perché la culpa in eligendo ha come presupposto fattuale che gli operatori siano altri da chi ha dato l’incarico”.
2. Il primo dei descritti motivi è infondato.
2.1. Invero, l’accesso al fascicolo di ufficio, consentito a questa Corte in ragione della tipologia di vizio (error in procedendo) denunciato, permette agevolmente di accertare che, diversamente da quanto affermato dal ricorrente, la Procura Generale presso la Corte di appello di Venezia era stata certamente resa edotta del gravame intrapreso dal primo contro la sentenza del Tribunale di Treviso del 21/25 settembre 2019, n. 1177, come dimostra il fatto che un rappresentante di quell’ufficio aveva depositato nel corrispondente fascicolo n. r.g. 2181-2019 un proprio parere. Ne’ possono avere seguito, in questa sede, le doglianze formulate dall'(omissis), nella sua memoria ex art. 380-bis.1 c.p.c., quanto alla genericità di detto parere (“lo stesso ha un contenuto totalmente anonimo in quanto non porta alcun numero di ruolo e non fa riferimento ad alcun procedimento. In altre parole potrebbe riferirsi a qualsivoglia contenzioso”).
2.2. Resta solo da ricordare, quindi, che, come chiarito dalla giurisprudenza di legittimità, in tema d’intervento obbligatorio del P.M., la formulazione delle sue conclusioni, ove pure avvenuta tardivamente, fuori udienza e senza che le parti abbiano potute conoscerle, non determina la violazione del contraddittorio, atteso che, ai fini della validità del procedimento, non è necessaria la presenza alle udienze, né la formulazione delle conclusioni, da parte di un rappresentante di tale ufficio, che deve semplicemente essere informato, mediante l’invio degli atti (cfr. art. 71 c.p.c.), e posto in condizione di sviluppare l’attività ritenuta opportuna (cfr. Cass. n. 32313 del 2022, resa proprio in una fattispecie di dichiarazione giudiziale di paternità). Ne’ spetta a questa Corte qualsivoglia sindacato sul parere suddetto.
3. Ritiene, poi, il Collegio di dovere anteporre allo scrutinio delle altre descritte doglianze alcune considerazioni generali riguardanti: i) le tipologie di vizi (motivazione omessa o apparente o illogica o perplessa o contraddittoria; violazione e/o falsa applicazione di legge) ivi concretamente prospettati; ii) le caratteristiche della prova presuntiva. Tanto al fine di poter procedere, successivamente, ad una più celere decisione della lite.
3.1. Giova premettere, allora, quanto ai denunciati vizi motivazionali, che la nuova formulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, introdotta dal D.L. n. 83 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla L. n. 134 del 2012 (qui applicabile ratione temporis, risultando impugnata una sentenza resa il 17 novembre 2021), ha ormai ridotto al “minimo costituzionale” il sindacato di legittimità sulla motivazione, sicché si è chiarito (cfr. tra le più recenti, anche nelle rispettive motivazioni, Cass. n. 7978 del 2023; Cass. n. 4784 del 2023; Cass. n. 956 del 2023; Cass. n. 33961 del 2022; Cass. n. 27501 del 2022; Cass. n. 26199 del 2021; Cass. n. 395 del 2021; Cass. n. 9017 del 2018) che è oggi denunciabile in Cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali; questa anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione (cfr. Cass., SU, n. 8053 del 2014; Cass. n. 7472 del 2017. Nello stesso senso anche le più recenti; Cass. n. 20042 del 2020 e Cass. n. 23620 del 2020; Cass. n. 395 del 2021, Cass. n. 1522 del 2021 e Cass. n. 26199 del 2021; Cass. n. 27501 del 2022; Cass. n. 33961 del 2022) o di sua “contraddittorietà” (cfr. Cass. n. 7090 del 2022; Cass. n. 33961 del 2022).
3.1.1. In particolare, il vizio di omessa o apparente motivazione della decisione sussiste qualora il giudice di merito ometta di indicare gli elementi da cui ha tratto il proprio convincimento ovvero li indichi senza un’approfondita loro disamina logica e giuridica, rendendo, in tal modo, impossibile ogni controllo sull’esattezza e sulla logicità del suo ragionamento (cfr. Cass. n. 7978 del 2023; Cass. n. 4784 del 2023; Cass. n. 33961 del 2022; Cass. n. 27501 del 2022; Cass. n. 26199 del 2021; Cass. n. 1522 del 2021; Cass. n. 395 del 2021; Cass. n. 23684 del 2020; Cass. n. 20042 del 2020; Cass. n. 9105 del 2017; Cass. n. 9113 del 2012). Ne deriva che è possibile ravvisare una “motivazione apparente” nel caso in cui le argomentazioni del giudice di merito siano del tutto inidonee a rivelare le ragioni della decisione e non consentano l’identificazione dell’iter logico seguito per giungere alla conclusione fatta propria nel dispositivo risolvendosi in espressioni assolutamente generiche, tali da non permettere di comprendere la ratio decidendi seguita dal giudice. Un simile vizio, inoltre, deve apprezzarsi non rispetto alla correttezza della soluzione adottata o alla sufficienza della motivazione offerta, bensì unicamente sotto il profilo dell’esistenza di una motivazione effettiva (cfr. Cass. n. 7978 del 2023; Cass. n. 4784 del 2023; Cass. n. 33961 del 2022; Cass. n. 27501 del 2022; Cass. n. 395 del 2021; Cass. n. 26893 del 2020; Cass. n. 22598 del 2018; Cass. n. 23940 del 2017).
