• Home
  • >
  • Cassazione civile sez. lav., 04/06/2004, n. 10663

Cassazione civile sez. lav., 04/06/2004, n. 10663

Massima

In tema di rilevanza disciplinare dei comportamenti posti in essere dal lavoratore dopo il licenziamento, ove questo sia impugnato e il rapporto ricostituito “iussu iudicis”, si deve distinguere tra gli obblighi scaturenti dal sinallagma contrattuale e i doveri extracontrattuali, derivanti dall’art. 2043 c.c. o da norme penali. Su questi ultimi in nessun caso può influire la cessazione, per qualsiasi causa, del rapporto, perché essi non trovano fonte nel sinallagma contrattuale. Tuttavia anche i primi possono assumere rilevanza, non perché il lavoratore con la propria impugnazione possa ripristinare unilateralmente gli effetti bilaterali del contratto, ma per un suo onere di coerenza con la volontà, espressa con l’impugnazione, di proseguire il rapporto, con effetti “ex tunc”. Al permanere, per tale motivo, degli obblighi del medesimo contratto, si sottraggono solo le attività volte a reperire fonti di sostentamento alternative alla retribuzione di fatto non più percepita; attività che il lavoratore ovviamente esplica nell’ambito della propria professionalità, quindi anche, eventualmente, negoziando o collaborando con imprese operanti in concorrenza con il suo vecchio datore di lavoro.

Supporto alla lettura

LICENZIAMENTO

Il licenziamento è l’atto con cui il datore di lavoro risolve il rapporto di lavoro.
Esistono diverse motivazioni che possono dare origine al licenziamento:

  • giusta causa
  • giustificato motivo soggettivo
  • giustificato motivo oggettivo
  • licenziamento orale (o verbale)
  • licenziamento in maternità o in conseguenza del matrimonio

GIUSTA CAUSA

Comportamento del lavoratore che costituisca grave violazione ai propri obblighi contrattuali, tale da ledere in modo insanabile il necessario rapporto di fiducia tra le parti e che non consente la prosecuzione nemmeno temporanea del rapporto di lavoro (c.c. 2119).

GIUSTIFICATO MOTIVO SOGGETTIVO

È rappresentato da comportamenti disciplinarmente rilevanti del dipendente ma non tali da comportare il licenziamento per giusta causa, e cioè senza preavviso. Rientra ad esempio il licenziamento per motivi disciplinari.

GIUSTIFICATO MOTIVO OGGETTIVO

E’ rappresentato da ragioni inerenti l’organizzazione del lavoro dell’impresa.
Costituisce pertanto G.M.O. la crisi dell’impresa, la cessazione dell’attività e, anche solo, il venir meno delle mansioni cui era in precedenza assegnato il lavoratore, senza che sia possibile il suo “ripescaggio”, ovvero la ricollocazione del medesimo in altre mansioni esistenti in azienda e compatibili con il livello di inquadramento.

La procedura in tutte queste forme di licenziamento per impugnare è bifasica: impugnativa stragiudiziale entro 60 giorni. Impugnativa giudiziale nei successivi 180 giorni dall’impugnativa stragiudiziale.

LICENZIAMENTO VERBALE O ORALE

E’ il caso in cui il lavoratore viene allontanato dal luogo di lavoro senza alcun atto formale da parte del datore di lavoro (lettera – mail) ma a voce. Il licenziamento è nullo.

Ambito oggettivo di applicazione

Svolgimento del processo
Con lettera 17 giugno 1997 la (omissis) s.p.a. ha licenziato il proprio dipendente (omissis) per impossibilità sopravvenuta, sulla base di certificato medico di parte, inviato dallo stesso dipendente, attestante inabilità lavorativa permanente assoluta.

Con sentenza 21 novembre dello stesso anno 1997 il Pretore di Roma ha annullato il licenziamento, sulla base della consulenza medica d’ufficio espletata, che aveva accertato la piena validità del (omissis) a svolgere le sue mansioni di cassiere.

