Con sentenza in data 4.6/29.7.2002 il giudice adito condannava l’Azienda a provvedere direttamente al lavaggio di tutti gli indumenti forniti ai ricorrenti e respingeva le ulteriori domande.
Proposta impugnazione, la Corte di appello di Torino, con sentenza del 18.1/15.2.2005, in parziale accoglimento del gravame, condannava l’Azienda a corrispondere in favore di ciascuno degli appellanti, a titolo di risarcimento del danno, la somma annua di Euro 240,00, oltre accessori legali, in relazione al periodo dedotto in causa dagli stessi e non coperto da prescrizione.
Osservava in sintesi la corte territoriale che era pacifico che gli appellanti avessero utilizzato, in relazione alle mansioni svolte, gli indumenti di lavoro, ed in particolare gli oggetti di vestiario richiamati nell’art. 20, comma 4, del contratto collettivo di settore, e che doveva considerarsi notorio che tali indumenti, utilizzati nell’ambito di prestazioni manuali relative alla raccolta di rifiuti, necessitavano di lavaggio periodico, i cui costi (stante l’accertato inadempimento dell’Azienda rispetto al relativo obbligo contrattuale) erano stati sopportati dai ricorrenti, con conseguente danno, da liquidarsi equitativamente, non essendo suscettibile di prova nel suo preciso ammontare.
Per la cassazione della sentenza propone ricorso l’Azienda affidandolo a quattro motivi.
Resistono con controricorso gli intimati.
Diritto
Con il secondo motivo la ricorrente lamenta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, violazione degli artt. 1218, 1223, 2697, 2727 e 2729 c.c.; art. 115 c.p.c., comma 2, artt. 116 e 132 c.p.c., nonchè vizio di motivazione sul punto, prospettando che la corte territoriale aveva considerato non controverso che gli appellanti avessero utilizzato, in relazione alle mansioni svolte, con cadenza giornaliera gli indumenti di lavoro contemplati nell’art. 20, comma 4, del contratto collettivo di settore non considerando che l’Azienda aveva, sin dalla memoria di primo grado, contestato che i ricorrenti avessero svolto le mansioni indicate in ricorso; che questi ultimi non avevano mai specificato quali fossero gli indumenti di lavoro che avevano utilizzato ed indossato, limitandosi a richiamare la norma contrattuale, che, però, non li individuava; che si era presunto come notorio, con motivazione insufficiente ed illogica, l’uso giornaliero di “non meglio precisati indumenti” e come provata la circostanza che gli stessi fossero stati effettivamente lavati, desumendosi erroneamente l’effettiva sussistenza del danno lamentato dalla solo circostanza che l’Azienda era inadempiente all’obbligo di lavaggio. Sicchè,in definitiva, si era ritenuto come pacifico e provato il danno lamentato, sebbene gli appellanti stessi non lo avessero ritenuto tale, chiedendo di provarlo.
Con il terzo motivo, svolto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, in relazione agli artt. 2056, 1226 e 2697 c.c., e all’art. 414 c.p.c., nn. 3 e 4, la ricorrente si duole circa la valutazione equitativa del danno operata dalla corte di merito, avendo la stessa erroneamente ritenuto che fosse impossibile o gravemente difficoltoso provare il costo dei lavaggi, trascurando di considerare che tale situazione era, in realtà, conseguenza dell’inerzia processuale degli appellanti, che non avevano nemmeno individuato gli indumenti che adducevano di aver lavato, e che, comunque, i relativi costi, ancorchè contestati, potevano essere verificati a mezzo di consulenza tecnica, espressamente richiesta dagli appellanti.
Con l’ultimo motivo infine la ricorrente prospetta, in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, violazione e falsa applicazione degli artt. 416 e 116 c.p.c., nonchè degli artt. 2727, 2729 e 2697 c.c..
Osserva, al riguardo, che la sentenza impugnata deve ritenersi errata anche con riferimento ai parametri tenuti presenti ai fini della liquidazione equitativa, avendo la stessa preso in considerazione il tempo impiegato dai familiari per le operazioni di pulizia degli indumenti, pur dovendosi presumere che il lavaggio riguardasse anche altri indumenti; che si erano considerati i parametri di liquidazione prospettati dagli appellanti come non contestati dall’Azienda, sebbene la stessa avesse contestato in toto le avverse richieste; che non erano spiegate le ragioni che avevano indotto la corte a individuare il numero e la frequenza dei lavaggi.
Il primo motivo è fondato.
E’ incontroverso che i difensori di (omissis), deceduta il (omissis), avevano proposto appello, con atto depositato il 25.7.2003, in forza della procura rilasciata in calce al ricorso introduttivo del giudizio, sebbene gli stessi non fossero a ciò legittimati a seguito del decesso della parte successivamente alla pubblicazione della sentenza di primo grado.
Si è precisato, infatti, dalla giurisprudenza di questa Suprema Corte che quando si verifica, nel periodo compreso fra la pubblicazione della sentenza di primo grado e la proposizione del gravame, la morte o la perdita della capacità di agire della persona fisica, non vi è ultrattività del mandato rilasciato al difensore, comprendente il potere di impugnazione, atteso che, in mancanza di una specifica regolamentazione del mandato ad litem, deve trovare applicazione con riguardo ad esso il principio generale di cui all’art. 1722 c.c., secondo il quale la morte del mandante estingue il mandato (così SU n. 10706/2006).
La sentenza impugnata va, pertanto, in parte qua annullata senza rinvio, stante l’inammissibilità dell’appello proposto nell’interesse di (omissis).