3.1.2. E’ noto, poi, che giusta principio consolidato nella giurisprudenza di legittimità, per la conformità della sentenza al modello di cui all’art. 132, comma 1, n. 4, c.p.c., non è indispensabile che la motivazione prenda in esame tutte le argomentazioni svolte dalle parti al fine di condividerle o confutarle, essendo necessario e sufficiente, invece, che il giudice abbia comunque indicato le ragioni del proprio convincimento in modo tale da rendere evidente che tutte le argomentazioni logicamente incompatibili con esse siano state implicitamente rigettate (cfr., anche nelle rispettive motivazioni, Cass. n. 7978 del 2023; Cass. n. 4784 del 2023; Cass. n. 956 del 2023; Cass. n. 33961 del 2022; Cass. n. 29860 del 2022; Cass. n. 3126 del 2021; Cass. n. 25509 del 2014; Cass. n. 5586 del 2011; Cass. n. 17145 del 2006; Cass. n. 12121 del 2004; Cass. n. 1374 del 2002; Cass. n. 13359 del 1999).
3.2. Quanto, poi, al vizio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 (specificamente invocato dal ricorrente in relazione ai motivi secondo, terzo, quinto e sesto), esso può rivestire la forma della violazione di legge (intesa come errata negazione o affermazione dell’esistenza o inesistenza di una norma, ovvero attribuzione alla stessa di un significato inappropriato) e della falsa applicazione di norme di diritto (intesa come sussunzione della fattispecie concreta in una disposizione non pertinente perché, ove propriamente individuata ed interpretata, riferita ad altro, ovvero deduzione da una norma di conseguenze giuridiche che, in relazione alla fattispecie concreta, contraddicono la sua, pur corretta, interpretazione. Cfr. Cass. n. 7993 del 2023; Cass. n. 4784 del 2023; Cass. n. 1015 del 2023; Cass. n. 5490 del 2022; Cass. n. 3246 del 2022; Cass. n. 596 del 2022; Cass. n. 40495 del 2021; Cass. n. 28462 del 2021; Cass. n. 25343 del 2021; Cass. n. 4226 del 2021; Cass. n. 395 del 2021; Cass. n. 27909 del 2020; Cass. n. 4343 del 2020; Cass. n. 27686 del 2018). E’ opportuno rimarcare, inoltre, che questa Corte, ancora recentemente (cfr., pure nelle rispettive motivazioni, oltre alle pronunce appena citate, Cass. n. 35041 del 2022, Cass. n. 33961 del 2022 e Cass. n. 13408 del 2022), ha chiarito, tra l’altro, che: a) non integra violazione, né falsa applicazione di norme di diritto, la denuncia di una erronea ricognizione della fattispecie concreta in funzione delle risultanze di causa, poiché essa si colloca al di fuori dell’ambito interpretative ed applicativo della norma di legge; b) il discrimine tra violazione di legge in senso proprio (per erronea ricognizione dell’astratta fattispecie normativa) ed erronea applicazione della legge (in ragione della carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta) è segnato dal fatto che solo quest’ultima censura, diversamente dalla prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa (cfr. Cass. n. 10313 del 2006; Cass. n. 195 del 2016; Cass. n. 26110 del 2015; Cass. n. 8315 del 2013; Cass. n. 16698 del 2010; Cass. n. 7394 del 2010); c) le doglianze attinenti non già all’erronea ricognizione della fattispecie astratta recata dalle norme di legge, bensì all’erronea ricognizione della fattispecie concreta alla luce delle risultanze di causa, ineriscono tipicamente alla valutazione del giudice di merito (cfr. Cass. n. 13238 del 2017; Cass. n. 26110 del 2015).
3.2.1. A tanto deve aggiungersi che – come chiarito, ancora recentemente da Cass. n. 7813 del 2023 (cfr. in motivazione) – un’autonoma questione di malgoverno degli artt. 115 e 116 c.p.c. può porsi, rispettivamente, solo allorché il ricorrente alleghi che il giudice di merito: 1) abbia posto a base della decisione prove non dedotte dalle parti ovvero disposte d’ufficio al di fuori o al di là dei limiti in cui ciò è consentito dalla legge (cfr. Cass., SU, n. 20867 del 2020, che ha pure precisato che “e’ inammissibile la diversa doglianza che egli, nel valutare le prove proposte dalle parti, abbia attribuito maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, essendo tale attività valutativa consentita dall’art. 116 c.p.c.”); 2) abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova che invece siano soggetti a valutazione (cfr. Cass., SU, n. 20867 del 2020, che ha pure puntualizzato che, “ove si deduca che il giudice ha solamente male esercitato il proprio prudente apprezzamento della prova, la censura è ammissibile, ai sensi del novellato art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, solo nei rigorosi limiti in cui esso ancora consente il sindacato di legittimità sui vizi di motivazione”; Cass. n. 27000 del 2016).