La ctu espletata in tale giudizio, concluso con la sentenza citata, passata in giudicato, aveva espresso forti perplessità sul verbale di visita collegale, redatto dalla Commissione della U.S.L. RM/12 il 15 maggio 1995 con la diagnosi di “diabete mellito insulino-dipendente complicato, epatite cronica attiva”, e sul giudizio di riconoscimento di “handicap grave ai sensi dell’art. 3, comma 3, legge 5 febbraio 1992, n. 104”. Affermava che le affezioni evidenziate nel corso delle operazioni peritali portano ad escludere che ricorrano le condizioni sopra descritte e, considerando il decorso delle stesse infermità, ad affermare che anche nel 1995 non esistessero elementi clinici e medico-legali atti a giustificare un siffatto giudizio.

Su tale base, la banca ha contestato al (omissis) numerosi illeciti disciplinari, ruotanti sulla simulazione di malattia e su copioso epistolario recriminatorio (su cui infra) del (omissis) nei confronti del datore di lavoro e di suoi singoli dirigenti; quindi ha intimato il licenziamento per giusta causa con lettera 13 gennaio 1998. Il licenziamento, ritenuto legittimo dal Pretore, è stato invece dichiarato illegittimo dal Tribunale di Roma con sentenza 11/24 ottobre 2001 n. 34751.

Due i gruppi motivazionali del Tribunale: 1) i comportamenti del dipendente medio tempore tra il licenziamento e la declaratoria giudiziale della sua illegittimità non possono avere rilievo disciplinare, perché successivi alla cessazione del sinallagma contrattuale verificatosi con il recesso; 2.1. le pretese false certificazioni mediche sono anteriori al primo licenziamento, e pertanto in relazione ad esse si è consumato il potere disciplinare del datore di lavoro; 2.2. peraltro gli stessi fatti sono rimasti esclusi all’esito del procedimento penale, definito con decreto di archiviazione, avviato dalla Procura della Repubblica di Roma nei confronti del (omissis) a seguito di denuncia della Banca.

Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per Cassazione la (omissis) s.p.a. con due motivi, illustrati da memoria ex art. 378 c.p.c..

L’intimato si è costituito con controricorso, resistendo.

Diritto

Motivi della decisione
Va preliminarmente respinta la eccezione di inammissibilità del ricorso, proposta dal controricorrente per il motivo della mancata esposizione dei fatti oggetto del giudizio.

Il ricorso in cassazione della (omissis) s.p.a. consta di 51 pagine, di cui 23 dedicate alle fasi del giudizio di merito, e quindi al fatto; questo dato quantitativo non costituisce di per sé prova che esso contenga tutti gli elementi prescritti dall’art. 366 c.p.c.; ma questo dato risulta con tutta evidenza dalla sua lettura, la quale, avendo per oggetto un atto del giudizio di cassazione, prescinde dalla natura del vizio denunciato.

Con il primo motivo di ricorso la società ricorrente, deducendo violazione e falsa applicazione degli artt. 1175, 1375, 2105, 2119 anche agli artt. 1360, 1441 e segg. cod. civ., nonché agli artt. 1 Legge 15 luglio 1966, n. 604 e 18 Legge 20 maggio 1970, n. 300; insufficiente e contraddittoria motivazione su punto decisivo della controversia (art. 360, nn. 3 e 5 c.p.c.), esprime critica sul principio di diritto enunciato dal giudice d’appello, e fa comunque notare che esso non si applica al caso dedotto in giudizio, perché il licenziamento disciplinare è stato intimato il 13 gennaio 1998, e cioè quando il rapporto aveva riacquistato piena vigenza a seguito della sentenza del Pretore di Roma 21 novembre 1997, passata in giudicato per mancata impugnazione.

Il motivo è fondato.

Il Tribunale fonda la propria decisione sul principio di diritto enunciato da questa Corte, con la sentenza 5 aprile 2001 n. 5092, secondo cui l’azione diretta ad invalidare il licenziamento perché privo di giusta causa o giustificato motivo è un’azione di annullamento, ha natura costitutiva e pertanto, fino all’eventuale sentenza di accoglimento e salvi gli effetti retroattivi di questa, il negozio risolutivo produce regolarmente i suoi effetti. La Corte ha tratto la conseguenza, dal principio enunciato, che un ulteriore licenziamento, intimato in corso di causa e prima della sentenza di accoglimento, deve considerarsi privo di ogni effetto per l’impossibilità di adempiere la sua funzione; questione che unicamente rilevava in quella causa.