Il secondo motivo non è meritevole di accoglimento.
Deve, al riguardo, innanzi tutto rilevarsi come lo svolgimento da parte dei resistenti di mansioni manuali relative alla raccolta dei rifiuti e alle operazioni accessorie, puntualmente indicate in ricorso unitamente ai relativi periodi temporali di riferimento, è stato qualificato dalla corte territoriale come fatto incontroverso, senza che tale apprezzamento risulti in alcun modo censurabile.
Osserva, in proposito l’Azienda ricorrente che, costituendosi in giudizio, aveva contestato tali circostanze eccependo che “le mansioni addotte da controparte per un verso risultano essere quelle svolte nell’ultimo periodo, e quindi non idonee a supportare il pregresso, per altro verso per molti ricorrenti sono inesatte, atteso che le mansioni di questi risultano essere quelle di cui all’allegato doc. 6 e quindi ancor meno adeguate ai fini suddetti”.
E’agevole, tuttavia, osservare come tali contestazioni, da un lato, non appaiono tali da contrastare la valutazione del giudice di merito (per la necessaria equiparazione fra la contestazione generica e la mancanza di contestazione: laddove, nel caso,nemmeno si specificano i diversi periodi e le diverse mansioni richiamati dal datore di lavoro), dall’altro, comunque, si estrinsecano in censure non conformi al principio di necessaria autosufficienza del ricorso, facendosi riferimento a documenti esterni al ricorso stesso, e quindi non direttamente valutabili dal giudice di legittimità.
Dovendosi rammentare, secondo il costante insegnamento di questa Suprema Corte, che la parte che denuncia, in sede di legittimità, il difetto di motivazione su un’istanza di ammissione di un mezzo istruttorio o sulla valutazione di un documento o di risultanze probatorie e processuali, ha l’onere di indicare specificamente le circostanze oggetto della prova o il contenuto del documento trascurato o erroneamente interpretato dal giudice di merito, al fine di consentire il controllo della decisività dei fatti da provare e, quindi, delle prove stesse, dato che questo controllo, per il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, deve poter essere compiuto dalla corte di cassazione sulla base delle deduzioni contenute nell’atto, alle cui lacune non è consentito sopperire con indagini integrative (v. ad es. per tutte Cass. n. 10913/1998; Cass. n. 12362/2006).
Per il resto, deve osservarsi che la sentenza impugnata ha fatto corretta applicazione, ai fini della prova dei danni lamentati, della nozione giuridicamente rilevante di fatto notorio (art. 115 c.p.c.), assegnando tale rilievo alla circostanza, obiettivamente conosciuta e rilevabile, che gli indumenti di lavoro forniti dal datore di lavoro ai dipendenti addetti alle operazioni di raccolta dei rifiuti abbisognano di lavaggi periodici.
Ed invero, il ricorso alle nozioni di comune esperienza attiene all’esercizio di un potere discrezionale riservato al giudice di merito, il cui giudizio circa la sussistenza di un fatto notorio può essere censurato in sede di legittimità solo se sia stata posta a base della decisione una inesatta nozione del notorio, da intendersi come fatto conosciuto da un uomo di media cultura in un dato tempo e luogo (cfr. ad es. Cass. n. 27591/2005), e quindi con riferimento a circostanze conosciute e comunemente note dalla generalità dei cittadini o in un determinato luogo e che non presentino margini di rilevante opinabilità.
Requisiti di obiettiva certezza del dato di esperienza che, con congruo accertamento, la corte piemontese ha ritenuto sussistere nella situazione in esame, dopo aver opportunamente individuato, sulla base della nozione contrattuale e del lessico comune, gli “indumenti di lavoro” negli “oggetti di vestiario” forniti dall’Azienda stessa (e pure da quest’ultima, pertanto, sicuramente individuabili, tanto che, nel frattempo, l’attività di lavaggio è stata assunta, in adempimento di preciso obbligo contrattuale, dall’Azienda in proprio). Anche il terzo motivo è infondato.
La sentenza impugnata, nel determinare i danni con valutazione equitativa, ha dato atto di come l’impossibilità di provare nel loro esatto ammontare i costi e le spese sostenute derivi proprio dalla natura degli stessi, “normalmente affrontati nell’ambito della “piccola e quotidiana economia familiare” e quindi privi di ogni riscontro di carattere documentale e comunque non dimostrabili con altro mezzo istruttorio” ed ha, altresì, motivatamente specificato i parametri (voci e valori di costo, numero e frequenza dei lavaggi) presi a riferimento per la valutazione ai sensi dell’art. 432 c.p.c..
Così ottemperando alle condizioni richieste, secondo l’insegnamento di questa Suprema Corte, per il legittimo esercizio da parte del giudice del lavoro del potere di liquidazione del danno in via equitativa, che presuppone l’individuazione, con adeguata motivazione, dei criteri adottati e dell’iter logico seguito, anche con riguardo all’obiettiva impossibilità di una determinazione certa della somma dovuta alla stregua degli elementi acquisiti al processo (v. ad es. Cass. n. 6333/2003; Cass. n. 13887/2004).
Non meritevole di accoglimento è, infine, l’ultimo motivo, trattandosi di censure alla valutazione equitativa operata dai giudici di merito, da questa Suprema Corte ritenuta conforme, quanto alle condizioni giustificative ed ai criteri adottati, ai canoni legali.
Il ricorso va, pertanto, rigettato. Le spese seguono la soccombenza.