3.3. Con riguardo, invece, alle caratteristiche della prova presuntiva (la cui violazione è sostanzialmente dedotta con il quinto motivo), è utile ricordare che essa si configura come mezzo per la cognizione mediata ed indiretta di fatti controversi, costituendo, pertanto, un mezzo di prova critica in relazione al quale è rimessa al prudente apprezzamento del giudice la formulazione dell’inferenza dal fatto noto a quello ignoto. Più specificamente, affinché si possa conseguire la prova del fatto ignoto, l’art. 2729 c.c. richiede che gli elementi presuntivi siano gravi, precisi e concordanti, venendo meno, in caso contrario, la garanzia di ragionevole certezza circa la verità del fatto stesso. Tali requisiti rappresentano i presupposti per il valido impiego del ragionamento inferenziale, dovendosi escludere che, in loro assenza, le presunzioni stesse possano fornire al giudice la piena prova del fatto ignoto. La loro definizione esatta, peraltro, non è agevole, né univoca in dottrina. E’ sufficiente rimarcare, in questa sede (in sostanziale conformità a quanto recentemente sancito da Cass. n. 4784 del 2023 e Cass. n. 9054 del 2022), che: i) il requisito della gravità implica la necessità di un elevato grado di attendibilità della presunzione in relazione al convincimento che essa è in grado di produrre in capo al giudice; ciò non significa comunque che l’affermazione dell’esistenza del fatto ignorato debba desumersi dal fatto noto con assoluta certezza, essendo sufficiente un grado di probabilità superiore a quello che spetta all’opposta tesi della sua inesistenza. Tanto, del resto, è coerente con la struttura del ragionamento presuntivo e con la natura delle massime d’esperienza su cui esso si fonda: salvo i casi eccezionali in cui esse corrispondano a leggi naturali o scientifiche, le massime di esperienza non sono, infatti, di regola idonee a conferire certezza assoluta alla conoscenza del fatto ignorato, esprimendo, per lo più, una connessione meramente probabile fra questo ed il fatto noto; ii) il requisito della precisione evoca, a sua volta, un concetto di non equivocità, valendo ad escludere la validità del ragionamento presuntivo ove da esso derivino conclusioni contraddittorie e non univocamente riferibili al fatto da provare. In altri termini, la precisione va riferita al fatto noto (indizio) che costituisce il punto di partenza dell’inferenza e postula che esso non sia vago ma ben determinato nella sua realtà storica. In linea con quanto detto circa il requisito della gravità, la conseguenza circa l’esistenza del factum probandum non deve necessariamente configurarsi come l’unica possibile, essendo sufficiente che essa sia la più probabile tra quelle che possono derivare dal fatto noto; iii) più complessa e problematica e’, infine, la definizione del concetto di concordanza: col richiedere la sussistenza di tale requisito, infatti, la norma sembra riferirsi alla necessaria convergenza sulla medesima conclusione di una pluralità di presunzioni semplici. Tuttavia, in dottrina e soprattutto nella giurisprudenza, è invece prevalsa una interpretazione “debole” della norma che conduce ad ammettere la validità dell’inferenza deduttiva anche quando essa si fondi su una sola presunzione, purché essa si configuri come grave e precisa (cfr., ex aliis, Cass. n. 4784 del 2023; Cass. n. 9054 del 2022; Cass. n. 2482 del 2019; Cass. n. 19088 del 2007; Cass. n. 16993 del 2007; Cass. n. 4472 del 2003).
3.3.1. In quest’ottica, come condivisibilmente puntualizzato da Cass. n. 9054 del 2022, “la deduzione del vizio di violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2729, comma 1, c.c., suppone allora un’attività argomentativa che si deve estrinsecare nella puntuale indicazione, enunciazione e spiegazione che il ragionamento presuntivo compiuto dal giudice di merito – assunto, però, come tale e, quindi, in facto per come è stato enunciato – risulti irrispettoso del paradigma della gravità, o di quello della precisione o di quello della concordanza. Di contro, la critica al ragionamento presuntivo svolto dal giudice di merito sfugge al concetto di falsa applicazione quando si concreta, invece, o in un’attività diretta ad evidenziare soltanto che le circostanze fattuali, in relazione alle quali il ragionamento presuntivo è stato enunciato dal giudice di merito, avrebbero dovuto essere ricostruite in altro modo (sicché il giudice di merito è partito in definitiva da un presupposto fattuale erroneo nell’applicare il ragionamento presuntivo), o nella mera prospettazione di una inferenza probabilistica semplicemente diversa da quella che si dice applicata dal giudice di merito, senza spiegare e dimostrare perché quella da costui applicata abbia esorbitato dai paradigmi dell’art. 2729, comma 1 (e ciò tanto se questa prospettazione sia basata sulle stesse circostanze fattuali su cui si è basato il giudice di merito, quanto se basata altresì su altre circostanze fattuali). In questi casi, la critica si risolve in realtà in un diverso apprezzamento della ricostruzione della quaestio facti, e, in definitiva, nella prospettazione di una diversa ricostruzione della stessa quaestio e ci si pone su un terreno che non è quello del n. 3 dell’art. 360 c.p.c. (falsa applicazione dell’art. 2729, comma 1, c.c.), ma è quello che sollecita un controllo sulla motivazione del giudice relativa alla ricostruzione della quaestio facti. Terreno che, come le Sezioni Unite (Cass., Sez. Un., nn. 8053 e 8054 del 2014) hanno avuto modo di precisare, vigente il nuovo n. 5 dell’art. 360 c.p.c., è percorribile solo qualora si denunci che il giudice di merito abbia omesso l’esame di un fatto principale o secondario, che avrebbe avuto carattere decisivo per una diversa individuazione del modo di essere della detta quaestio ai fini della decisione, occorrendo, peraltro, che tale fatto venga indicato in modo chiaro e non potendo esso individuarsi solo nell’omessa valutazione di una risultanza istruttoria”.