Il Tribunale ne ha derivato una ulteriore conseguenza: l’irrilevanza a fini disciplinari di qualsiasi comportamento posto in essere dopo la cessazione del rapporto.

Questa Corte osserva:

La premessa giuridica sulla natura dell’azione di annullamento del licenziamento come azione costitutiva, è corretta; ma l’applicazione che ne ha fatto la sent. 5092/2001 cit. (non è ammissibile un secondo licenziamento in costanza di giudizio sulla validità del primo) non è pertinente nella presente causa, nella quale le circostanze di fatto sono diverse: il licenziamento disciplinare è stato intimato il 13 gennaio 1998, e cioè quando la controversia sulla legittimità del precedente licenziamento per impossibilità sopravvenuta era cessata, ed il rapporto aveva riacquistato piena vigenza, a seguito della sentenza del Pretore di Roma 21 novembre 1997, passata in giudicato per mancata impugnazione.

Il thema decidendum della presente causa è se siano rilevanti i comportamenti disciplinari tenuti medio tempore tra la cessazione del rapporto per licenziamento e la sua successiva ricostituzione, ad opera del giudice; problema non esaminato dalla sent. 5092/2001 cit., perché non rilevante in quella causa; sicché non è necessario al fine del decidere dare conto o prendere posizione sulle voci giurisprudenziali e dottrinali difformi da Cass. 5092/2001. Per la corretta soluzione del problema oggetto della presente causa occorre fare tre distinzioni o precisazioni.

1. La prima riguarda la fondamentale distinzione tra gli obblighi scaturenti dal sinallagma contrattuale, ed i doveri extracontrattuali, derivanti dall’art. 2043 cod. civ., o addirittura da norme penali. Su questi ultimi (ex 2043 o ex norme penali) in nessun caso può influire la cessazione, per qualsiasi causa, del rapporto, perché essi non trovano fonte nel sinallagma contrattuale.

Avendo la (omissis) s.p.a. contestato al (omissis) addebiti di entrambi i tipi, ed avendo allegato che le sue lettere contenevano minacce, intimidazioni e lesione dei beni della personalità di altri soggetti, la sentenza impugnata è censurabile già per non avere considerato la diversa rilevanza, nell’ambito della sua stessa impostazione, di tali distinti comportamenti.

Si tratta di una distinzione che appartiene alla giurisprudenza consolidata di questa Corte; e poiché si è fatto cenno alla contestazione degli addebiti operata dalla Banca, è sufficiente ricordare l’evoluzione giurisprudenziale in tema di oneri di affissione del codice disciplinare, ora consolidata nel principio che la previa pubblicità del c.d. codice disciplinare, mediante affissione in luogo accessibile a tutti i lavoratori, è richiesta solo quando al lavoratore vengano contestate violazioni di obblighi che discendono da disposizioni del datore di lavoro o del contratto collettivo, non quando essi traggano direttamente origine dalla legge (ex plurimis: Cass. 26 luglio 2002 n. 11108, Cass. 14 maggio 2002 n. 6974).

2. In secondo luogo il Tribunale non ha tenuto conto dell’insegnamento dato da questa Corte con la sentenza 4 aprile 1997 n. 2949, la quale, pronunciandosi sul punto specifico rilevante nella presente causa, ha statuito che i comportamenti posti in essere dal lavoratore (il quale richieda la reintegrazione nel posto di lavoro) nel periodo intermedio, possono avere rilievo disciplinare, con la motivazione (su cui infra) che la successiva ricostruzione de jure del rapporto fa si che il rapporto si deve considerare come mai interrotto.

La dottrina ha condiviso tale principio, spostando però l’ottica motivazionale dall’effetto giuridico automatico della sentenza dichiarativa della illegittimità del licenziamento, individuato dalla Corte, ad una spiegazione di tipo psicologico: il lavoratore, con la propria impugnazione, manifesta la volontà di perseguire la ricostituzione del rapporto di lavoro pregresso, con la conseguente persistenza nel tempo degli obblighi di comportamento; con l’impugnazione, esso “congelerebbe” l’efficacia estintiva dell’atto di recesso sino alla pronuncia giudiziale.

Il Collegio ritiene il principio enunciato dalla sent. 2949/1997 sostanzialmente esatto, ma bisognevole di una più puntuale ricognizione delle sue ragioni giuridiche.

