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Cassazione civile sez. III, 04/07/2024, n. 18312

Massima

Deve, in premessa, rammentarsi che il danno da lesione del diritto, costituzionalmente tutelato, all’autodeterminazione è risarcibile qualora il paziente alleghi e provi che dalla omessa, inadeguata o insufficiente informazione gli siano comunque derivate conseguenze dannose, di natura non patrimoniale, diverse dal danno da lesione del diritto alla salute, in termini di sofferenza soggettiva e contrazione della libertà di disporre di se stesso, psichicamente e fisicamente. Qualora venga dedotta la violazione del diritto all’autodeterminazione, è dunque indispensabile allegare specificamente quali altri pregiudizi, diversi dal danno alla salute eventualmente derivato, il danneggiato abbia subito, dovendosi negare un danno in “re ipsa”. Deve anche aggiungersi che la lesione del diritto all’autodeterminazione viene in rilievo in presenza del consenso presunto all’intervento e del peggioramento delle condizioni di salute preesistenti, ma in assenza di una condotta negligente del sanitario.

Supporto alla lettura

Responsabilità medica

Il 17 marzo 2017 è stata pubblicata in Gazzetta Ufficiale la legge 8 marzo 2017 n. 24, recante “Disposizioni in materia di sicurezza delle cure e della persona assistita, nonché in materia di responsabilità professionale degli esercenti le professioni sanitarie.

Il legislatore ha inteso tipizzare la responsabilità in campo sanitario e certamente ciò non costituisce una novità nell’ambito della responsabilità civile (si pensi alla responsabilità per danno ambientale disciplinata dal d.lgs 152/2006 e s.m.i. ovvero ai profili speciali già tratteggiati dal codice civile negli artt. 2049 e s.s. c.c.). L’art. 7  della legge di riforma prevede che la struttura sanitaria o sociosanitaria pubblica o privata che nell’adempimento della propria obbligazione si avvalga dell’opera di esercenti la professione sanitaria, anche se scelti dal paziente e anche se non dipendenti dalla struttura, risponde delle loro condotte dolose e colpose ai sensi degli artt. 1218 (Responsabilità del debitore) e 1228 (Responsabilità per fatto degli ausiliari) del codice civile. Viene recepito dal legislatore l’approdo della giurisprudenza sull’inquadramento della natura della responsabilità sanitaria della struttura nel solco del contratto atipico di spedalità (Cass., sez. un. 11.1.2008 n. 577; Cass. civ., 20.1.2014, n. 993). L’art. 7 comma 3 della legge 24/17 costituisce il cuore della riforma laddove individua nella responsabilità extracontrattuale la regola generale mentre la natura contrattuale della responsabilità del sanitario costituisce l’eccezione. Dunque sembrerebbe che il legislatore abbia estromesso la regola del contatto sociale dal suo ambito di elezione ma non chiuso definitivamente alla possibilità di configurare una responsabilità contrattuale. Al fine di poter inquadrare le situazioni tipo in cui si potrebbe qualificare il rapporto medico – paziente dal punto di vista contrattuale, in assenza di uno schema negoziale formale, potenzialmente ripiegano sulle regole del consenso informato.

L’art. 8 prevede, invece, un meccanismo finalizzato a ridurre il contenzioso per i procedimenti di risarcimento da responsabilità sanitaria mediante un tentativo obbligatorio di conciliazione da espletare da chi intende esercitare in giudizio un’azione risarcitoria attraverso la mediazione ovvero un ricorso 696-bis c.p.c.. La Cassazione con ben dieci sentenze l’11 novembre 2019, ha provato a ricostruire il sistema della responsabilità medica cercando di dare risposte tra i dubbi interpretativi alimentati dall’inerzia del legislatore che non ha dato piena attuazione alla legge 24/17 (Cass. 28985/2019; Cass. 28986/2019; Cass. 28987/2019; Cass. 28988/2019; Cass. 28989/2019; Cass. 2990/2019; Cass. 28991/2019; Cass. 28992/2019; Cass. 28993/2019; Cass. 28994/2019). Gli argomenti affrontati dalla Cassazione attengono a temi centrali della responsabilità medica ed in particolare: 1. Il limite all’applicazione retroattiva della legge Gelli Bianco; 2. Il consenso informato; 3. La rivalsa della struttura sanitaria; 4. Il principio distributivo dell’onere probatorio nella responsabilità contrattuale; 5. L’accertamento e la liquidazione del danno differenziale da aggravamento della patologia preesistente; 6. Il danno da perdita di chance; 7. La liquidazione del danno.

