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Cassazione civile sez. lav., 18/09/2013, n. 21362

Massima

L’esercizio da parte del lavoratore del diritto di critica nei confronti del datore di lavoro, con modalità tali che, superando i limiti della continenza sostanziale (nel senso di corrispondenza dei fatti alla verità, sia pure non assoluta ma soggettiva) e formale (nel senso di misura nell’esposizione dei fatti), si traducano in una condotta lesiva del decoro dell’impresa datoriale – suscettibile di provocare, con la caduta della sua immagine, anche un danno economico in termini di perdita di commesse e di occasioni di lavoro – è comportamento idoneo a ledere definitivamente la fiducia che sta alla base del rapporto di lavoro, integrando la violazione del dovere scaturente dall’art. 2105 cod. civ., e può costituire giusta causa di licenziamento.

Supporto alla lettura

LICENZIAMENTO

Il licenziamento è l’atto con cui il datore di lavoro risolve il rapporto di lavoro.
Esistono diverse motivazioni che possono dare origine al licenziamento:

  • giusta causa
  • giustificato motivo soggettivo
  • giustificato motivo oggettivo
  • licenziamento orale (o verbale)
  • licenziamento in maternità o in conseguenza del matrimonio

GIUSTA CAUSA

Comportamento del lavoratore che costituisca grave violazione ai propri obblighi contrattuali, tale da ledere in modo insanabile il necessario rapporto di fiducia tra le parti e che non consente la prosecuzione nemmeno temporanea del rapporto di lavoro (c.c. 2119).

GIUSTIFICATO MOTIVO SOGGETTIVO

È rappresentato da comportamenti disciplinarmente rilevanti del dipendente ma non tali da comportare il licenziamento per giusta causa, e cioè senza preavviso. Rientra ad esempio il licenziamento per motivi disciplinari.

GIUSTIFICATO MOTIVO OGGETTIVO

E’ rappresentato da ragioni inerenti l’organizzazione del lavoro dell’impresa.
Costituisce pertanto G.M.O. la crisi dell’impresa, la cessazione dell’attività e, anche solo, il venir meno delle mansioni cui era in precedenza assegnato il lavoratore, senza che sia possibile il suo “ripescaggio”, ovvero la ricollocazione del medesimo in altre mansioni esistenti in azienda e compatibili con il livello di inquadramento.

La procedura in tutte queste forme di licenziamento per impugnare è bifasica: impugnativa stragiudiziale entro 60 giorni. Impugnativa giudiziale nei successivi 180 giorni dall’impugnativa stragiudiziale.

LICENZIAMENTO VERBALE O ORALE

E’ il caso in cui il lavoratore viene allontanato dal luogo di lavoro senza alcun atto formale da parte del datore di lavoro (lettera – mail) ma a voce. Il licenziamento è nullo.

Ambito oggettivo di applicazione

Fatto
SVOLGIMENTO DEL FATTO

1. La Corte d’Appello di Catanzaro, con la sentenza n. 1133 del 2010, pronunciando sull’impugnazione proposta da (omissis),(omissis), (omissis),(omissis),  (omissis) e (omissis) nei confronti dell’Istituto di vigilanza privata notturna e diurna srl, accoglieva l’appello e, in riforma della sentenza emessa dal Tribunale di Catanzaro, giudice del lavoro, n. 1396/2008 del 4 dicembre 2008, dichiarava illegittimo il licenziamento irrogato dal suddetto Istituto nei confronti dei lavoratori appellanti, con condanna alla reintegrazione degli stessi nel posto di lavoro occupato al momento del licenziamento, al risarcimento del danno in misura pari alla retribuzione globale di fatto maturata dal momento del licenziamento all’effettiva reintegrazione e al versamento dei contributi previdenziali ed assicurativi dal giorno del licenziamento alla reintegrazione.

2. L’Istituto di vigilanza privata notturna e diurna srl, in data 7 giugno 2007, aveva intimato a (omissis),(omissis),(omissis) e (omissis) il licenziamento per giusta causa.

Il Tribunale di Catanzaro, adito dai lavoratori, reputava infondata l’eccezione di nullità della contestazione disciplinare per genericità ed indeterminatezza e riteneva legittimo il licenziamento irrogato.

3. Per la cassazione della sentenza resa in grado di appello ricorre l’Istituto di vigilanza privata notturna e diurna srl, prospettando due motivi di ricorso.