3.3.2. In definitiva, come si legge in Cass. n. 3845 del 2018 (cfr. pag. 29 e ss.), “Le presunzioni semplici consistono, (…), nel ragionamento del giudice il quale, una volta acquisita, tramite fonti materiali di prova (o anche tramite il notorio o a seguito della non contestazione) conoscenza di un fatto secondario, deduce da esso l’esistenza del fatto principale ignoto. L’apprezzamento del giudice di merito circa il ricorso a tale mezzo di prova e la valutazione della ricorrenza dei requisiti di precisione, gravità e concordanza richiesti dalla legge per valorizzare elementi di fatto come fonti di produzione, sono incensurabili in sede di legittimità, l’unico sindacato in proposito riservato al giudice di legittimità essendo quello sulla coerenza della relativa motivazione (Cass. n. 2431/2004). Allorquando la prova addotta sia costituita da presunzioni, le quali anche da sole possono formare il convincimento del giudice del merito, rientra, infatti, nei compiti di quest’ultimo il giudizio circa l’idoneità degli elementi presuntivi a consentire inferenze che ne discendano secondo il criterio dell’id quod prelumque accidit, essendo il relativo apprezzamento sottratto al controllo in sede di legittimità, se sorretto da motivazione immune da vizi logici o giuridici e, in particolare, ispirato al principio secondo il quale i requisiti della gravità, della precisione e della concordanza, richiesti dalla legge, devono essere ricavati in relazione al complesso degli indizi, soggetti ad una valutazione globale, e non con riferimento singolare a ciascuno di questi (Cass. n. 12002/2017). Si aggiunga, poi, che, al fine di controllare la validità del ragionamento presuntivo, per un verso, non è necessario che tutti gli elementi noti siano convergenti verso un unico risultato, in quanto il giudice deve svolgere una valutazione globale degli indizi, alla luce del complessivo contesto sostanziale e processuale (Cass. n. 26022/2011), e che, per altro verso, in tale tipo di prova, non occorre che tra il fatto noto e quello ignoto sussista un legame di assoluta ed esclusiva necessità causale, ma è sufficiente che il fatto da provare sia desumibile dal fatto noto come conseguenza ragionevolmente possibile, secondo un criterio di normalità: occorre, al riguardo, che il rapporto di dipendenza logica tra il fatto noto e quello ignoto sia accertato alla stregua di canoni di probabilità, con riferimento ad una connessione possibile e verosimile di accadimenti, la cui sequenza e ricorrenza possono verificarsi secondo regole di esperienza (Cass. n. 22656/2011)”. In altri termini, dunque, in tema di prova per presunzioni, spetta al giudice di merito non solo la valutazione dell’opportunità di fare ricorso alla stessa, ma anche l’individuazione dei fatti da porre a fondamento del relativo processo logico e l’accertamento della rispondenza degli stessi ai prescritti requisiti di gravità, precisione e concordanza: il relativo apprezzamento costituisce un giudizio di fatto, censurabile in sede di legittimità esclusivamente per vizio di motivazione, la cui denuncia non può risolversi, peraltro, nella mera prospettazione di un convincimento diverso da quello espresso nel provvedimento impugnato, ma deve far emergere l’assoluta illogicità e contraddittorietà del ragionamento decisorio, restando peraltro escluso che la sola mancata valutazione di un elemento indiziario possa dare luogo al vizio di omesso esame di un punto decisivo (cfr. Cass. n. 4784 del 2023; Cass. n. 27070 del 2022; Cass. n. 20421 del 2022, la quale ha confermato che “gli indizi concorrenti devono essere valutati nel loro insieme, purché abbiano i requisiti della gravità, dell’univocità e della concordanza e non è necessario procedere alla valutazione complessiva degli elementi indiziari dedotti dalle parti che il giudice ritenga del tutto insussistenti, privi di significato probatorio o ambigui”; Cass. n. 5279 del 2020; Cass. n. 1234 del 2019; Cass. n. 1715 del 2007). Inoltre, come già riferitosi (si vedano, tra l’altro, sul punto, anche Cass. n. 7380 del 2018 e Cass. n. 27457 del 2019), gli elementi assunti a fonte di presunzione non debbono essere necessariamente plurimi – benché l’art. 2729, comma 1, c.c. si esprima al plurale – potendosi il convincimento del giudice fondare anche su un elemento unico, preciso e grave, la valutazione della cui rilevanza, peraltro, nell’ambito del processo logico applicato in concreto, non è sindacabile in sede di legittimità ove sorretta da motivazione adeguata e logicamente non contraddittoria (cfr. Cass. n. 4784 del 2023; Cass. n. 27457 del 2019; Cass. 15 gennaio 2014 n. 656; Cass. 29 luglio 2009, n. 17574), e dovendo il requisito della “concordanza” ritenersi menzionato dalla legge solo in previsione di un eventuale ma non necessario concorso di più elementi presuntivi (cfr. l’appena citata Cass. 17574 del 2009, nonché, la più recente Cass. n. 27457 del 2019).
4. Fermo tutto quanto precede, il secondo motivo di ricorso si rivela complessivamente insuscettibile di accoglimento alla stregua delle dirimenti considerazioni di cui appresso.
4.1. Giova ricordare che, come si è già riferito nel p. 2.1. dei “Fatti di causa”, la corte di appello, nello scrutinare il primo motivo di gravame ivi formulato dall’ (omissis), dopo aver affermato che quest’ultimo “sostiene che “aveva eccepito come fosse onere (non assolto con l’atto introduttivo del giudizio) dell’attrice dimostrare di non possedere lo stato di figlia (legittima o legittimata) di un uomo diverso dal convenuto stesso”, ciò perché la legge italiana esclude che possa effettuarsi un riconoscimento o una dichiarazione di filiazione in contrasto con lo stato di figlio legittimo o legittimato”, ha ritenuto che “logicamente, prima che giuridicamente, è inconcepibile che una parte debba fornire la prova negativa di un fatto: come poteva la donna fornire la prova di non essere figlia legittima di altro uomo ? (…)”, ribadendo, poi, l’applicabilità, nella specie, della legge italiana (cioè quella nazionale del convenuto) perché più favorevole rispetto a quella messicana (vale a dire di quella nazionale dell’attrice).