Ambito oggettivo di applicazione

Fatti di causa

a seguito di accertamento tecnico preventivo, a conclusione del quale, in relazione a paraplegia grave conseguente ad intervento chirurgico di revisione della derivazione spino-midollare, era stata evidenziata la negligenza professionale sia nella mancata sospensione dell’eparina dodici ore prima e dodici ore dopo l’intervento che nella mancanza del consenso informato in relazione alle complicanze dell’intervento, la paziente B.B. convenne in giudizio innanzi al Tribunale di Siena l’Azienda Ospedaliera Universitaria Senese chiedendo il risarcimento del danno. Deceduta nel corso del giudizio l’attrice, la causa venne riassunta dal figlio A.A. e dal coniuge C.C. Disposta l’integrazione di consulenza tecnica, il Tribunale adito rigettò la domanda. Avverso detta sentenza propose appello la parte attrice. Con sentenza di data 18 maggio 2022 la Corte d’Appello di Firenze rigettò l’appello.

Osservò la corte territoriale, premesso che, contrariamente a quanto ritenuto dal primo giudice, era stato invocato il danno da perdita di chance, che vi era assenza di nesso causale, secondo il criterio del “più probabile che non”, tra la somministrazione di eparina prima dell’intervento e l’evento dannoso verificatosi, ovvero la perdita di funzionalità degli arti inferiori, sulla base del seguente chiarimento del CTU: “l’ematoma epidurale sopravvenuto alla paziente, che ha determinato la paraplegia e il disturbo sfinterico, è stato prodotto da un insieme di fattori patologici preesistenti fra i quali i più importanti sicuramente individuabili in patologia vascolare sistemica, in alterazione del canale vertebrale sia su base degenerativo artrosica che congenita quale una stenosi del canale vertebrale a livello dorso-lombare (sede dell’ematoma) e quale attore accessorio dalla mancata sospensione della terapia eparinica a basso peso molecolare, terapia che aveva sostituito da 7 giorni quella con Cardioaspirina, della quale la signora B.B. faceva uso a causa della patologia vascolare sistemica e del pregresso ictus ischemia… di peso sostanzialmente maggiore risultano la patologia vascolare e la stenosi rachidea delle quali la paziente era portatrice, mentre solo in bassa percentuale (10%) la mancata sospensione del trattamento eparinico”. Concluse pertanto che, avendo il CTU evidenziato che la somministrazione eparinica aveva nel caso di specie solo aumentato la percentuale di verificazione dell’evento di circa il 10 – 15%, percentuale comunque molto inferiore al 50%, non poteva ritenersi secondo il criterio del “più probabile che non” che la condotta alternativa ritenuta doverosa (sospensione terapia eparinica) avrebbe evitato l’evento lesivo verificatosi.

Aggiunse, quanto all’omesso consenso informato, dedotto quale lesione del diritto all’autodeterminazione (in primo grado il danno alla salute era stato dedotto in relazione alla negligente prestazione sanitaria, non in relazione al mancato consenso informato), che non risultavano allegate le conseguenze dannose della lesione dedotta, avendo la parte attrice l’onere di allegare, ancor prima di provare, i fatti e le circostanze in concreto scaturite dalla lesione del proprio diritto all’autodeterminazione, come ad esempio la preclusione della facoltà di accedere ad ulteriori accertamenti, la mancanza di tempo per prepararsi alle eventuali possibili conseguenze dell’intervento, il venir meno dell’opportunità di organizzare la propria vita nella prospettiva dei rischi dell’intervento. Osservò ancora che tardiva era l’allegazione in grado di appello – fatta peraltro in termini generici – che, se adeguatamente informata, l’attrice non si sarebbe mai sottoposta all’intervento chirurgico e che comunque tale allegazione, relativa alla lesione del diritto alla salute e non all’autodeterminazione, era inidonea a fondare, sia pure in termini presuntivi, “che la de cuius, qualora edotta degli eventuali effetti e rischi dell’intervento non vi si sarebbe sottoposta, considerata la grave situazione di salute della stessa, con difficoltà di movimento e di ideazione, congiunte a problemi di incontinenza, nonché considerato che il CTU non ha in alcun modo censurato né la scelta dell’intervento, né le scelte tecnico-esecutive dello stesso”.

