La censura è infondata. Se è vero che l’art. 342, richiede espressamente che i motivi dell’appello siano specifici, occorre chiarire che la ratio di tale norma deve essere individuata nella necessità di consentire più agevolmente la corretta determinazione del quantum appellatum, senza che il giudice e le parti appellate siano costrette ad un’attività di interpretazione delle ragioni di censura, che non solo la legge non affida loro ma che, soprattutto, e la considerazione è decisiva, potrebbe tradire il vero contenuto dei motivi di gravame. Ma se questo è vero non può trascurarsi che l’art. 342, non richiede una rigorosa e formalistica enunciazione delle ragioni invocate a sostegno dell’impugnazione, in rigida e scolastica contrapposizione alle considerazioni contenute nella sentenza impugnata, purchè l’appello – e si tratta del rilievo decisivo – consenta al giudice del gravame di percepire con certezza il contenuto delle censure, identificando esattamente i punti da esaminare, ed alle controparti di poter svolgere senza alcun concreto pregiudizio la propria attività difensiva in relazione alle ragioni di fatto e di diritto per le quali era stato proposto gravame.
Quindi, sulla base dell’orientamento costante di questa Corte secondo cui l’atto di appello non esige particolari formalità, si deve affermare conclusivamente che il requisito della specificità può e deve ritenersi sussistente quando l’atto d’impugnazione consenta di individuare con certezza le statuizioni impugnate nonchè le ragioni del gravame, secondo una verifica che va fatta in concreto, caso per caso. Ed è appena il caso di sottolineare come nel caso di specie i giudici di seconde cure ebbero occasione con tutta evidenza di soffermarsi dettagliatamente sulle ragioni dell’appello proposto e la parte appellata ebbe la possibilità di svolgere senza alcun concreto pregiudizio la propria attività difensiva in relazione alle ragioni di fatto e di diritto per le quali era stato proposto gravame.
Passando alla seconda doglianza, va osservato che, lamentando la falsa erronea e fuorviante applicazione dell’art. 2054 c.c., comma 2 e art. 2697 c.c., il ricorrente ha dedotto l’erroneità della decisione per aver la Corte di appello ritenuto che dal mancato assolvimento dell’onere probatorio da parte dell’attore-danneggiato circa la liceità della propria condotta conseguisse automaticamente l’applicazione della presunzione di pari corresponsabilità dei due conducenti nella causazione del sinistro.
Inoltre – ed in tale rilievo si sostanzia una successiva doglianza, la quarta, articolate sotto il profilo della motivazione omessa ed insufficiente – la Corte territoriale non avrebbe spiegato adeguatamente le ragioni del ritenuto pari concorso di colpa dei due conducenti.
Entrambe le ragioni di censura, che vanno trattate unitariamente in ragione della connessione da cui sono legate, sono infondate. Ed invero, secondo l’orientamento consolidato di questa Corte, in tema di responsabilità derivante da circolazione stradale, il giudice che abbia in concreto accertato la colpa di uno dei conducenti non può, per ciò solo, ritenere superata la presunzione posta a carico anche dell’altro dall’art. 2054 c.c., comma 2, ma è tenuto ad accertare in concreto se quest’ultimo abbia o meno tenuto una condotta di guida irreprensibile (Cass. n. 12444/08, conformi Cass. n. 6797/87, n. 5671/2000, n. 477/2003, n. 195/2007).
Nel caso in esame, l’incerta situazione probatoria emersa dalla compiuta istruttoria non ha consentito di accertare quest’ultimo dato per cui la Corte di appello ha fondato la sua decisione sulla mancanza “di dati idonei alla piena ricostruzione delle modalità di accadimento del fatto dannoso” (così, testualmente), concludendo correttamente che la presunzione di pari responsabilità prevista dall’art. 2054 c.c., comma 2, deve trovare applicazione ogni qualvolta non sia possibile ricostruire l’esatta dinamica dell’incidente ed accertare che l’altro conducente abbia tenuto una corretta condotta di guida esente da ogni censura.
Ed è appena il caso di sottolineare come la Corte territoriale abbia argomentato adeguatamente sul punto con una motivazione sufficiente, logica, non contraddittoria e rispettosa della normativa in questione.
Passando alla terza doglianza, va rilevato che la stessa, articolata sotto il profilo della falsa erronea e fuorviante applicazione dell’art. 2059 c.c. e dell’art. 112 c.p.c., si fonda sulla considerazione che la Corte di Appello avrebbe omesso di statuire in ordine alla domanda di maggior quantificazione del risarcimento per equivalente, ad onta di un appello incidentale costituito dalla richiesta del riconoscimento di un danno biologico più aderente alla serietà delle compromissioni anatomo-funzionali riportate, di un più elevato danno morale e di un danno esistenziale relativo alle aspirazioni ed alla vita di relazione del deducente. Inoltre – ed in tale rilievo si sostanzia la quinta doglianza, articolata sotto il profilo della motivazione omessa ed insufficiente – la Corte territoriale non avrebbe spiegato adeguatamente le ragioni per cui ha rigettato la richiesta di riconoscimento del danno non patrimoniale sub specie di danno esistenziale nonchè la richiesta di maggior liquidazione dell’onnicomprensivo danno non patrimoniale.