4.1.1. Orbene, indipendentemente dalla sua correttezza giuridica, o meno, tale assunto risulta di per sé sufficiente ai fini dell’esclusione del vizio di omessa pronuncia, per la cui configurabilità è necessario che manchi completamente il provvedimento indispensabile per la soluzione del caso concreto, cioè che il giudice abbia omesso di statuire su alcuni capi della domanda, autonomamente apprezzabili, o sulle eccezioni proposte, oppure abbia pronunciato soltanto nei confronti di alcune parti, non assumendo alcuna rilevanza, al riguardo, il mancato o insufficiente esame delle argomentazioni dalle stesse svolte, il quale integra un vizio di natura diversa, incidente sulla motivazione del provvedimento, che non esclude la sussistenza del momento decisorio (cfr. Cass. n. 19493 del 2021; Cass. n. 5730 del 2020; Cass. n. 3388 del 2005. In senso sostanzialmente analogo si vedano anche le più recenti Cass. n. 2612 del 2022 e Cass. n. 128 del 2023, rese in fattispecie analoghe a quella odierna).
4.2. Va rilevato, poi, che, essendo rimasta incontroversa l’applicabilità, alla odierna fattispecie, della legge italiana, vengono in rilievo, allora: i) l’art. 269 c.c. (rubricato “Dichiarazione giudiziale di paternità e maternità”), il quale prevede, al comma 1 (nel testo, qui applicabile ratione temporis, modificato dal D.Lgs. n. 28 dicembre 2013, n. 154), che “La paternità e la maternità possono essere giudizialmente dichiarate nei casi in cui il riconoscimento è ammesso”; ii) l’art. 253 c.c. (rubricato “Inammissibilità del riconoscimento”), il quale sancisce (nel testo, qui applicabile ratione temporis, modificato dal D.Lgs. n. 28 dicembre 2013, n. 154) che “In nessun caso è ammesso un riconoscimento in contrasto con lo stato di figlio in cui la persona si trova”.
si tratta di un divieto tassativo e senza eccezioni che impedisce si dia ingresso a qualunque azione il cui risultato si possa porre in contrasto con quel tale stato della persona. Esso intende impedire una sovrapposizione di stati di filiazione tra loro in contrasto, nel senso che è inammissibile che un soggetto sia investito da un duplice stato di filiazione nei confronti di persone diverse, ovvero contemporaneamente di figlio di genitori individuati e di figlio naturale di un terzo. Detto stato, dunque, deve essere direttamente rimosso, senza azioni strumentali o succedanee, e prima di qualunque altra che ne presupponga uno diverso.
4.2.2. Osserva ancora la Corte che la richiesta di dichiarazione giudiziale della paternità o maternità naturale – venuta meno, ormai, la fase, preliminare e contenziosa, di sua ammissibilità, ex art. 274 c.c. per effetto della sentenza della Corte costituzionale n. 50 del 2006, dichiarativa dell’illegittimità di questo articolo – impone al giudice adito, ancor prima di valutare la fondatezza, o non, della domanda che conduce alla pronuncia sullo stato della persona, di esaminare eventuali questioni preliminari sia di rito che di merito, tra cui i motivi di improponibilità della domanda stessa che possono risolvere immediatamente la lite.
4.3. Posto, allora, che quest’ultima azione non può essere proposta quando sussiste la situazione prevista dall’art. 253 c.c., ne consegue che chi intraprende, come nella specie, l’azione di dichiarazione giudiziale di paternità deve dimostrare, innanzitutto, l’insussistenza di un proprio stato di figlio/a di un padre diverso da colui nei cui confronti chiede la menzionata dichiarazione.
4.3.1. Orbene, trattandosi di requisito di proponibilità della domanda, lo stesso deve sussistere al momento in cui viene intrapresa la relativa azione e la sua dimostrazione deve essere fornita nel rispetto delle preclusioni cd. probatorie o istruttorie previste per il corrispondente giudizio innanzi al tribunale.
4.3.2. Queste preclusioni maturano in relazione all’adempimento dell’onere di indicazione specifica dei mezzi di prova e dei documenti offerti in comunicazione al fine di dimostrare gli elementi costitutivi del diritto o dell’eccezione fatti valere in giudizio. Tali indicazioni sono contemplate come contenuto specifico degli atti introduttivi (nel rito ordinario innanzi al tribunale, applicato nella controversia in esame: art. 163, comma 3, n. 5, c.p.c. per la parte attrice; art. 167, comma 1, c.p.c. per quella convenuto) ma la preclusione si perfeziona solo all’esaurimento della trattazione orale oppure alla scadenza del secondo termine perentorio, di ulteriori trenta giorni, nell’ambito della cd. appendice scritta che è disposta “se richiesto” dalle parti (art. 183, comma 6, n. 2, c.p.c.). Spetta, quindi, alla parte interessata richiedere all’udienza di trattazione l’assegnazione del termine perentorio per l’articolazione dei mezzi istruttori e differire così in avanti la maturazione delle preclusioni probatorie.
4.3.3. In altri termini, le preclusioni istruttorie si delineano in una fase, almeno astrattamente, successiva rispetto a quelle assertive, in quanto la compiuta formulazione delle prove presuppone che sia già delimitato il thema probandum, vale a dire l’ambito dei fatti specifici in contestazione, in ordine ai quali le parti sono chiamate ad assolvere il rispettivo onere della prova (art. 2697 c.c.); si comprende, quindi, la ragione per la quale l’indicazione delle prove possa essere differita – “se richiesto” – fino alla scadenza della seconda memoria ex art. 183, comma 6, n. 2, c.p.c., una volta che le parti abbiano già eventualmente esercitato lo ius variandi, all’udienza di trattazione o nella prima memoria ex art. 183, commi 5 e 6, n. 1, c.p.c., riguardo alle rispettive domande ed eccezioni. Ne’ si riconoscono limiti, nella prassi giurisprudenziale, all’esercizio del potere di indicazione delle prove in una fase successiva a quella introduttiva purché, ovviamente, nel rispetto della barriera costituita dalle preclusioni.