Ha proposto ricorso per cassazione A.A., nella qualità di erede di B.B. e C.C. sulla base di quattro motivi e resiste con controricorso la parte intimata. È stato fissato il ricorso in camera di consiglio ai sensi dell’art. 380 bis.1 cod. proc. civ. È stata presentata memoria.

Motivi della decisione

con il primo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 1218 e 2697 cod. civ., ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ. Premette la parte ricorrente che nell’elaborato peritale si è affermato che “esistono differenze di complicazioni emorragiche tra procedure eseguite in pazienti che hanno utilizzato eparina rispetto a quelli che non la hanno eseguita. Questa differenza si riassume in una possibilità di un aumento di incidenza di ematoma spinale di 3,16 volte nei soggetti che sono stati trattati con eparina in modi e tempi corretti. In quei pazienti che hanno eseguito eparina in prossimità della procedura, come nel caso in esame, questo aumento è di circa 25,2 volte”. Osserva quindi, sulla base del criterio della probabilità logica (Cass. n. 4024 del 2018), e non statistica (criterio invece adoperato dal giudice del merito), che il valore in esame porta a ritenere che la mancata sospensione del trattamento eparinico sia da considerare foriera di forza causale nel determinismo dell’ematoma che ha condotto alla paraplegia (e peraltro, come accertato dal CTU, la sospensione del trattamento eparinico non avrebbe cagionato alcun effetto pregiudizievole sulla paziente).

Precisa che la sentenza si appalesa del tutto illogica nella parte in cui ha applicato il criterio meramente statistico al caso di specie, e non quello logico-razionale, ritenendo non provato il nesso di causalità tra la condotta omissiva dei sanitari e l’ematoma derivato dalla somministrazione, affermando che “l’aumento di verificazione dell’evento di circa il 10 – 15%” sia una percentuale “comunque molto inferiore al 50%” e che la Corte nell’applicazione del criterio logico-razionale avrebbe dovuto valutare l’ulteriore elemento, ossia che qualora i sanitari si fossero comportati come l’agente modello è “più probabile che non” che l’incidenza dell’ematoma non sarebbe aumentata di circa 25,2 volte, con conseguente paraplegia e vescica e intestino neurologici.

Il motivo è fondato, sotto un duplice profilo. In primo luogo, considerando la fattispecie dal punto di vista della causalità materiale in relazione all’evento di danno alla salute, va evidenziato che la corte territoriale ha escluso la ricorrenza del nesso eziologico recependo sul punto la valutazione della CTU, secondo cui l’ematoma epidurale sopravvenuto alla paziente, che ha determinato la paraplegia e il disturbo sfinterico, è stato cagionato da patologie preesistenti, rispetto alle quali ha avuto una funzione accessoria la mancata sospensione della terapia eparinica a basso peso molecolare, per cui di peso sostanzialmente maggiore risultano la patologia vascolare e la stenosi rachidea delle quali la paziente era portatrice, mentre solo in bassa percentuale (10%) ha inciso la mancata sospensione del trattamento eparinico.

Escludendo il nesso eziologico della condotta medica, solo perché dotata di efficienza eziologica minore rispetto allo stato patologico pregresso, il giudice del merito ha violato il principio di diritto secondo cui qualora l’evento dannoso risulti riconducibile alla concomitanza di una condotta umana e di una causa naturale, tale ultima dovendosi ritenere lo stato patologico non riferibile alla prima, l’autore del fatto illecito risponde “in toto” dell’evento eziologicamente riconducibile alla sua condotta, in base ai criteri di equivalenza della causalità materiale, potendo l’eventuale efficienza concausale dei suddetti eventi naturali rilevare esclusivamente sul piano della causalità giuridica, ex art. 1223 c.c., ai fini della liquidazione, in chiave complessivamente equitativa, dei pregiudizi conseguenti, ascrivendo all’autore della condotta un obbligo risarcitorio che non comprenda anche le conseguenze dannose da rapportare, invece, all’autonoma e pregressa situazione patologica del danneggiato (così, da ultimo Cass. n. 26851 del 2023).