Le doglianze in questione, che vanno esaminate congiuntamente prospettando ragioni di censura connesse tra loro, essendo la seconda logicamente e giuridicamente subordinata alla prima, sono entrambe inammissibili.
A riguardo, corre l’obbligo di chiarire che dalla lettura della sentenza impugnata non risulta affatto che il ricorrente avesse proposto uno specifico motivo di appello, volto a censurare la decisione in ragione del mancato “riconoscimento di un più elevato danno morale e di un danno esistenziale relativo alle aspirazioni ed alla vita di relazione”. Nè il ricorrente ha provveduto a riportare, nel ricorso per cassazione, previa trascrizione nei suoi esatti termini, il contenuto della doglianza, che avrebbe costituito il motivo di appello e sul quale la Corte di merito avrebbe omesso di pronunciarsi, come invece avrebbe avuto l’onere di fare posto che il vizio di “omessa pronuncia”, integrante un difetto di attività del giudice, vale a dire un error in procedendo, produttivo della nullità della sentenza ex art. 360 c.p.c., n. 4), si verifica, nel giudizio di appello, solo quando l’omesso esame e l’omessa decisione concernano direttamente uno specifico motivo di appello, ritualmente formulato.
Al contrario, risulta soltanto che il ricorrente avesse mosso alla quantificazione dei danni censure” Complessivamente generiche nonchè prive di apprezzabile contenuto concreto” (così, testualmente nella sentenza impugnata) che, in quanto prive di un comprensibile riscontro o irrilevanti meritavano di essere disattese, confermandosi la disposta quantificazione.
Ora, già tale rilievo induce ad escludere che il giudice di secondo grado non abbia preso in considerazione la richiesta di rideterminazione del danno. Ad ogni modo, torna utile aggiungere che, pur configurando la violazione dell’art. 112 c.p.c., un error in procedendo, per il quale la Corte di cassazione è giudice anche del “fatto processuale”, non essendo tale vizio rilevabile d’ufficio, il potere-dovere della Corte di esaminare direttamente gli atti processuali non comporta che la medesima debba ricercarli autonomamente, spettando, invece, alla parte indicarli (Cass. 10593/08).
Quanto al preteso vizio motivazionale, la censura va ritenuta inammissibile perchè non esprime concrete e specifiche critiche alla valutazione del giudice del merito nè indica quale sarebbe il danno concretamente subito dall’attore a fronte di quello ritenuto dalla sentenza.
Ne consegue che, in applicazione di questo principio, le due censure in esame, logicamente connesse, vanno entrambe dichiarate inammissibili.
Resta da esaminare l’ultima ragione di doglianza per erronea applicazione dell’art. 91 c.p.c., con cui il ricorrente ha dedotto l’erroneità della decisione per aver trascurato che la parziale soccombenza dell’appellante principale avrebbe dovuto condurre ad una compensazione degli oneri di giustizia tra le parti.
La censura non coglie nel segno in quanto, in materia di spese giudiziali, il sindacato di legittimità trova ingresso nella sola ipotesi in cui il giudice di merito abbia violato il principio della soccombenza ponendo le spese a carico della parte risultata totalmente vittoriosa (Cass. n. 14023/02, n. 10052/06, n. 13660/04, n. 5386/03, n. 1428/93, n. 12963/07, n. 17351/2010 tra le tante), intendendosi per tale, cioè totalmente vittoriosa, la parte nei cui confronti la domanda avversaria sia stata totalmente respinta, giacchè solo la parte totalmente vittoriosa, neppure in parte, può e deve sopportare le spese di causa.
In tutti gli altri casi, non si configura la violazione del precetto di cui all’art. 91 c.p.c., in quanto la materia del governo delle spese processuali rientra nei poteri discrezionali del giudice di merito e, pertanto, esula dal sindacato di legittimità, salva la possibilità di censurarne la motivazione basata su ragioni illogiche o contraddittorie (profilo nella specie insussistente e neppure dedotto dal ricorrente). Ne deriva l’infondatezza anche dell’ultima doglianza.
Considerato che la sentenza impugnata appare esente dalle censure dedotte, ne consegue che il ricorso per cassazione in esame, siccome infondato, deve essere rigettato, senza che occorra provvedere sulle spese in quanto la parte vittoriosa, non essendosi costituita, non ne ha sopportate.
La Corte rigetta il ricorso. Nulla spese.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 24 settembre 2014.
Depositato in Cancelleria il 4 novembre 2014