4.3.4. Nella specie, lo stesso (omissis) riferisce (cfr. pag. 15 del suo ricorso) che, a seguito della sua eccezione di inammissibilità dell’avversa domanda stante l’assenza di qualsivoglia produzione, da parte di (omissis), contestualmente alla citazione introduttiva, in merito al suo status, la stessa “aveva poi provveduto (doc. n. 4 di parte avversa dimesso con la prima memoria ex art. 183, comma 6, c.p.c. del 14 ottobre 2016 in primo grado) a dimettere il proprio certificato di nascita dal quale non risulta alcuna paternità)”. L’attrice, odierna controricorrente, dunque, ha pienamente dimostrato, entro il termine sancito di perfezionamento delle preclusioni probatorie innanzi al giudice adito, di non possedere lo stato di figlia di altro uomo, nel rispetto delle prescrizioni di cui agli artt. 253 e 269 c.c..
5. Il terzo, il quarto ed il quinto motivo di ricorso, scrutinabili congiuntamente perché chiaramente connessi, tutti investendo le modalità di accertamento e la successiva declaratoria giudiziale per cui (omissis) è il padre naturale di (omissis), si rivelano complessivamente insuscettibili di accoglimento alla stregua delle dirimenti considerazioni di cui appresso.
5.1. Giova premettere che l’accesso al fascicolo di ufficio, anche in questo caso consentito a questa Corte in ragione della tipologia di vizi (errores in procedendo) denunciati, permette agevolmente di accertare che il giudice di prime cure ebbe a ritenere fondata la domanda di accertamento di paternità proposta dall’attrice valutando le dichiarazioni della madre di quest’ultima e considerando privo di apprezzabile giustificazione il rifiuto del convenuto di sottoporsi all’esame del DNA.
5.1.1. La corte di appello, a sua volta, respingendo il secondo, il terzo ed il quinto motivo di gravame dell'(omissis), ha osservato, in sintesi, che: i) (omissis), madre dell’attrice, aveva riferito “circostanze oggettive personalmente apprese”, precisando “di aver vissuto con il solo (omissis) per cinque giorni a (omissis), epoca in cui non aveva relazioni con altri uomini”; ii) “neppure si contesta che “…l’attrice sia nata in data (omissis) e che (omissis) si sia recato in (omissis) in occasione dei (omissis), notoriamente svoltisi nel corso del mese di (omissis)”, quindi vi è totale compatibilità delle date”; iii) “la prova orale è stata valutata dal primo giudice non da sola, ma in relazione al rifiuto che l’appellante ha opposto al test ematico”; iv) giusta la pronuncia resa da Cass. n. 14458 del 2018, era “manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale – per violazione della Cost., artt. 13, 15, 24, 30 e 32 – del combinato disposto degli artt. 269 c.c. e 116 e 118 c.p.c., ove interpretato nel senso della possibilità di dedurre argomenti di prova dal rifiuto del preteso padre di sottoporsi a prelievi ematici al fine dell’espletamento dell’esame del DNA”.
5.2. Tanto premesso, rileva il Collegio che, come ancora ribadito da Cass. n. 22948 del 2021 (cfr. in motivazione), in ordine al tema della testimonianza della madre, questa Corte (cfr. Cass. 12198 del 2012) ha chiarito che, “in materia di dichiarazione giudiziale della paternità naturale, nell’ipotesi di maggior età di colui che richiede l’accertamento non può configurarsi un interesse principale ad agire della madre naturale ai sensi dell’art. 276, ultimo comma, c.c., non essendo in tale evenienza ravvisabile un obbligo legale di assistenza o mantenimento nei confronti del figlio, potendo peraltro essa svolgere un intervento adesivo dipendente, allorché sia ravvisabile un suo interesse di fatto tutelabile in giudizio. In ogni caso, alla stregua della disciplina normativa della legittimazione ad agire in tale giudizio, contenuta nell’art. 276 c.c., correlata all’interpretazione dell’art. 269, secondo e comma 4, c.c., le dichiarazioni della madre naturale assumono un rilievo probatorio integrativo ex art. 116 c.p.c., quale elemento di fatto di cui non si può omettere l’apprezzamento ai fini della decisione, indipendentemente dalla qualità di parte o dalla formale posizione di terzietà della dichiarante, con la conseguente inapplicabilità dell’art. 246 c.p.c.” (cfr. in senso conforme, Cass. n. 6025 del 2015).