4. Resistono con controricorso (omissis), (omissis), (omissis) e (omissis).

5. L’Istituto ricorrente ha depositato memoria in prossimità dell’udienza.

Diritto
MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Occorre premettere che la contestazione disciplinare rivolta dall’Istituto di vigilanza privata notturna e diurna srl a (omissis),(omissis), (omissis) e (omissis), aveva ad oggetto il rinvenimento, nella notte tra il (omissis), in più siti, luoghi di espletamento di vigilanza fissi, di copia di un volantino (datato 23 aprile 2007) a firma degli stessi e rimesso a mezzo lettera accompagnatoria, predisposta il 17 maggio 2007, alle autorità e agli uffici che vi si leggevano in indirizzo, nel quale veniva data un’immagine dell’Istituto estremamente negativa, non veritiera e gravemente lesiva del prestigio e del buon nome dello stesso, che, senza ricatti di sorta, aveva sempre corrisposto ogni emolumento, anche in periodi, più o meno recenti, in cui i bilanci societari facevano registrare rilevanti perdite ed aveva sempre perseguito pratiche di gestione del personale che, nel rispetto delle previsioni contrattuali, e delle norme di legge, si ispiravano ad intese che, legittimamente perfezionate con tutto il rimanente personale, per una loro rivisitazione avrebbero richiesto nuove trattative di carattere collettivo.

Nel volantino si faceva riferimento a comportamenti che si assumevano vessatori, arbitrari e frutto di evidenti abusi, ma anche dai toni ricattatori e frutto di pratiche illegali, in cui avrebbero dovuto risultare coinvolti o almeno compiacenti anche uffici istituzionalmente preposti al controllo e alla vigilanza sui contratti di lavoro e sulle stesse modalità di espletamento del servizio, non trascurandosi nemmeno le 00.SS. attraverso l’operato delle loro rappresentanze aziendali e non esclusi alcuni atteggiamenti che avrebbero dovuto apparire come pratiche di vere e proprie tangenti.

I lavoratori, nelle giustificazioni fornite il 30 maggio 2007, confermavano la sottoscrizione ed il contenuto del testo riportato nel volantino, ma affermavano di essere completamente estranei alla divulgazione dello stesso e di ignorare le modalità ed i presunti autori della sua pubblicizzazione.

Tali giustificazioni erano state ritenuta non in grado di ricomporre l’elemento fiduciario irrimediabilmente compromesso, oltre alla intervenuta violazione dell’obbligo di fedeltà, con la conseguente irrogazione del licenziamento per giusta causa.

2. Tanto premesso può passarsi all’esame dei motivi di ricorso.

3. Con il primo motivo di ricorso è dedotta insufficiente e contraddittoria motivazione circa un primo fatto controverso e decisivo per il giudizio.

Espone il ricorrente che la Corte d’Appello pone a fondamento della propria decisione, innanzitutto, la mancanza di prova circa l’attribuibilità ai lavoratori appellanti della divulgazione dello scritto in questione nei luoghi in cui lo stesso veniva stato ritrovato.

Tale argomento e non solo perchè oggetto della contestazione era il contenuto e non la divulgazione dello scritto (attraverso cui la società datrice di lavoro era venuta a conoscenza del documento), veniva contraddetto dalle risultanze processuali.

Ed infatti, i lavoratori prima avevano redatto il documento in data (omissis) e solo il 17 maggio 2007 l’avevano inviato alle diverse autorità.

In ragione del tenore del documento, gli unici che avevano interesse alla divulgazione dello stesso non potevano essere che i suoi redattori, apparendo illogico quanto ritenuto dalla Corte d’Appello secondo cui altri lavoratori, non identificati, si sarebbero resi promotori della diffusione.

Deduce il ricorrente, quindi, che anche a non voler considerare che la conferma del documento ed il riconoscimento dell’attribuzione dello stesso agli stessi lavoratori, fossero da ritenere di per sè motivo di grave violazione dell’elemento fiduciario, per il grave contenuto dello stesso, anche la divulgazione, doveva essere imputata ai lavoratori, in quanto provata in via presuntiva; peraltro, il documento veniva rinvenuto nei luoghi dove veniva espletato il servizio di vigilanza.