Non si può ritenere che gli effetti di un contratto cessato possano dipendere dall’iniziativa di una sola parte. Né che una decisione giudiziale futura, di cui ovviamente non è possibile conoscere l’esito, possa definire, con effetto retroattivo, gli obblighi attuali delle parti, per la elementare ragione che l’esistenza certa della fonte impositiva di un obbligo giuridico deve precedere la contestazione del suo inadempimento. Rimane sempre vero che factum infectum nequit fieri.

Per risolvere il problema occorre ribaltare la prospettiva della sentenza impugnata. Essa si pone il problema se un rapporto cessato possa ancora produrre effetti giuridici, escludendo tale possibilità.

A parte il fatto che non è esatto, in termini assoluti, che un rapporto di lavoro cessato non possa produrre alcun effetto (si pensi ai patti di non concorrenza stipulati durante il rapporto per il periodo successivo alla sua cessazione), il problema va invece visto in chiave prospettica rispetto al rapporto che va a (ri)costituirsi.

Vi sono due profili, uno oggettivo, l’altro soggettivo, tra loro intrecciati.

Vi sono situazioni a formazione progressiva, prodromiche alla costituzione di un rapporto, il cui stadio di avanzamento non è privo di effetti giuridici, ancor prima che la fattispecie a formazione progressiva sia compiutamente realizzata con la costituzione del rapporto giuridico finale.

In tale quadro, il soggetto che ha promosso il procedimento non è assolutamente libero, ma ha un onere di coerenza con l’obiettivo perseguito: si pensi al vincitore di un concorso, il quale, nell’attesa dell’atto di nomina, non può compiere certi atti contrari a quelli che saranno i suoi futuri obblighi, pur non sussistendo ancora un rapporto di lavoro costituito.

A maggior ragione, il lavoratore che impugni il licenziamento e che esprima con ciò la volontà di riprendere a collaborare (art. 2094 cod. civ.) nell’impresa, ha un onere di coerenza, che affonda le sue radici nel principio di identità, con tale volontà. Con la sua impugnazione, dà inizio a un procedimento diretto alla ricostituzione del rapporto; nell’attesa della decisione giudiziale, non può compiere atti contrari al suo obiettivo, che non è solo la ricostituzione del rapporto, ma anche l’efficacia della ricostituzione, implicita nella domanda secondo legge, dal momento della cessazione, con ripresa de jure del rapporto come mai interrotto, e quindi anche con la persistenza, richiesta dallo stesso lavoratore ricorrente, dei propri obblighi, ex tunc, e cioè anche per il periodo nel quale sono compresi i comportamenti in discussione.

Per questa via – onere di coerenza di ciascun soggetto giuridico, ed effetti giuridici delle fattispecie a formazione progressiva – può trovare spiegazione appagante un fenomeno che potrebbe apparire altrimenti paradossale, applicato ad una relazione di lavoro: che un rapporto cessato de facto produca obblighi, la cui esistenza non è però certa al momento in cui dovrebbero essere adempiuti, ma conoscibile solo a posteriori, all’esito di futura sentenza, se dichiarativa della illegittimità del licenziamento.

3. Il quadro normativo come sopra ricostruito soffre una sola eccezione, con esso coerente, proposta da autorevole dottrina: i comportamenti dovuti alla necessità di provvedere mezzi di sussistenza alternativi a quelli del rapporto cessato e di fatto non più corrisposti, ricerca che il lavoratore svolge ovviamente nell’ambito della propria professionalità, e quindi anche, eventualmente, presso la concorrenza.

Con il secondo motivo di ricorso la società ricorrente, deducendo violazione e falsa applicazione degli artt. 2119 cod. civ.; 1 Legge 15 luglio 1966, n. 604; 7 Legge 20 maggio 1970, n. 300; 75 e 624 c.p.c.; omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su punto decisivo della controversia (art. 360, nn. 3 e 5 c.p.c.) censura la sentenza impugnata sotto tre diversi profili.

In primo luogo fa notare che la conoscenza della falsità delle certificazioni mediche prodotte dal (omissis) era emersa nel corso del giudizio di impugnativa del primo licenziamento ed all’esito di questo, ricostituito il rapporto, la Banca aveva proceduto alla contestazione disciplinare: cosicché nessun profilo di (ipotetica) violazione del principio di immediatezza poteva essere prospettato.