5.2.1. Nella specie, dunque, le dichiarazioni della madre naturale sono state apprezzate dai giudici di entrambi i gradi di merito unitamente alle altre risultanze istruttorie, in primis la mancata sottoposizione dell'(omissis) al test del DNA, ed è sulla base di tale compendio valutativo che, evidentemente, (omissis) è stata poi ritenuta attendibile (ricordandosi, peraltro, che, come sancito da Cass. n. 33536 del 2022, “La valutazione sull’attendibilità di un testimone ha ad oggetto il contenuto della dichiarazione resa e non può essere aprioristica e per categorie di soggetti, al fine di escluderne ex ante la capacità a testimoniare”. Giusta Cass. n. 6001 del 2023, inoltre, “In materia di prova testimoniale, non sussiste alcun principio di necessaria inattendibilità del testimone che abbia vincoli di parentela o coniugali con una delle parti, atteso che, caduto il divieto di testimoniare previsto dall’art. 247 c.p.c. per effetto della sentenza della Corte Cost. n. 248 del 1974, l’attendibilità del teste legato da uno dei predetti vincoli non può essere esclusa aprioristicamente in difetto di ulteriori elementi dai quali il giudice del merito desuma la perdita di credibilità”). In ogni caso, l’incapacità a deporre prevista dall’art. 246 c.p.c. si verifica solo quando il teste è titolare di un interesse personale, attuale e concreto, che lo coinvolga nel rapporto controverso, alla stregua dell’interesse ad agire di cui all’art. 100 c.p.c., tale da legittimarlo a partecipare al giudizio in cui è richiesta la sua testimonianza, con riferimento alla materia in discussione (e, nella specie, tanto è stato escluso dai giudici di merito), non avendo, invece, rilevanza l’interesse di fatto ad un determinato esito del processo, né un interesse, riferito ad azioni ipotetiche, diverse da quelle oggetto della causa in atto, proponibili dal teste medesimo o contro di lui, a meno che il loro collegamento con la materia del contendere non determini già concretamente un titolo di legittimazione alla partecipazione al giudizio (cfr., oltre alla già citata Cass. n. 22948 del 2021; Cass. n. 167 del 2018; Cass. n. 9353 del 2012). Le censure in ordine alle dichiarazioni della madre dell’attrice, sono, di conseguenza, inammissibili, comportando, sostanzialmente, valutazioni ed apprezzamenti di fatto, ivi compresa la sua attendibilità, suffragata da non illogici argomenti, ovvero presunzioni ex art. 2727 c.c.. In parte qua, allora, le doglianze in esame sottendono una valutazione atomistica della suddetta, singola deposizione e non già il necessario esame complessivo delle risultanze probatorie, laddove non è consentito a questa Corte di procedere ad un nuovo esame di merito attraverso una autonoma valutazione delle risultanze degli atti di causa.
5.3. Deve considerarsi, poi, che dall’art. 269 c.c. non deriva una restrizione della libertà personale, avendo il soggetto piena facoltà di determinazione in merito all’assoggettamento, o meno, ai prelievi, mentre il trarre argomenti di prova dai comportamenti della parte costituisce applicazione del principio della libera valutazione della prova da parte del giudice, senza che ne resti pregiudicato il diritto di difesa (cfr., in motivazione, Cass. n. 7092 del 2022). Inoltre, il rifiuto aprioristico della parte di sottoporsi ai prelievi nemmeno può ritenersi giustificato con esigenze di tutela della riservatezza, tenuto conto sia del fatto che l’uso dei dati nell’ambito del giudizio non può che essere rivolto a fini di giustizia, sia del fatto che il sanitario chiamato dal giudice a compiere l’accertamento è tenuto tanto al segreto professionale che al rispetto della L. 31 dicembre 1996, n. 675 (cfr. oltre all’appena menzionata Cass. n. 7092 del 2022, Cass. n. 14458 del 2018 e Cass. n. 5116 del 2003).
5.3.1. La sentenza impugnata, dunque, ha fatto corretta applicazione dell’ormai consolidato orientamento di questa Corte, che il Collegio condivide e intende qui ribadire (cfr., ex aliis, anche nelle rispettive motivazioni, Cass. n. 7092 del 2022; Cass. n. 22498 del 2021; Cass. n. 18627 del 2021; Cass. n. 3479 del 2016; Cass. n. 6025 del 2015; Cass. n. 12971 de 2014; Cass. n. 11223 del 2014), secondo cui il rifiuto ingiustificato di sottoporsi agli esami ematologici costituisce un comportamento valutabile da parte del giudice ai sensi dell’art. 116 c.p.c., finanche in assenza di prove dei rapporti sessuali tra le parti, in quanto è proprio la mancanza di riscontri oggettivi certi e difficilmente acquisibili circa la natura dei rapporti intercorsi e circa l’effettivo concepimento a determinare l’esigenza di desumere argomenti di prova dal comportamento processuale dei soggetti coinvolti. Da qui la possibilità di trarre la dimostrazione della fondatezza della domanda anche soltanto dal rifiuto ingiustificato a sottoporsi all’esame ematologico del presunto padre, posto in opportuna correlazione con le dichiarazioni della madre, essendosi chiarito che, nel giudizio promosso per l’accertamento della paternità naturale, il rifiuto di sottoporsi ad indagini ematologiche costituisce un comportamento valutabile da parte del giudice, ex art. 116, comma 2, c.p.c., di così elevato valore indiziario da poter da solo consentire la dimostrazione della fondatezza della domanda (cfr. Cass. n. 7092 del 2022; Cass. n. 28886 del 2019; Cass. n. 26914 del 2017; Cass. n. 18626 del 2017).
5.4. Le censure in esame si risolvono, invece, sostanzialmente, in una critica al complessivo accertamento fattuale operato dal giudice a quo – con motivazione senz’altro rispettosa del minimo costituzionale richiesto da Cass., SU, n. 8053 del 2014, ed in piena coerenza con i principi tutti di cui si è precedentemente detto quanto al vizio motivazionale, a quello di violazione di legge, anche processuale (artt. 115 e 116 c.p.c.) ed alla valutazione della prova presuntiva – circa la ritenuta paternità dell'(omissis) (né potrebbe sostenersi, fondatamente, che l’argomentare della corte lagunare abbia trascurato alcuni dati dedotti da per la semplice ragione di averli ritenuti, esplicitamente o implicitamente, irrilevanti), cui quest’ultimo intenderebbe opporre, sotto la formale rubrica di vizio di violazione di legge, una diversa valutazione, totalmente dimenticando, però, che: i) il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, non può essere mediato dalla riconsiderazione delle risultanze istruttorie, ma deve essere dedotto, a pena di inammissibilità del motivo giusta la disposizione dell’art. 366, n. 4, c.p.c., non solo con la indicazione delle norme assuntivamente violate, ma anche, e soprattutto, mediante specifiche argomentazioni intelligibili ed esaurienti intese a motivatamente dimostrare in qual modo determinate affermazioni in diritto contenute nella sentenza gravata debbano ritenersi in contrasto con le indicate norme regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità, diversamente impedendosi alla Corte regolatrice di adempiere al suo istituzionale compito di verificare il fondamento della lamentata violazione (cfr. Cass. n. 7993 del 2023; Cass. n. 35041 del 2022); ii) il ricorso per cassazione non rappresenta uno strumento per accedere ad un terzo grado di giudizio nel quale far valere la supposta ingiustizia della sentenza impugnata, spettando esclusivamente al giudice di merito il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di controllarne l’attendibilità e la concludenza e di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad essi sottesi, dando così liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge (cfr. ex multis, anche nelle rispettive motivazioni, Cass. n. 7993 del 2023; Cass. n. 35041 del 2022; Cass., SU, n. 34476 del 2019; Cass. n. 27686 del 2018; Cass., Sez. U, n. 7931 del 2013; Cass. n. 14233 del 2015; Cass. n. 26860 del 2014).