Ad avviso del ricorrente, quindi, la motivazione della sentenza sarebbe viziata nel pervenire ad affermare che il contenuto del documento, quantunque impregnato da termini ed espressioni esagerate ed inopportune e incidenti negativamente sull’immagine della società datrice, si presta ad essere considerato (…) come legittimo esercizio del diritto di critica nei confronti di parte datoriale sulla gestione del rapporto di lavoro.

4. Con il secondo motivo di ricorso è dedotta insufficiente e contraddittoria motivazione circa un secondo fatto controverso e decisivo per il giudizio. Violazione e falsa applicazione degli artt. 2105 e 2119 c.c., della L. n. 604 del 1966, art. 3 collegati con l’interpretazione che ne è dovuta ex artt. 1175 e 1375 c.c..

In merito alla valenza diffamatoria, la Corte d’Appello, in modo contraddittorio, riconosce che il documento si pone in contrasto e viola il principio di continenza formale, ma sminuisce l’intento denigratorio, oltre che sul presupposto della mancata diffusione ad opera dei resistenti, anche per il fatto che lo stesso veniva inviato solo agli organi istituzionalmente individuati come deputati alla tutela dei lavoratori, non tenendo conto che lo stesso veniva trasmesso anche a organi deputati all’ordine pubblico quali il Vice Ministro dell’Interno e il Prefetto, e, quindi, attesa l’attività di vigilanza esercita, soggetta ad autorizzazioni e licenze da parte della Prefettura, oltre che di controllo da parte della Questura, con l’intento di recare danno al datore di lavoro.

Nè, l’affermazione della Corte d’Appello che l’intenzione dei lavoratori sarebbe stata quella che la società rimanesse all’oscuro del documento può costituire elemento idoneo a sminuirne il contenuto. Il riferimento all’essere il documento un atto di accusa riguardo varie sigle sindacali, all’esser il termine tangente interpretato in senso riduttivo, non ne diminuirebbe la portata e l’effetto diffamatorio e lesivo del decoro e dell’immagine e reputazione dell’istituto e dei legali rappresentanti, ben individuati anche per il riferimento alla vecchia e nuova generazione, rispetto alle autorità a cui veniva inviato.

La sentenza sarebbe, altresì, viziata in quanto nel documento in questione si rinvenivano espressioni suscettibili di violare il disposto di cui all’art. 2105 c.c. e di vulnerare la fiducia che il datore di lavoro ripone nel lavoratore. Il superamento del limite del rispetto della verità oggettiva si sarebbe tradotto in una condotta lesiva del decoro dell’impresa datoriale, con la conseguenza della legittimità del provvedimento espulsivo, più che proporzionale rispetto alla gravità del comportamento, non potendo il datore di lavoro continuare a dover porre la giusta fiducia in un dipendente che abbia pubblicamente espresso giudizi gravemente diffamatori nei propri confronti.

4. I suddetti motivi devono essere trattati congiuntamente in ragione della loro connessione. Gli stessi sono fondati nei limiti che segue.

5. Occorre premettere che in presenza di più interessi collidenti, e cioè l’interesse della persona o dell’impresa oggetto di affermazioni lesive e l’interesse contrapposto di chi ne è l’autore – costituzionalmente garantito dall’art. 21 Cost. sulla libertà di manifestazione del pensiero – occorre trovare un punto di intersezione e di equilibrio, che va individuato nel limite in cui il secondo interesse, non rechi pregiudizio, all’onore, alla reputazione e al decoro di chi ne è oggetto, persona fisica o società.

Dunque assume rilievo la continenza (esposizione veritiera e corretta) del fatto nell’esercizio del diritto di manifestazione del pensiero, sia dal punto di vista sostanziale che formale. In particolare, sotto il primo profilo, i fatti narrati devono appunto corrispondere alla verità, sia pure non assoluta ma soggettiva e, sotto il secondo, l’esposizione dei fatti deve avvenire in modo misurato, cioè deve essere contenuta negli spazi strettamente necessari (Cass., n. 23798 del 2007).

Tanto premesso, occorre rilevare che il problema posto dalla controversia consiste nello stabilire se i lavoratori abbiano esercitato il diritto di critica rispetto alle attività datoriali, nel rispetto della legge e della Costituzione, e se la reazione datoriale sia stata legittima o meno.