In secondo luogo, deve considerarsi che la valutazione del nesso eziologico è stata svolta dal giudice del merito anche in relazione alla domanda risarcitoria avente per oggetto l’evento dannoso costituito dalla perduta chance. Nella valutazione di tale domanda il giudice del merito ha, in realtà, applicato il criterio eziologico relativo al pregiudizio subito alla salute. Evidenziando, infatti, che la somministrazione eparinica aveva nel caso di specie solo aumentato la percentuale di verificazione dell’evento di circa il 10 – 15%, percentuale comunque molto inferiore al 50%, ha poi escluso che, secondo il criterio del “più probabile che non”, la condotta alternativa ritenuta doverosa (sospensione terapia eparinica) avrebbe evitato l’evento lesivo verificatosi. In tal modo non ha svolto però la valutazione dal punto di vista della chance, posto che l’accertamento del nesso di causa avente ad oggetto la perdita di “chance” di conseguire un risultato utile non richiede anche l’accertamento della concreta probabilità di conseguire il risultato (Cass. n. 24050 del 2023).

La domanda risarcitoria del danno per la perdita di chance è, per l’oggetto, ontologicamente diversa dalla pretesa di risarcimento del pregiudizio derivante dal mancato raggiungimento del risultato sperato, il quale si sostanzia nell’impossibilità di realizzarlo, caratterizzata da incertezza (non causale, ma) eventistica (Cass. n. 25886 del 2022). In materia di perdita di “chance”, l’attività del giudice deve tenere distinta la dimensione della causalità da quella dell’evento di danno e deve altresì adeguatamente valutare il grado di incertezza dell’una e dell’altra, muovendo dalla previa e necessaria indagine sul nesso causale tra la condotta e l’evento, secondo il criterio civilistico del “più probabile che non”, e procedendo, poi, all’identificazione dell’evento di danno, la cui riconducibilità al concetto di chance postula una incertezza del risultato sperato, e non già il mancato risultato stesso, in presenza del quale non è lecito discorrere di una chance perduta, ma di un altro e diverso danno (Cass. n. 5641 del 2018). Si può pertanto legittimamente discorrere di chance perduta in relazione all’incertezza non della causa, ma dell’evento, per cui, come affermato da Cass. n. 26851 del 2023 (ai cui criteri in materia si fa qui rinvio), è risarcibile equitativamente la possibilità perduta, se apprezzabile, seria e concreta, una volta che sia stato provato il nesso causale fra la condotta e la possibilità perduta (id est l’evento incerto). Si tratta di una valutazione che il giudice del merito non ha svolto nel caso di specie, essendosi limitato a valutare se la condotta alternativa ritenuta doverosa (sospensione terapia eparinica) avrebbe evitato l’evento lesivo verificatosi, e che invece deve svolgere, una volta che abbia riconosciuto che una domanda per la chance perduta sia stata proposta.

In conclusione, il giudice del merito dovrà valutare il nesso eziologico rispetto all’evento del danno alla salute nei termini sopra indicati. Ove il giudizio di fatto sia sul punto negativo, dovrà procedere all’accertamento di fatto in relazione al diverso evento della perduta chance.