In secondo luogo, contesta alla sentenza impugnata di avere attribuito al decreto di archiviazione un’efficacia vincolante che esso non aveva, a norma delle regole che presiedono alla disciplina dei rapporti tra giudizio civile e giudizio penale e, in particolare, dell’art. 654 c.p.p..

In terzo ed ultimo luogo contesta alla sentenza impugnata di avere omesso di motivare sulle ulteriori contestazioni che pure potevano essere apprezzate al fine di formare il convincimento nel senso della sussistenza della giusta causa di recesso, quali circostanze confermative della complessiva attitudine del (omissis) a tentare di perseguire ingiusti vantaggi attraverso atteggiamenti minatori, intimidatori e diffamatori nei confronti del proprio datore di lavoro (oltre che di terzi).

I vari motivi e profili, da esaminare congiuntamente per la loro connessione, sono rilevanti nel giudizio di rinvio, e vanno pertanto esaminati.

Essi sono fondati.

Il primo licenziamento è motivato da impossibilità sopravvenuta, quindi erra il Tribunale ad affermare che con esso si è consumato il potere disciplinare del datore di lavoro.

Il secondo licenziamento, questo sì motivato da ragioni disciplinari, è avvenuto quando il rapporto era pienamente vigente, essendo già terminato il precedente giudizio con sentenza pretorile passata in giudicato.

Circa la rilevanza degli accertamenti penali, occorre distinguere gli effetti sul procedimento civile delle sentenze penali di condanna e di quelle di assoluzione: le prime vincolano il giudice a ritenere accertati anche nel giudizio civile gli stessi fatti materiali ritenuti rilevanti in un precedente giudizio penale conclusosi con una sentenza di condanna divenuta definitiva; viceversa, il giudicato di assoluzione dalla responsabilità penale non comporta la conseguenza automatica – vincolante per il giudizio civile – dell’insussistenza di tutti i fatti posti a fondamento dell’imputazione, perché può verificarsi che alcuni di tali fatti, pur essendosi rivelati, nella loro indiscussa materialità, non decisivi per la configurazione del reato contestato, possano conservare una loro rilevanza ai fini civilistici. (Cass. 18 ottobre 2000 n. 13818, in analoga fattispecie di lavoratore assolto in sede penale per fatti aventi anche rilevanza disciplinare; Cass. 5 agosto 2000 n. 10315; Cass. 17 febbraio 1999 n. 1330; Cass. 9 luglio 1999 n. 7250).

Il ricorso va pertanto accolto, la sentenza impugnata cassata, e gli atti trasmessi alla Corte d’appello di Roma, diversa sezione, la quale deciderà la causa attenendosi ai seguenti principi di diritto: “1. In tema di rilevanza disciplinare dei comportamenti posti in essere dal lavoratore dopo la cessazione del rapporto, ove questa sia impugnata ed il rapporto ricostituito jussu judicis, si deve distinguere tra gli obblighi scaturenti dal sinallagma contrattuale, ed i doveri extracontrattuali, derivanti dall’art. 2043 cod. civ., o da norme penali. Su questi ultimi in nessun caso può influire la cessazione, per qualsiasi causa, del rapporto, perché essi non trovano fonte nel sinallagma contrattuale. 2. Tuttavia anche i primi possono assumere rilevanza, non perché il lavoratore con la propria impugnazione possa determinare unilateralmente gli effetti bilaterali del contratto, ma per un suo obbligo di coerenza con la volontà espressa (con l’impugnazione) di proseguire il rapporto, con effetti ex tunc. 3. Dalla permanenza, per tale motivo, degli obblighi del medesimo contratto possono essere sottratti solo i comportamenti necessari per reperire fonti di sostentamento alternative alla retribuzione di fatto non più corrisposta, ricerca che il lavoratore svolge ovviamente nell’ambito della propria professionalità, e quindi anche, eventualmente, presso la concorrenza.

Essa provvederà altresì alle spese del presente giudizio.

P.Q.M.

accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese, alla Corte d’appello di Roma.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione Lavoro, il 6 novembre 2003.

DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 4 GIU. 2004.

Allegati

    [pmb_print_buttons]

    Accedi