A tal fine, va precisato che non è necessario ancorare la condotta dei lavoratori alla precisa violazione dell’art. 595 c.p., perchè è possibile la configurazione di un illecito in termini civilistici ai sensi dell’art. 2043 c.c., integrabile quindi anche con un comportamento meramente colposo (al di fuori del dolo generico richiesto dalla norma penale), che si svolga anche alla presenza dell’offeso (diversamente da quanto prevede la norma penale).

Entrando ora nel merito, va premesso che la Corte d’Appello, disattendendo le argomentazioni svolte dal primo giudice, che riteneva che le espressioni utilizzate nel volantino (indicato come documento dal giudice dell’appello), esposto alla conoscenza della generalità dei consociati, apparivano gravemente denigratorie e come tali, idonee a compromettere in modo irreparabile, al di là della veridicità dei fatti ivi riportati, il vincolo fiduciario sotteso allo specifico rapporto di lavoro intercorrente tra gli stessi lavoratori e l’istituto di vigilanza, pone al centro della propria decisione la non riferibilità ai lavoratori in questione della diffusione del volantino/documento.

La Corte d’Appello, in primo luogo, riforma la sentenza di primo grado impugnata in punto di ascrivibilità agli appellanti della divulgazione del documento a loro firma nella città di (omissis).

In secondo luogo, pur ritenendo superata la continenza formale – nell’affermare che il Tribunale avrebbe teso a riferire le espressioni ed i termini a contenuto denigratorio ed offensivo non già alla enunciazione nel documento in contestazione, quanto piuttosto ed essenzialmente “alla conoscenza della generalità dei consociati” delle espressioni ritenute gravemente denigratorie, suscettibili di compromettere il vincolo fiduciario – escludeva la sussistenza della giusta causa di licenziamento in ragione, del mancato superamento della continenza sostanziale, e per l’essere il documento in questione diretto alle sole autorità in indirizzo, al fine di sollecitare le autorità e l’organizzazione sindacale destinataria ad intervenire per accertare e valutare la situazione che non avrebbe trovato soluzione positiva attraverso l’opera di mediazione delle organizzazioni sindacali aziendali.

Nel fare ciò, tuttavia, la Corte d’Appello prescinde dalla contestazione, come dalla stessa riportata in sentenza, riformulandola di fatto, in ragione delle argomentazioni svolte dal Tribunale su un tema introdotto dai lavoratori ricorrenti a propria esimente.

Occorre rilevare che, nel caso di specie, la diffusione del volantino/documento, non ha costituito oggetto della contestazione disciplinare, come la stessa viene riportata a pag. 3 della sentenza d’appello, e come dedotto dall’odierno ricorrente nel censurare la sentenza della Corte d’Appello di Catanzaro.

Il licenziamento per giusta causa veniva irrogato, come anticipato nella contestazione – ove si faceva riferimento, in ragione del contenuto del volantino/documento, al venir meno dell’elemento fiduciario essenziale alla prosecuzione del rapporto – all’esito delle giustificazioni fornite, per essere le stesse assolutamente non in grado di ricomporre l’elemento fiduciario, da ritenere irrimediabilmente compromesso, oltre che violato l’obbligo di fedeltà. Contenuto del documento la cui riferibilità ai lavoratori resistenti è dagli stessi riconosciuta.

Si può ricordare, in proposito, come questa Corte ha affermato il principio della necessaria corrispondenza tra addebito contestato e addebito posto a fondamento della sanzione disciplinare, il quale vieta di infliggere un licenziamento sulla base di fatti diversi da quelli contestati (Cass., n. 6091 del 2010).

Pertanto, le circostanze relative alla diffusione, prese in esame, disattendendole, dal Tribunale, in ragione della progettazione difensiva dei lavoratori, non integrano, come erroneamente ritiene la Corte d’Appello, statuendo sulla prova in merito, elemento della contestazione, e neppure possono rientrare nel giudizio di proporzionalità ed adeguatezza rimesso al giudice di merito, nel valutare le complessive circostanze del caso anche in ragione delle deduzioni dei lavoratori, atteso che attengono ad un fatto distinto da quello oggetto della contestazione.