Con il secondo motivo si denuncia omesso esame del fatto decisivo e controverso ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5, cod. proc. civ. Osserva la parte ricorrente che il giudice del merito ha omesso di valutare i rilievi di CTU in sede di integrazione dell’elaborato, ed in particolare che: la somministrazione di eparina in diretta concomitanza dell’intervento secondo la letteratura medica favorisce il rischio emorragico; la letteratura scientifica raccomanda una somministrazione di eparina a scopo profilattico non dopo le 12 ore dalla procedura e non prima di 24 ore dalla fine di questa, condizioni diverse da quelle indicate sono ritenute contrindicanti la procedura di immissione o rimozione di cateteri spinali; nel caso della Sig.ra B.B. la somministrazione è avvenuta alle ore 16, ossia subito prima di essere trasferita in sala operatoria, mentre avrebbe dovuto essere sospesa dodici ore prima dell’intervento; l’aspetto che appare importante nella valutazione del successivo evento emorragico, che si è poi verificato, è la somministrazione di eparina pochi minuti prima che la paziente venisse portata in sala operatoria e poi operata; in quei pazienti che hanno eseguito eparina in prossimità della procedura la possibilità di aumento di incidenza di ematoma spinale è di circa 25,2 volte. Aggiunge che la Corte di Appello ha posto l’accento sul dato percentuale riportato dal C.T.U. del 10-15% (rectius 14-15%) relativo all’aumento della possibilità che l’ematoma si verificasse in caso di mancata sospensione del trattamento eparinico, apoditticamente e senza alcuna logica matematica, né statistica, rispetto all’ulteriore dato di partenza riportato dal C.T.U. e relativo all’aumento di circa 25,2 volte della possibilità che si verificasse l’ematoma in questione in presenza di somministrazione di eparina e che, mentre non si rinviene nell’elaborato peritale il percorso logico-matematico che ha condotto alla percentuale del 14-15%, il dato effettivo dell’aumento di circa 25,2 volte si rinviene dalla letteratura scientifica. Osserva infine che in presenza di più possibili e diverse concause di un medesimo fatto (nel caso di specie: patologia vascolare, stenosi rachidea, somministrazione eparina) laddove non risulti chiaramente e con evidenza quali di esse abbia avuto efficacia esclusiva rispetto all’evento, è compito del giudice valutare quale di esse appaia “più probabile che non” rispetto alle altre nella determinazione dell’evento, e non già negare l’esistenza della prova del nesso causale, per il solo fatto che il danno possa essere ascritto a varie ipotesi alternative.

L’accoglimento del precedente motivo determina l’assorbimento del motivo. Una volta rettificato, nella presente sede di legittimità, il criterio normativo da seguire nell’indagine causalistica, il giudice del merito dovrà rivalutare, in base al detto criterio, le circostanze fattuali. Il motivo è anche assorbito quanto al riferimento finale al criterio causalistico, dovendo il giudice fare applicazione del principio di diritto sopra richiamato in presenza di concomitanza di una condotta umana e di una causa naturale, da identificare nello stato patologico non riferibile alla prima.

Con il terzo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 1218, 1223 e 2697 cod. civ., 13 e 32, comma 2, Cost., ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ. Osserva la parte ricorrente che sufficiente sul piano delle allegazioni ai fini della denuncia del mancato consenso informato, lesivo del diritto all’autodeterminazione, è la circostanza dell’omessa informazione circa la possibilità di perdere l’uso degli arti inferiori a seguito dell’intervento e di non essere più autosufficiente, come di fatto accaduto.

Il motivo è inammissibile. Deve, in premessa, rammentarsi che il danno da lesione del diritto, costituzionalmente tutelato, all’autodeterminazione è risarcibile qualora il paziente alleghi e provi che dalla omessa, inadeguata o insufficiente informazione gli siano comunque derivate conseguenze dannose, di natura non patrimoniale, diverse dal danno da lesione del diritto alla salute, in termini di sofferenza soggettiva e contrazione della libertà di disporre di se stesso, psichicamente e fisicamente (Cass. n. 16633 del 2023). Qualora venga dedotta la violazione del diritto all’autodeterminazione, è dunque indispensabile allegare specificamente quali altri pregiudizi, diversi dal danno alla salute eventualmente derivato, il danneggiato abbia subito, dovendosi negare un danno in “re ipsa” (Cass. n. 24471 del 2020). Deve anche aggiungersi che la lesione del diritto all’autodeterminazione viene in rilievo in presenza del consenso presunto all’intervento e del peggioramento delle condizioni di salute preesistenti, ma in assenza di una condotta negligente del sanitario (Cass. n. 16633 del 2023).

Ciò premesso, deve evidenziarsi che il giudice del merito ha affermato che in relazione alla lesione del diritto all’autodeterminazione non risultano allegate le conseguenze dannose della lesione dedotta. A fronte di una tale statuizione, che rileva sul piano delle allegazioni in sede di atto introduttivo del giudizio di primo grado, e comunque in sede di tempestive allegazioni sempre nel giudizio di primo grado, la censura non è scrutinabile perché del tutto carente sul piano dell’assolvimento dell’onere processuale di cui all’art. 366, comma 1, n. 6 c.p.c. Sia in sede di esposizione sommaria dei fatti di causa, che di formulazione del motivo, il ricorrente ha omesso di indicare quali siano state le allegazioni, in punto di lesione del diritto all’autodeterminazione, tempestivamente introdotte nel giudizio di merito.