Alteris verbis, il giudizio di legittimità non può essere surrettiziamente trasformato in un nuovo, non consentito, ulteriore grado di merito, nel quale ridiscutere gli esiti istruttori espressi nella decisione impugnata, non condivisi e, per ciò solo, censurati al fine di ottenerne la sostituzione con altri più consoni alle proprie aspettative (cfr. Cass. n. 21381 del 2006, nonché, tra le più recenti, Cass. n. 8758 del 2017, Cass., SU, n. 34476 del 2019 e Cass. n. 32026 del 2021; Cass. n. 40493 del 2021; Cass. n. 1822 del 2022; Cass. n. 2195 del 2022; Cass. n. 3250 del 2002; Cass. n. 5490 del 2022; Cass. n. 9352 del 2022; Cass. 13408 del 2022; Cass. n. 15237 del 2022; Cass. n. 21424 del 2022; Cass. n. 30435 del 2022; Cass. n. 35041 del 2022; Cass. n. 35870 del 2022; Cass. n. 1015 del 2023; Cass. n. 7993 del 2023).
6. Il sesto e settimo motivo di ricorso, infine, pure scrutinabili congiuntamente perché chiaramente connessi, entrambi concernendo il rigetto delle doglianze contro il mancato accoglimento, in primo grado, della domanda risarcitoria formulata, in via riconvenzionale, dall’odierno ricorrente, si rivelano complessivamente fondati nei limiti di cui appresso.
6.1. La corte distrettuale – come si è già anticipato nel p. 2.1. dei “Fatti di causa” – ha respinto le censure formulate dall'(omissis) con il quarto e sesto motivo di appello riguardanti, rispettivamente, la mancata ammissione delle sue istanze istruttorie relative alle modalità con cui la notizia della presunta paternità era stata portata a conoscenza sua e dei suoi familiari, e la domanda risarcitoria da lui formulata, in via riconvenzionale, innanzi al tribunale e ribadita in quella sede. Ha opinato, in proposito, che il primo di tali motivi era “superato dalla prova positiva della paternità raggiunta aliunde, come meglio sopra specificato”, mentre, quanto al secondo, non ha ravvisato “alcuna ragione per imputare a (omissis), neppure sotto il profilo della culpa in eligendo, conseguenze ritenute dannose strettamente dipendenti dal comportamento autonomo posto in essere da terzi”, vale a dire dagli investigatori da lei incaricati per rintracciare, in Italia, l’appellante.
6.2. Ad avviso del Collegio, tuttavia, una siffatta motivazione si rivela meramente apparente, attesa la chiara autonomia esistente tra l’avvenuto accertamento della paternità e le condotte complessivamente tenute, dall’originaria attrice e/o da soggetti (investigatori) da lei incaricati, per portare la notizia di detta (all’epoca ancora) presunta paternità a conoscenza, ancor prima che del convenuto, dei suoi familiari.
6.2.1. Si era al cospetto, cioè, – come l’esame diretto degli atti (consentito a questa Corte dalla tipologia di vizio denunciato) permette di verificare – di una domanda risarcitoria, in ordine alla quale era stata articolata pure una prova testimoniale (i cui capitoli sono agevolmente rinvenibili anche nelle conclusioni riportate nella sentenza oggi impugnata) sulle corrispondenti circostanze fattuali, fondata sul ragionevole presupposto che, per vedere accertata la sua pretesa (fondata, o meno, che fosse), la (omissis) non aveva alcuna necessità di coinvolgere, direttamente lei, anche altri componenti della famiglia (omissis), peraltro ancor prima di rendere edotto di quella pretesa lo stesso (omissis), con le potenziali, intuibili conseguenze che, secondo l’id quod plerumque accidit, ciò avrebbe comportato nei rapporti tra lui ed i suoi familiari.
6.2.2. La corte d’appello, quindi, ha reso, in parte qua, una pronuncia completamente slegata dall’oggetto della domanda, nemmeno procedendo a qualsivoglia effettiva, concreta valutazione circa la configurabilità, o meno, di un’eventuale ingiustizia del pregiudizio lamentato dall’odierno ricorrente per effetto delle menzionate condotte.
7. In conclusione, dunque, l’odierno ricorso di (omissis) deve essere accolto limitatamente ai suoi motivi sesto e settimo, respinti gli altri. La sentenza impugnata, pertanto, va cassata e la causa rinviata alla Corte di appello di Venezia, in diversa composizione, per il corrispondente nuovo esame e per la regolazione delle spese di questo giudizio di legittimità.
7.1. Va, disposta, infine, per l’ipotesi di diffusione del presente provvedimento, l’omissione delle generalità e degli altri dati identificativi a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Prima sezione civile della Corte Suprema di cassazione, il 14 aprile 2023.
Depositato in Cancelleria il 28 aprile 2023