Ciò chiarito, il centro della fattispecie in esame riguarda l’idoneità delle affermazioni contenute nel documento, riportato nel volantino, inviato ad un pluralità di istituzioni (Ministero del lavoro, Ministero degli Interni, Prefettura di Catanzaro, Segretariato generale CGIL, Segretariato generale FILCAMS CGIL, Segretariato generale CGIL), a ledere il rapporto fiduciario con il datore di lavoro, in modo tale da costituire giusta causa di licenziamento. Peraltro, la Corte d’Appello, nell’escludere la diffusione in capo ai ricorrenti, prospetta la conoscenza dello stesso da parte di altri lavoratori che l’avrebbero diffuso, e dunque nell’ambiente di lavoro.

La sentenza della Corte d’Appello mostra una motivazione non corretta e non congrua.

In primo luogo, come questa Corte ha già avuto modo di affermare in tema di licenziamento individuale per giusta causa o per giustificato motivo soggettivo, ai sensi dell’art. 2119 cod. civ. o della L. n. 604 del 1966, art. 3 il giudizio di proporzionalità o adeguatezza della sanzione dell’illecito commesso deve essere effettuato con riguardo al contenuto del documento redatto dagli odierni resistenti e trasmesso a diverse istituzioni e autorità pubbliche, in quanto oggetto della contestazione disciplinare.

La giusta causa di licenziamento deve rivestire il carattere di grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro e, in particolare, dell’elemento fiduciario, dovendo il giudice valutare, da un lato, la gravità dei fatti addebitati al lavoratore, in relazione alla portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, alle circostanze nelle quali sono stati commessi e all’intensità del profilo intenzionale, dall’altro, la proporzionalità fra tali fatti e la sanzione inflitta, per stabilire se la lesione dell’elemento fiduciario, su cui si basa la collaborazione del prestatore di lavoro, sia tale, in concreto, da giustificare la massima sanzione disciplinare; a tal fine, quale comportamento che, per la sua gravità, è suscettibile di scuotere la fiducia del datore di lavoro, può assumere rilevanza disciplinare anche una condotta che, seppure compiuta al di fuori della prestazione lavorativa, sia idonea, per le modalità concrete con cui essa si manifesta, ad arrecare un pregiudizio, non necessariamente di ordine economico, agli scopi aziendali, (Cass.,n. 15654 del 2012).

In secondo luogo, si può rilevare che, contraddittoriamente e in violazione dell’art. 2105 c.c., il giudice di secondo grado, conferma, come statuito dal primo giudice, il superamento della continenza formale (pagg. 12 e 13 della sentenza d’appello) le espressioni ed i termini contenuti nello scritto proveniente dagli appellanti, che il giudice di primo grado ha avuto cura di riportare in sentenza, lasciano indubbiamente sottintendere, attraverso l’attribuzione di atteggiamenti “vessatori, la riferita utilizzazione di “pratiche illegali”, di pretese tangenti” per mantenere il posto di lavoro, di scarsa considerazione e di violazione dei diritti dei lavoratori, una valutazione essenzialmente negativa del soggetto destinatario, idonea a determinarne un pregiudizio sul piano dell’immagine e della reputazione, ma esclude il superamento della continenza sostanziale (pag. 15 della sentenza), mentre solo la sussistenza di entrambi i suddetti elementi concorre a rendere legittimo l’esercizio del diritto di critica.

L’esercizio da parte del lavoratore del diritto di critica nei confronti del datore di lavoro, con modalità tali che, superando i limiti del rispetto della verità oggettiva, si traducono in una condotta lesiva del decoro dell’impresa datoriale, suscettibile di provocare con la caduta della sua immagine anche un danno economico in termini di perdita di commesse e di occasioni di lavoro, è comportamento idoneo a ledere definitivamente la fiducia che sta alla base del rapporto di lavoro, integrando la violazione del dovere scaturente dall’art. 2105 cod. civ., e può costituire giusta causa di licenziamento (Cass., n. 11220 del 2004, n. 29008 del 2008, citata Cass., n. 23798 del 2007).

6. Il ricorso deve essere accolto. Cassa la sentenza impugnata e rinvia anche per le spese del presente giudizio alla Corte d’Appello di Reggio Calabria.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso. Cassa la sentenza impugnata e rinvia anche per le spese del presente giudizio alla Corte d’Appello di Reggio Calabria.Così deciso in Roma, il 11 luglio 2013.

Depositato in Cancelleria il 18 settembre 2013.

Allegati

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