Con il quarto motivo si denuncia omesso esame del fatto decisivo e controverso ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5, cod. proc. civ. Premette la parte ricorrente che la Corte ha rilevato che lo stato di salute in cui versava la Sig.ra B.B. al momento dell’ingresso in sala operatoria (difficoltà di movimento e di ideazione) non avrebbe in ogni caso consentito alla stessa di operare una scelta consapevole rispetto agli effetti e ai rischi dell’intervento e di autodeterminarsi, per cui era da considerare irrilevante la mancanza di consenso informato nel caso di specie. Osserva che, al contrario, la Sig.ra B.B. era non solo in grado di muoversi, ma era in grado di intendere e volere tanto da poter liberamente scegliere – qualora fosse stata adeguatamente informata – se affrontare l’intervento richiesto e se sospendere o meno la terapia eparinica. Aggiunge che dalla cartella clinica emerge quanto segue: “alle ore 00:20 entrava al P.S. dell’ospedale Le Scotte “… paziente sordomuta lamenta nausea… la paziente viene accompagnata dal medico del 118 del C in seguito a transitoria perdita di coscienza della durata di meno di un minuto senza trauma. La paziente riferisce nausea… vigile e collaborante nonostante la sua disabilità.; alle ore 06:00 entrava in reparto proveniente dall’ospedale di A “… paziente sordomuta. Paziente sveglia, abbastanza collaborante, muove i quattro arti, deficit dell’equilibrio. Ha il pannolone per parziale incontinenza urinaria. Già eseguito Rx torace. ECG da refertare. Da praticare tampone rettale”.

Il motivo è inammissibile. La censura attinge il giudizio relativo al consenso informato sul versante del danno alla salute. A tale proposito la corte territoriale ha rilevato che tardiva era l’allegazione in grado di appello – fatta peraltro in termini generici – che, se adeguatamente informata, l’attrice non si sarebbe mai sottoposta all’intervento chirurgico. Si coglie qui un duplice profilo di inammissibilità del motivo di appello. In primo luogo la tardività dell’allegazione, proposta in grado di appello e non in primo grado (il giudice di appello ha rilevato che in primo grado il danno alla salute era stato dedotto in relazione alla negligente prestazione sanitaria, non in relazione al mancato consenso informato). In secondo luogo, con il rilievo di genericità, si evidenzia anche la carenza di specificità del motivo, in base all’art. 342 c.p.c. Tali profili di inammissibilità non risultano specificatamente censurati per cui, non aggredita la ratio decidendi della sentenza al riguardo, il motivo, relativo alla trattazione nel merito, è inammissibile.

Sul punto va rammentato che qualora il giudice, dopo una statuizione di inammissibilità, con la quale si è spogliato della “potestas iudicandi” in relazione al merito della controversia, abbia impropriamente inserito nella sentenza argomentazioni sul merito, la parte soccombente non ha l’onere né l’interesse ad impugnare; conseguentemente è ammissibile l’impugnazione che si rivolga alla sola statuizione pregiudiziale ed è viceversa inammissibile, per difetto di interesse, l’impugnazione nella parte in cui pretenda un sindacato anche in ordine alla motivazione sul merito, svolta “ad abundantiam” nella sentenza gravata (Cass. Sez. U. n. 3840 del 2007 ed altre conformi). Il ricorrente ha impugnato la statuizione relativa al merito, impropriamente inserita nella motivazione, ma non ha impugnato la parte relativa alla inammissibilità del motivo di appello.

È appena il caso di aggiungere che, in presenza di doppia conforme, il ricorrente, onde evitare il divieto di denuncia di vizio motivazionale ai sensi dell’art. 348 ter c.p.c, aveva l’onere di dimostrare che la pronuncia di primo grado si reggesse su ragioni di fatto divergenti rispetto alla sentenza di appello, ma ha omesso del tutto di illustrare il contenuto della motivazione di primo grado.

P.Q.M.

Accoglie il primo motivo del ricorso, con assorbimento del secondo motivo, e dichiara inammissibile per il resto il ricorso; cassa la sentenza in relazione al motivo accolto; rinvia alla Corte di appello di Firenze in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma il giorno 17 giugno 2024.

Depositata in Cancelleria il 4 luglio 2024.

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